venerdì 31 maggio 2013

perché ti difendi

perché ti difendi
perché non smetti
vorrei parlarti
se solo potessi metterti a sedere
se solo potessi lasciarti andare senza mani
e sostenerti
come uno dei figli appena nati
o come uno dei tanti solo
incapaci d'ergersi
o camminare
andare avanti
sporgersi

come se potessi scrollare
l'inverno addosso
come se potessi dire che altre stagioni
hanno nomi festanti
e mani generose di donna
e labbra pronte
ad un sorriso senza nulla in cambio

ma tu difendi i perché
e non smetti i perché
e lasci medaglie rovesciate
come cocci di conchiglia
e porti via un indifferente
completo grigio di battigia.

giovedì 30 maggio 2013

mi mento e mi volgo

Queste note che sono andato appuntando per decenni, sparsi;
parole appuntite, a volte, ne sono sortite;
o sciurtùte, se erano puntute;
sparsi i decenni, e le parole;
gli uni e le altre ho sparso;
non ritrovo, ma gioco di parole
luogo-non luogo
sfogliando
margherite col naso all'insù
e fissità di girasoli,
furmìcule e grasòmuli;
sparsi i decenni, Ermengarda
accusata alla greca
come in insalata
pora dona, a povarèdda, feta?

I decenni che m'appuntivano, spargendosi ignoti
i gùviti sfregati alla finestra
petra e pùmicia
in attesa che salisse
un poco di sale agli occhi
e rinfrescasse nantìcula la mente
capire, quanto essere compresi
ma in un lugare preciso
e rendersi brillanti
come una intelligenza impomatata
darsi
una alliffata di pensieri
nutrire
di piccoli imbrogli
miserabili intelligenze
di furbizie
e su tutto
in calce...
FERNET BRANCA!
ricordarsi di:
salvare il cavallo rayan
rovesciare il brandy che crea una atmosfera
to visit barillìaco mulino
sventolare banderas al vento
HO SCRITTO DELLE MINCHIATE COME NON MAI
o come avrei fatto tutte le volte che mi sono astenuto dal farlo.





mercoledì 29 maggio 2013

ma quale sarà
il tempo di tornare
e chiamare fiori
e volti
per nome,
quando sarà ad avvolgere
un tempo di silenzi
convolvoli ed amanti...
ho sentito l'avvio dei miei passi

e l'abbrivio sapeva di buon vento

ma il glicine è poco più di attimo

ché le rovine hanno in fine

la meglio dell'infiorescenza

rimane una traccia, un'orma sul muro

l'ombra dei pensieri che s'intrecciano

scorsoi, e tramonti

quasi dita di colore

nelle linee progressive della sera...
eppure dovevo essere qui
non avevo dubbi
ma ora
ma ora una leggera assenza
uno smarrimento
basta a dubitare

devo essermi dimenticato
in qualche tasca di giacca lisa
dove mi abbevero ancora a parlare di futuro
ma è solo un tempo nato a perdere
e sul nascere non c'è partita che tenga
la trama inservibile dei fili a scernere
dall'opera di tantalo
Non saprei, camminando osservavo le lumache sulla strada, dopo la pioggia, e da qualche parte della memoria, forse da quello spazio destinato ai sedimenti, quella parte forse meno controllabile del 'sentire', mi tornava in mente 'qualcosa' di William Blake, che sono andato a ripescare, e che era l'ulima strofa della poesia tradotta in italiano da Giuseppe Ungaretti, alla quale fa riferimento il link. Quanto segue è, invece, quello che ho pensato io, molto più terra terra, ad altezza di lumaca.
Ha chjovùtu e i merùchi
C’ull’ha jaccàt’ u tronu,
c’ull’ha sucàt’ u lampu
Pàssin a strata, queti e senza šcampu
U primu fissu ca si trova i zampa.

E’ piovuto e le chiocciole
Che il tuono non ha leso
Che il fulmine non ha ingoiato
Attraversano la strada, lente e senza scampo
il primo idiota che passa, le schiaccia.
e il tuo giorno contiene
chiunque tu sia
un risveglio di donna
che non sia semplice
come una pertinenza
o un luogo d'uso
perché comune non sarà mai
svegliare al sole
gli occhi
e sonnacchiosa
come una gatta giovane di millenni
stirare insonne gli amori

le porte lo sanno
il giorno dipinto negli occhi
quel velo che fuggito
dall'anima risale
come le mani attese
tra il rilascio e la stretta
e questo lo sanno
poi che lo replicarono
tus sienes, tu sexo.
No se culpe a nadie
si para vivir hay que cruzar la mar
como si fuera una calle
doblando esquinas nunca imaginadas.
O acaso sea la culpa demasiado grande
para entenderla.
Porqué habrà siempre
un lado de acà y otro de allà,
infinitamente,
siempre creyendo de elegir la orilla.
Cartolina postale di Buenos Aires, Calle Florida.
Se l'ho conservata per più di quarant'anni, un motivo, per quanto ineffabile, ci sarà...
sugnu na parola, una sula
e u' mmi cridìti...
sugnu na vinzogna daveru
pecchì vi piàcia cchjù ca a verità
a mòssica.

sono una parola, una sola
e non mi credete...
sono una menzogna vera
perché vi piace, più che il vero
il verosimile.
e m'avvisa un tempo
di recidive e ricevute
accuse un procedere di non
luoghi e isole intese a giungere
punti cui non approdo

ma ora tace
l'ora e il suo battito
è una pagina al verso
ne seguo il bianco delle righe
come un rovescio di medaglia
un collo di bottiglia
una qualunque catacresi
che m'avvicini ai sensi

e non dico

ho rubato due righe

ho rubato due righe
le nascondeva un tempo
di rovi accesi e di rosari dolenti
di un luogo di tufi e donne in nero
di una teoria di miserabili arredi

mi piacerebbe dire di quei luoghi
e di quel tempo
del riarso colore di sete
delle crepe inestinguibili
dei muri listati a lutto
delle spalle dei padri e degli occhi
quasi in forma di madre

vorrei dire
dei fiumi che lasciano il corso al destino
della siccità inaudita
delle bestie violate
delle lampare morte
degli approdi negati
della morte nelle unghie
e del sole su tutto

vorrei dire del sud
e dei suoi soli stracciati.
anche qui piove
con la precisione, l'ostinata sensibilità
di tutti gli amori che siano
a diventare un ovunque di solo respiro che aggiunge
alle acque gli abbracci

essi si guardano, gli amanti
come una sola solitudine
di anfratti e dita, ché scorre
sulla pelle
una pioggia bordata di occhi

anche qui so che piove
e mi protegge una pioggia in forme
di palizzate a fiori

ai fili che appaiono al suolo
non importa incontrare nomi d'attori
purché amino
e il rischio non è che risalita
o a volte, schianto.
coloro, ché amo
e non sanno il perché
i miei destinatari, dei risvegli
come mai
le loro mani si volsero al lilla,
gli occhi d'azzurro,
i sorrisi al sapore dell'alba.
Ma ora dormono, essi
e coloro chi amo.
Ma ora non so
Perché la notte ed io
Siamo qui
A viaggiarci l’uno nell’altro
Come due mani che disperatamente
Si staccano
E chiamavamo legame
Questo filo che senza un senso
Si dipana

Ma ora
una linea ispessisce, e si ostina
sugli omeri, ai fianchi, agli occhi
si fa cortina
buio
tendaggio

ma,

e null’altro.
così mi vado
raccontando le dita
legando a fasci
rose bucate
impenetrabili steli
e vite alle finestre
le mai viste
sono lenti a queste alture
i piani e non mi giovano
che frammenti...
miré hacia el agua
algo rozó mis piernas
eran peces minúsculos
de párpados azulados
y ojos dorados
rezaban poemas marinos
màs hondos de qualesquiera pensamiento
eran innumerables
eran la arena sobreviviente de tus palabras,
Alfonsina.
guardai verso l'acqua
qualcosa sfiorò le mie gambe
erano pesciolini minuscoli
dalle palpebre azzurrine
e gli occhi dorati
pregavano poesie marine
più profonde di qualsiasi pensiero
erano innumerevoli
erano la sabbia sopravvissuta delle tue parole,
Alfonsina.
... e non lo so, perché a quest'ora della notte mi viene in mente Alfonsina Storni mentre si immergeva nelle acque.

martedì 28 maggio 2013

Di mio padre.

Arriviamo in un attimo, il tempo di chiamare, anzi no, meglio se venite voi, facciamo prima.
Le bare sono accatastate, il magazzino è cadente, il portone è sgangherato, una grossa catena stringe i due battenti, non lo conoscevo questo deposito a una sola fila di case dal mare... ne conoscevo un altro, in via Roma, un po' all'interno, con le porte semiaperte, una volta mi ci sono nascosto per sbaglio, e per poco non ne uscivo morto di paura...
La bara la sceglie tuo nipote, porta il tuo nome, una bara intonata alla tua età, decorosa, una bara, in fondo, è per sempre, è l'ultimo vestito buono, quello che a nessuno si può o si dovrebbe negare, almeno allo stato dell'arte, o delle cose, o di come, più semplicemente, intendiamo la vita e la morte, almeno da questa parte del mondo...
Il ragazzo ti ha visto morire, sulle prime non capiva, ha pianto e rimesso, ma ha anche eseguito quanto gli avevo detto di fare, e senza sbagliare, come gli dicevo io, zio paterno, senza piangere, io piango sempre dopo, quando sarà quasi fuori luogo quel nodo in gola che mi taglia le parole.
E' strano, ma non riesco mai a ricordare bene il giorno in cui hai deciso che poteva bastare, la data dico, ma non dimentico mai l'ora esatta, le 23.35, e so anche perchè hai aspettato quegli altri cinque minuti, il tuo udito ti tradiva da tempo, e volevi essere certo che quello che avevi sentito fosse il fischio del treno da Milano, “del Milano”, come diciamo da queste parti, che non si confondesse con il fischio dell'altro diretto, quello da Roma, volevi essere certo che io fossi arrivato, nella tua casa di rimpetto alla stazione, parallela ai binari, non potevi rischiare, non eri sicuro di ricordare che ero lì da giorni, a guardare la bombola dell'ossigeno, a bagnarti le labbra, a chiederti di provare a mangiare qualcosa...
Francesco cerca di ridere, mi dice “Cià zì, come sta u nonnu?”*, manca ancora forse un minuto, nemmeno... il fischio del treno, ripetuto, oggi mi sembra quasi un saluto, sento il rumore della locomotiva, 'lo spunto alla trazione', ed io che, non so come, forse reduce da qualche telefilm che non ricordo, dico a quel ragazzo “vai a prendere uno specchio, per favore, piccolo”, il sorriso gli si blocca sullo stomaco, piange, mi porta lo specchio, non so se vuole capire, non ho tempo di capire, corre via dalla nonna, dalla zia, dalla mamma, in cucina, le donne sono lì, stirano un lenzuolo, deve essere perfetto, il lenzuolo più bello...
Lo specchio non si è appannato, sento che era quello che volevi.
Il tuo ultimo respiro, fino all'ultimo respiro.
Più tardi mi domanderanno come è stato, questo più tardi.
Per un attimo non si capisce nulla, qui non è previsto morire in silenzio.
Giusto o sbagliato, non lo voglio sapere.
Maria, mia sorella, mi domanda perchè non l'ho chiamata... non rispondo, forse sono stato egoista, forse quel tuo ultimo sguardo ho voluto trattenerlo solo per me, non lo so, poi Maria che ha perso da poco un figlio ci ripensa e mi ringrazia, mi dice che è stato meglio così.
Lo spero.
Finalmente ti stacco quel sondino dal naso, allontano la bombola dell'ossigeno, sfilo il catetere, ti dico che fra un po' sarà ora di vestirsi, che devi fare la tua bella figura, ci tenevi tanto, almeno fino a una certa età, a essere un uomo piacente, fino a quando hai deciso che per stare nel tuo orto, nei tuoi silenzi, nella tua sordità che nessuno voleva accettare tranne te, anche una canottiera bucata poteva bastare, e per me eri bello così, quando arrivavo e un poco arrancando, tirandoti su la cintura, venivi ad accogliermi insieme alla mia famiglia, scrollandoti di dosso un poco di terra, col tuo collaudato “chi si dicia a Piacenza?”, “com è jutu u viaggiu?”, “... 'sa Salernu Reggiocalabbria, n'han semp abbannunati!”, e a mio figlio che porta il tuo nome il solito “veni ccà, petto da bersagliere!..., fatti vasari!”**
Chiamo la guardia medica, un giovane di un paese abbastanza distante, non capisce, credo abbia sonno e poca voglia di fare la guardia di notte, gli spiego la strada, gli vado incontro, tanto 'sto qui non capisce, è inutile, poi finalmente arriva, mi chiede uno specchio, all'incirca a che ora... si china su mio padre, accerta il decesso, in qualche modo compila un certificato... e va beh, mi dico che era necessario, basta che adesso se ne torni a dormire.
Biascica un buonanotte, condoglianze, allunga una mano, quasi provo tenerezza a guardarlo andar via.
Andremo a prendere l'infermiera albanese, è notte e mia cognata la tranquillizza, resterà lei a guardare i bambini.
L'infermiera dice che sono stato bravo, che ho saputo prendermi cura di mio padre, ma che ora è meglio se esco, che le lasci sole, lei e Maria.
Maria esce dopo una decina di minuti, aspetto dietro la porta chiusa, ha gli occhi troppo rossi per una che ne ha viste e passate così tante, mi dice che non è giusto, che ho fatto bene a non insistere per rimanere nella stanza, che nessuno merita quelle piaghe, che non potrà mai dimenticarle...
Arrivano in due, bisognerà spostarlo nell'altra stanza, è bastata un'occhiata e sanno già dove andrà posizionata la bara, coi quattro ceri enormi, i fiori, e tutte le altre cose che si materializzano dal nulla, in verità un poco mi stordisce questa efficienza che neanche immaginavo... lo avvolgono in un lenzuolo e in un attimo lo sollevano, devo scansarmi in fretta per lasciarli passare in corridoio, fino all'altra stanza da dove si vedono, attraverso le foglie di un fico gigantesco, la collina di Madonna d'Itria, lo stante del segnale di partenza per i treni (lato Crotone, diresti, da ex ferroviere), e la stazione stessa, deserta da tempo, frequentata ormai solo da qualche cane, i cani di Cirò, lenti, trasandati, indolenti, con la lingua sempre fuori dai denti, e la coda che sfiora il suolo, che poi risale, quasi con moto pendolare, e penso che questi cani mi piacciono, che non sono cani da medaglia, che sempre hanno ricevuto calci, ma forse sono proprio loro quanto di più libero offre questa terra. O qualche matto.
Sarà notte di veglia, non voglio lasciarti solo nella tua ultima notte in questa casa per cui ti sei dannato l'anima e ti sei, a volte, negato alla famiglia.
Voglio starti accanto, in questa notte di marzo, di primavera inoltrata e di domenica delle palme.
Sento che il mio compito, se di compito si trattava, sta per esaurirsi... ho staccato dal muro il rametto fiorito di percoco che ti avevo raccolto, e che avevi riconosciuto in un sorriso quasi estremo, l'ho affidato alle tue mani insieme all'asparago selvatico che il giorno prima avevi guardato a lungo, e mi sono seduto accanto al camino.
Tutt'al più dopodomani partirò, un altro fischio di treno, prolungato, lungo lo Ionio, l'Adriatico, la valle padana, fino al mio appartamento fuori terra, fuori di casa.
Poi torno, promesso.
12 aprile 2010

Catene. 'Minchia, Missone, ancora continui!...'





domenica 26 maggio 2013

con la pazienza

con la pazienza dell'ombra
tra il muro e l'albero
cresce e ci divide
un marciapiedi che si fa strada
e su tutto, ad annottare,
punti fermi tra i silenzi,
i rumori

mi riprendono, a volte
le strade e in tasca
confronto polveri e bagnato

ché di ogni luogo, quasi a reliquia
ne trattengo.

sabato 25 maggio 2013

Il guardablocco.

  la foto riproduce un 'istrumento di blocco tipo fs' (immagine presa dal web).
Credo che la stragrande maggioranza delle persone ignori, giustamente, il significato e l'esistenza di una persona e di un personaggio denominato "guardablocco".
Potrei cominciare questa presentazione - o quel che sarà - di-cendo 'Salve, sono la figura professionale del guardablocco …'
Tagliando corto, potrei anche dire che sono un impiegato delle ferrovie, un impiegato delle ferrovie con le lettere tutte minuscole, destinato in una quasi stazione - in verità un posto di blocco - del Nord Italia, di una linea che corre, o almeno dovrebbe, da Piacenza a Voghera, che per me, con tutto il rispetto, è già quanto dire...
Sono venuto quassù da un paesino della Calabria, anzi "delle Calabrie", come qualcuno si ostina a dire, certamente non per reminiscenze storiche, ma solo per semplice sentito dire...
Son venuto fin qui, dicevo, pensando di fermarmi solo per qualche tempo, portandomi un pacchetto di libri e qualche speranza giovanile, il tutto, se non perfettamente inutile, certamente meno utile della provola incartata, dei calzini di ricambio, della caffettiera e di qualche ricordo che avevo messo non in una valigia, ma in una grossa borsa, giusto perché un giorno nessuno avrebbe potuto dirmi - qualora avessi fatto fortuna - che ero il solito fortunello venuto su con la più che abusata valigia di cartone...
Ma torniamo al guardablocco...
Discendo da una famiglia di ferrovieri, ma ferrovieri della gleba, cioè assuntori (tranquilli: non ne esistono più), guardiani, operai d'armamento... Parole strane, vero? Forse, ma quando sul "Titolo di viaggio gratuito Bk6" valido per seimila chilometri leggevo "figlio" e, subito sotto il nome di mio padre, la qualifica "operaio d'armamento", provavo puntualmente stupore per quella parola 'armamento', al cui suono non riuscivo ad immaginare nulla, solo mio padre sulla soglia di casa, recante nella mano destra una giacchetta lisa, di un nero e di un grigio indefiniti, con delle mostrine dove una effe ed una esse aggrovigliate non mi lasciavano distinguere quale delle due lettere, per come io le vedevo, rappresentasse la serpe femmina e quale il maschio... e nell'altra mano la pietanziera vuota, con il bordo sempre unto dell'olio del baccalà e peperoni fritti, immancabili, icona perpetua del nostro essere calabresi...
Così mio padre tornava e mia madre già rimpiccioliva, sperando di non dover udire, almeno per un giorno, le urla di insoddisfazione del marito... Ma quel giorno era sempre un altro giorno, e così me ne andai. Punto.
Da queste parti, al Nord voglio dire, c'ero già stato con Totonno mio cugino, durante l'ultimo anno di liceo, e così avevo potuto vedere il Museo dell'automobile di Torino, di cui non mi importava assolutamente nulla, ed avevo visto Novara, di cui ricordo soltanto una panetteria con una coda lunghissima dove le signore sceglievano i tipi più impensati – almeno per me - di pane, fors'anche perché ppe mija il pane era di soli due tipi: “pan 'e casa “ e “pan 'e gghjazza”', cioè pane fatto al forno di casa (obbligo di durata: almeno quindici giorni, dicasi quindici) oppure pane del fornaio, di piazza, da signori.
Cos'altro vidi? Ah, sì, un casello delle ferrovie dove Totonno dormiva e mangiava insieme ad altri tre o quattro ferrovieri - o rifugiati, se vogliamo - che lavoravano dosando i turni in modo tale che ci fossero sempre letti disponibili per quelli che smontavano dal turno di notte.
Anch'io avevo sempre abitato in un casello delle ferrovie, ma nel mio casello sentivo le risa lucenti delle amiche delle mie sorelle che venivano a ricamare e cantare e vedevo gli sguardi malandrini di mio fratello e dei suoi amici, che a modo loro e a loro volta si riunivano a ricamare con la fantasia.
Invece quel casello ai margini di una risaia, tra Garbagna e Vespolate, o comunque dalle parti di Mortara (sic!) era sinceramente troppo, anche troppo isolato, e poiché a quel tempo, di notte mi capitava ancora di aver paura, mi incollai a Totonno ed andai con lui a ‘fare la notte’, come si dice in gergo ferroviario, per indicare il turno di notte.
Totonno, a quel tempo, faceva il guardablocco.
Passato l'ultimo treno della giornata prese un telo appena più grande della porta di ingresso dell'Ufficio Movimento, come si chiama il locale dove si trovano gli apparati che deve manovrare il capostazione o, come in questo caso, il guardablocco, e lo applicò con la massima cura al telaio della porta, a mo' di zanzariera.
Il perché lo capii molto bene al risveglio: il telo era assolutamente nero, ricoperto di zanzare, moscerini e quant'altro: cominciavo ad avere dei dubbi sulla mia provenienza da una zona un tempo infestata dalla malaria...
Dei due giorni che scontai in quella piccola prigione volontaria in mezzo alla risaia, ricordo il figlio del capostazione, un piccolo detenuto che aspettava che il papà finisse di scontare la pena: aveva all'incirca dieci anni e una vera maestria sia nel cacciare le rane intorno alla stazione sia nel concedere, tra un secchio di rane e l'altro, il consenso per il passaggio del treno, e poi via, un'altra escursione nei fossi, altre rane ed altro treno: coda regolare, treno merci, tre colpi, viaggiatori due colpi... e via, altre rane, altro treno: ma tuo padre che fà? si fida? non ha paura? e se poi i treni sbattono?
E lui: ma no, mio padre torna presto, è qui in paese (paese? dove?...) E ancora... vuoi provare? Guarda, si fà così: adesso chel lì (il guardablocco dell'altra stazione) mi chiede il consenso per il locale delle 11, il coso (si chiamerebbe istrumento di blocco: è quel coso buffo, rosso, con due maniglie e tre occhi che si vede ancora in qualche stazione) farà due volte dlon dlon, vuol dire che è il treno viaggiatori che vuole passare, io capisco, picchio qui prima due volte, alzo questa maniglia e poi pigio ancora una volta su questo pulsante, quello lì di Vespolate capisce che tutto va come deve andare e fa partire il treno… sennò sa lui dove cercare mio padre!
....Vuoi provare?
...Ma per carità, non ci penso neanche, me ne torno a leggere Paesi tuoi, visto che non siamo molto distante.
Ah, piccolo Ottavio, ferroviere in miniatura, forse avevi intravisto anche tu il mio destino... Del resto lo sapevi che anch'io ero figlio della rotaia, e tanto non avrei potuto correre all’infinito, sperando al massimo di sfruttare qualche sosta, ma mai di fermarmi e incontrare me stesso.
Forse mi sono illuso quando dentro di me ti risposi "io provare, ma quando mai... "
Ed invece eccomi qua, a fare esattamente quello che tu facevi da bambino e che io faccio da adulto, tu per l'orgoglio di tuo padre, io per la rabbia di mio padre.
Cercavo di non accorgermi del passare degli anni, e gli anni passavano puntuali, proprio come tutti gli anni dalle mie parti passano le quaglie, ed oggi mi sembra che ogni anno, scomparendo, abbiano voluto dirmi qualcosa come un ... ah... non ti accorgi... fai finta di nulla.
Ed io mai mi risolsi a celebrare gli anni, neanche nel loro giorno estremo.
Non immaginavo che un giorno mi sarei ridotto a contare e ricontare questi anni, tutti, ad uno ad uno, quasi chiamandoli follemente per nome, ma con nomi d'invenzione, nomi di triste fantasia, scanditi da qualche raro cambiamento, ma mai cambiamenti sostanziali, inversioni di marcia o salti di corsia, solo cose che seguivano il corso delle cose: una pena inconsistente di sapere di essere e non sapere essere.
Mi relegai o mi regalai alla mia stazione, al mio posto di blocco, dove l'unico blocco, col tempo divenni io, che piano piano cominciavo a sapere tutto di quella specie di Forte Bastiani (e a chi passa ancora per la testa di leggere di quel deserto dell'anima?)... cominciai a dare un nome alle traversine, ad accudirle, a ripulirle degli escrementi dei viaggiatori dei treni in transito, cominciai a parlare ai segnali, tutto volendo imparare del loro ciclo, del ciclo che essi compiono per 'disporsi a via libera' e 'ridisporsi a via impedita', cominciai a dare un nome ai treni che, si sa, prediligono i numeri per farsi individuare dal grande pubblico, cominciai a parlare alle leve degli apparati, alle sbarre del passaggio a livello, e continuai a parlare sempre poco con le rare persone che ancora frequentavano la stazione, che ormai era quasi del tutto chiusa al traffico dei viaggiatori, mentre nei primi anni del mio servizio i ferrovieri più anziani mi parlavano ancora delle manovre con lo 01, dello 04 sempre in ritardo, tanto spesso abbandonato dal personale su un binario dello scalo, degli studenti che arrivavano all'ultimo momento e che volevano non solo prendere il treno, ma fare anche in tempo a rinnovare l'abbonamento scaduto il giorno prima...
Ah, che tempi, sembravano dire quei ferrovieri giunti dalle Puglie o dalle Calabrie, tutti in fila, con la valigia gonfia di una sola speranza: tornare giù, quel mille volte udito 'tornare giù' che li perseguitava come la nuvola di Fantozzi.
E giù ci sono tornati quasi tutti, in un modo o nell'altro, di riffa o di raffa, magari imbrogliando, fingendosi matti o dandosi anima e corpo a qualche deputatello di provincia, goloso di voti, di olii, formaggi, paste fatte in casa e quant'altro.
Mentre io no, io qui ci sono rimasto, facendo sempre tutto ed esattamente il contrario di tutto ciò che era meglio fare, dimenticando quello che avevo detto al ritorno da quella breve esperienza tra Torino e Novara, e cioè che mai e poi mai sarei tornato in quei posti, che comunque c'ero stato ed ero libero di non rimetterci piede, mai più, e poi via a dissertare coi miei compagni di liceo sulla superiorità del nord, sulle lotte contadine al sud, sulla storia della Magna Grecia, o forse dovrei dire sulle storielle della Magna Grecia, quando a ben guardare si parlava appunto di greci, e greci più grandi, ma questa dei 'greci più grandi' è già una citazione... naturalmente non parlai della risaia, della paura del buio, del sugo mostruoso preparato da Totonno nel casello degli spettri, dei calzini crocefissi ad asciugare sulla palizzata.
Optai semplicemente per raccontare della facilità con cui, 'da Roma in su', si conoscono le ragazze, ed io le avevo conosciute, una, due, tre... Omisi di fare i loro nomi: Antonio, foggiano, operaio del servizio lavori, Nicola, della provincia di Salerno, impianti elettrici... Altro che ragazze: tre giorni nel paradiso d'Italia, dove tutto è raggiungibile, dove tutto è possibile, ed io che faccio? A diciotto anni, mi ritrovo seduto ad un tavolo di fòrmica gialla, recuperato da chissà quale discarica, a mangiare pasta e salsa con Totonno mio cugino, un tale Antonio, un tale Nicola...
Che fortuna, quel viaggio... mi sentivo invidiato e non so se aggiungere che mi sentivo bugiardo o capace di tali voli pindarici: avevo mangiato in un ristorante con mio cugino e con Antonella e Nicoletta, due ragazze da sogno che abbiamo conosciuto in un parco a Torino... Almeno non pretesi che qualcuno mi prendesse sul serio... Però a Torino c'ero stato, giuro.
Ma non ci sono più tornato, mi sono fermato poco oltre Piacenza, in questo posto da cui non mi sono più staccato, forse proprio per averlo sentito così alieno da me, così diverso e minimo, immerso in quelle nebbie a me ignote e nuove da cui lasciarmi avvolgere o stordire, per vedere appena e per essere visto appena... In questa nebbia mi allontanavo, mi lasciavo andare, mollavo la presa, rinunciavo alle lotte eventuali che avrebbero potuto reclamarmi...
Pensavo io non posso e non voglio incazzarmi, io voglio osservare e capire, e perciò non devo partecipare: sono state convinzioni fatali; impossibile, per me, per quel tempo, per quello che ero, sbagliarmi più rotondamente.
Il dottore dice che in effetti non devo e non posso incazzarmi, che devo cercare di rimanere tranquillo, che qualunque cosa accada devo cercare di rimanere sereno: è l'unica! Ma non mi dice mai a cosa è riferita quella parola 'unica'...
Ma poi ogni volta mi riammettono in servizio; del resto ormai è tutto quello che so fare, o che mi riesce bene... sono puntuale, preciso, presente, e non mi porto più neanche il mio mucchietto di libri da leggere, o meglio da rileggere, tra un treno e l’altro, no, semplicemente ripeto mentalmente frasi e versi di quegli stessi libri, ed evito così le occhiatacce di quell'asino di capotreno che detesto più di tutti... Certo non può immaginare che mentre lui parla, magari in quel momento la mia testa recita 'a volte vedo solo bare a vela/salpare con pallidi defunti/con panettieri bianchi come angeli...', anche se più spesso mi accade di pensare queste parole durante il transito dei treni: tutti quei rettangoli di luci, preceduti da un fischio e dalla luce dei fanali della locomotiva... se fossi capace di invidiare o di desiderare, credo che un po' mi piacerebbe, come il macchinista, tirar su il pantografo, spegnere le luci della cabina di guida e prendere d'infilata tutte le stazioni, salutarle appena, ma non con il fischio, solo con le luci, per non disturbare...
Invece io sono immobile in questo posto di blocco che è un po' il mio letto d'ospedale: qui tutto è in ordine, tutto è pulito, da quando questa stazione è stata chiusa e mi è stato concesso di farne la manutenzione posso ancora accedere ai registri, scorrere tutte le pagine dove sono segnati gli orari dei transiti, di arrivo e di partenza di treni che mai più circoleranno e che neanche sono in disarmo: le loro locomotive sono state abbattute ed i loro vagoni sono stati esposti alla sottile vendetta del tempo che già ne ha avuto ragione, già ha svuotato le loro carcasse e li ha disinfestati dai sogni che un giorno avevano trasportato da un punto ad un altro, vicini o lontani che fossero, del mondo.
I treni passavano ed io pensavo, col mio stipendio meritato di guardablocco di origini calabresi. Tutto qui: pensavo, a volte anche in italiano, giusto per darmi un tono di fronte a me stesso, o per rivolgermi a qualche mio mito letterario.
Qualche volta anch'io devo aver pensato che mi sarebbe piaciuto che quella scatola dove prestavo servizio si trovasse di fronte allo Ionio, a qualche metro da quel mare che mai ho smesso, questo sì, di sentire mio... sì, avrei voluto chiedere e concedere il consenso per il transito d'un qualche treno da Sibari per Catanzaro Lido, e gustarmi questo treno che transitava vicinissimo alla linea dell'orizzonte, contando le agavi... chissà, forse avrei scoperto altri valori in quello che facevo.
Piano piano gli apparati che manovravo mi hanno abbandonato, o meglio sono stati portati via dagli uomini della manutenzione, sono stati giudicati e condannati dal tribunale della tecnologia, sono stati estratti dalla loro sede ed il posto che occupavano è stato otturato, come se fossero stati la causa di tutte le lentezze e le inefficienze: nei miei apparati si annidava la carie più nera e profonda!
Il giorno che portarono via le sbarre del passaggio a livello che si trovava quasi di fronte alla stazione fu un giorno tristissimo: non mi sembrava vero che al suo posto bastassero due blocchi di cemento per lato e la scritta 'strada chiusa': e fino ad allora, tutta quella attenzione messa nel chiudere, aprire, chiudere, aprire?
Niente, non serviva a niente e nessuno, era tutto uno scherzo... tu fingi di chiudere il passagio a livello, le auto fanno finta di fermarsi, il treno finge di passare, tu fingi di aver visto il treno, fai rialzare le sbarre, le auto, i pedoni, le bici fingono di passare e così via durante il giorno, poi di notte un po' di meno, perché non abbiamo abbastanza persone disposte a giocare anche di notte...
Ed io mica lo sapevo che consisteva in questo l'esercizio dei passaggi a livello: sulle istruzioni, per quanto 'apposite', non era contemplato, non credo.
Ad ogni modo il passaggio a livello non c'era più, e mi resi conto che da qualche ora continuavo a mormorare tra di me 'autunno, già lo sentimmo arrivare... '
Era comunque una apprensione in meno, anzi una bella preoccupazione in meno...
Gli altri colleghi, le cassandre e le clitennestre, che già fiutavano l'aria, non persero tempo con le previsioni: scappiamo, scappiamo, io di qua, tu di là, se tolgono il passaggio a livello tolgono anche noi, che serviremo sempre meno e poi ci sarà una nuova tecnologia, qui sarà tutto automatico.... Tu che fai?
Io?!
Io niente, niente di niente, di automatico vedo solo le sciocchezze, resto, e voglio vedere come va a finire.
Perché che sarebbe andata a finire, almeno questo, non posso negare di averlo sempre saputo.
E calma, soprattutto.
Quando entro in queste stanze odo solo i miei passi, e qualche voce in lontananza, forse dal bar non distante, o da qualche casa isolata. Mi piace udire i miei passi, mi fa credere che sono libero di ascoltare i miei pensieri, solo che in questa solitudine è come se rimbombassero dentro di me: sempre più spesso avverto mal di testa e non riesco a pensare come e quanto vorrei... ci sono affezionato ai miei pensieri, anche se non hanno nulla di eccezionale, e devo dire che mi hanno sempre tenuto compagnia, anche quando mi dicono che è una cattiva compagnia, che ci sono pensieri sbagliati, che devo distinguere tra i miei pensieri... ma io non ne sono capace, non riesco a tenere chiusa la porta ai pensieri, non riesco ad anticiparli, è colpa loro, ecco!
Queste stanze... in quanti eravamo a lavorarci contemporaneamente? Tre, quattro, cinque... e nessuno che fosse silenzioso, ce ne fosse stato uno, tutti sempre con qualcosa da dire, le scazzate comari di Windsor... Però quello che c'era da fare veniva fatto, soprattutto da chi faceva anche il lavoro degli altri. Quante volte mi fermavo ad osservare questa briciola di società, cercando di non darlo a vedere... Che teste... la fine del mese innanzitutto, il venticinque, il giorno di stipendio sopra tutto, che tristezza... Ora non ci sono più quelle persone, che non ho mai chiamato e considerato colleghi o amici, ed in fondo mi mancano...
Mi avvicinano i silenzi a queste stanze, inabitate, rese vuote.
La capacità di udire si è moltiplicata, ascolto il pulsare del mio sangue, le tempie battono liberamente, mi ritrovo a ordinare pensieri che il tempo ha sfilacciato inesorabilmente, qui, in questo angolo di pianura, dove puntualmente come un Orfeo confuso mi volto, ma volutamente, certamente, inevitabilmente, a guardare il giorno, il mio giorno, senza fare nulla per evitare che esso sprofondi fino a sera.
Sarò qui per l'ultimo treno, quello definitivo, quello che chiuderà il conto...
Salirò sul treno per Krimisa, Hipponion, Locri Epizefiri, un treno sospinto da piccoli opliti, un treno per Reggio, dove pensavo, da bambino, che finisse la ferrovia, che non ci fosse nulla oltre, che alla fine dei binari i treni fossero inghiottiti dalla fata Morgana, e invece rinascevano appena dopo mezzanotte, col primo diretto per Bari, quello che mi svegliava ogni notte e il mio sudore cercava il sudore ferito di mia madre.
Ma per l'ultimo treno, per quello c'è sempre tempo, e posto al finestrino.

Dicembre 2003.

ma ora non so



Ma ora non so
Perché la notte ed io
Siamo qui
A viaggiarci l’uno nell’altro
Come due mani che disperatamente
Si staccano
E chiamavamo legame
Questo filo che senza un senso
Si dipana

Ma ora
una linea ispessisce, e si ostina
sugli omeri, ai fianchi, agli occhi
si fa cortina
buio
tendaggio

ma,

e null’altro.


venerdì 24 maggio 2013

lettera al padre



Diario, pagina, 13 ottobre 2010.

...penso a te che magari a quest'ora, a molte miglia da qui non riesci a prendere sonno nel tuo letto di legno, e forse ti affacci con cautela da quella parete esile che non ti fa più dire ''figlio mio'', che non ti fa più udire la parola ''patri'', come dicevamo in segreto piacere; ché non si addicono i piccoli piaceri della lingua agli adulti, i suoni come questo, dialettale e inconsulto: patri, vocativo di un luogo per noi oltremontano, di un paese che più non sappiamo;
guardo fuori e siete tutti svegli, io credo, lo sento, a quest'ora, tutti i morti, anche quelli andati via senza un valido motivo, troppo presto, anzitempo, a misurare la distanza tra i piedi e l'orizzonte, tra il presente e la parola fine, tra la punta della scarpa e un calcio all'esistenza, tra il cammino e la falce, tra gli occhi serrati e le immagini di vie spezzate;
sono certo in quest'ora di trovarti davanti alla tua tomba, la nostra, di famiglia dispersa, so che ti troverei davanti a quel punto di ritrovo, con in mano il tuo rosario sussurrato, mai letto veramente, dismesso, e so anche che fingi di non vedermi, di non potermi vedere, ché non sta bene parlare ai vivi, anche quando gli vuoi bene, e che un morto è sempre un morto, e ci vuole una certa dignità, un portamento, un'andatura e rispetto delle regole...
è notte di lavoro e di silenzi, di binari ormai solo odiati, di pane sputato e di bocconi mandati giù a forza, notte di tempo da dimenticare, di luce che in fondo alla visione si fa tremula e sembra scivolare via, trascinando con sé anche le migliori intenzioni: notte di nulla, di fantasmi che smettono di fare rumore, di catene che non vale più la pena di temere, notte di giorno prima, notte che non prelude a un nuovo giorno, ombra nera che è quasi e solo il colore dei silenzi che verranno;
sono qui, distante, e non vorrei più pensare a quella tua frase che faceva storia nella nostra famiglia ''disamorata'' - ché giocavi, ma non troppo, col nostro cognome -, quando dicevi, insomma,
''povero me, figlio mio...quando sarai grande capirai!'', e mai ti sei risentito perché, sciocco e bambino, ti imitavo, mai pensando, io, che non c'era alcun bisogno di imitarti: siamo stati sempre uguali, anche nei silenzi, tuoi di morto, miei di vivo, ma solo per questione di particolari, o di tempo, il che fa lo stesso, fa nulla;
ti davo torto, quasi sempre, perché mi piaceva la tua irriducibilità, e un po' mi deludeva vederti infine docile, fino a lasciare che uno stupido male ti sconfiggesse, ti avesse... vecchio leone poeta, mio padre, col quale avrei scambiato le mie sciocche letture, le assonanze, le consonanze, le sinestesie, i sogni di eteronimi, le parole vive e quelle mai nate, con cui volentieri avrei tutto scambiato per i tuoi ricordi del Pireo, di Lero, di bracciante, di sognatore arrabbiato... peccato doverti dire che con me hai fallito, e non averti dato i canti che in te intravedevo, quasi tu indicandomeli, nelle parole bestemmiate, rimate nel vento, peccato per i tuoi scalmi che lasciavano i remi alla terra più dura, e non averti potuto aiutare, ché non avresti mai accettato... e sentirti, le tue grida mute, quando avresti voluto strappare la poesia al tuo sangue, cederla al mondo, a chiunque passasse, e tu, non compreso: un peccato, come la tua scuola, solitaria, fatta di sere e di righe inviolate, appena macchiate dalle bolle esplose dalle mani: più non usa, o quasi, questa tua fatica animale;
questa notte vorrei dirti qualcosa di come mi spiace essere diventato grande e non aver capito, o solo ora, e fuori tempo, quel tuo dire
''quando sarai grande capirai...'';
di sicuro stanotte avrai parlato ancora ad altri morti, li ho visti come allora distratti, ancora e sempre troppo presi dalla vita, anche da morti;
è ancora buio e sono solo ombre, richiudi con cautela, non serve bussare, alle prime luci sarai di nuovo nella tua stanza dell'eternità, pronto inutilmente, in mano a un altro giorno da scontare.
Io smonto, le consegne sono pronte, firmate e da controfirmare. Quasi quasi lascio un sorriso al mio cambio, lui non ha colpe, non colpe che mi riguardino, almeno, è solo un paradigma.
Sono le sei e una strada che si moltiplica, patri!

giovedì 23 maggio 2013

Durante l'insalata. In ricordo del mio professore di Liceo, Francesco Milano.

Durante l'insalata.
Questa sera, durante l'insalata, mi sovvieni.
L'insalata non è casuale, come mi hai insegnato, anzi: una insalata non è mai casuale, tutt'al più, una insalata è qualcosa di estemporaneo, nonché, almeno per il sottoscritto, qualcosa di raro, intimo.
Sicchè, per stasera, vada per insalata e, plurale majestatis, avanzi e fastidio, riordiniamo e deroghiamo.
Cioè, io e me, abbiamo mangiato una insalata.
E abbiamo lasciato inevase le stoviglie.
Talché bisognerà evitare che l'occhio avversario venga catturato da questo immondo scenario di lavabo osseo post comida: lavabo che va ad essere carcomido, ovvero consunto da incrostazioni, e in fondo comido a caro prezzo... ridicolo, questo ricordo di stagione a basso prezzo, che risuona più o meno come 'hotel?' 'cheap', 'barato'... 'barato?'... sì, hay, pero...
Qui cominciano i soliti pero, i ma, sed, verum tamen, ni bien, but, und so weiter...
E il resoconto delle vacanze langue, mentre penso ad altro.
Dobbiamo (è sempre il plurale majestatis che parla), pagare tutto, anche questa stagione, anche questa insalata...
Cioè...
Anzi: miseria dei 'cioè', degli autori dei 'cioè': avevi ragione tu, che per questa semplice parola stasera mi sovvieni, odiato professore che non ammettevi l'uso di questa scorciatoia indegna, di questa ammissibilità di venia... chissà, forse pensavi di doverci insegnare che il problema e la falla erano sempre a monte dei nostri 'cioè', troppo giovanili, troppo sciatti, un futile intercalare che diventava insostituibile, un prendersi tempo e spazio senza motivo: avevi ragione, e lo capivo allo stesso modo in cui non ho mai voluto riconoscerlo: detestandoti.
Detestandoti perchè a te non avremmo mai concesso che avessi ragione: mi ritengo io il più colpevole, quello che l'aveva interamente capito, ma che aveva bisogno di te come oppositore: stando dalla tua parte mi avresti evitato troppi errori, mi avresti indirizzato, ed io non volevo indirizzi, esigevo i miei errori, e forse avrei solo voluto urlarti qualsiasi cosa, o semplicemente dirti che ti capivo, ma volevo comunque stare dalla parte dei miei coetanei, e forse compagni, stare con loro aspettando di sbagliare una volta per sempre, già, non come avevo scritto allora su un muro, quelle volte che pensavo - chissà perché - che in fondo è meglio sbagliare sempre piuttosto che una volta per sempre... una frase che ancora ricordo, che scrissi vicino alla porta dei bagni, pardòn, dei cessi, all'altezza di un sesso enorme, a matita, di quelli che si possono disegnare solo sui muri delle scuole senza sentirsi ridicoli, aspettando i minuti di troppo per rientrare in aula in ritardo e sentirsi, davanti a te che ci osservavi e non parlavi, grandi o importanti.
Oppure stupidi, come me.
Cioè...
Che significa: ho detto male, adesso ci riprovo, mi correggo, vediamo se mi viene meglio: ammettiamola, l'enorme buccia di banana o di intelletto, sulla quale si è scivolati, o grazie alla quale.
Tu non lo ammettevi.
Io non ti ammettevo, peccato.
Peccato capirti, e sapere il divergere delle nostre direzioni, ma dovrei dire versi: ti eri fatto da te, anche evitando i 'cioè', con disciplina, mentre io, anche senza i ripensamenti... solo, come ancora oggi, mi disattendevo.
Ed ora, ora quante cose non sappiamo più l'uno dell'altro...
Vivete ancora in Calabria, professore?
Oppure chissà, chissà se vivete ancora... se tutto sommato non sto credendo di parlare semplicemente a un ricordo, e a ben guardare sono solo io che vi trovo per sempre immortale, come l'immaginazione o il disincanto, e sono sicuro che vivete tuttora in Calabria nella vostra quasi villetta di quarant'anni di insegnamento, con patio e ricordo ormai cangiante di Siviglia 1936.
Anche se, sapete, non ho mai creduto che abbiate fatto il bersagliere e la guerra di Spagna e la Resistenza.
E forse il motivo sembra assurdo anche a me, ma mi sembrava impossibile che voi aveste fatto qualcosa al di fuori di quell'aula, in cui non c'erano mai state la Spagna, la guerra, la Resistenza...
Ed invece c'eravamo noi, storditi da tanta retorica, e tanti consigli, tanta fede-speranza-lavoro-carità-dignità-nobiltà.
...Il rompicoglioni, il solito rompicoglioni, ti appellavano: te lo dicevo anch'io, mi piaceva ripeterlo mentalmente, e mi convincevo che anche tu avresti capito, se solo avessi potuto dirti: sapete, professore, vi chiamano rompicoglioni, e anch'io, che potrei essere il vostro pupillo, vi chiamo così: dovete capirmi, dovete capirmi, perchè a me, in fondo, non importa che lo siate o meno: a me piace la parola in sé, mi piace sentire il suono di questa stupidissima parola, mi fa ridere, mi fa ridere inspiegabilmente!
E in realtà, qualcosa del genere è successo: quella volta che mi costringeste a confessare perchè mai fossi scoppiato a ridere mentre insistevate a frustare quel vostro cavallo di battaglia che chiamavate 'il miracolo di San Rocco', dopo il quale 'ed ecco che il Manzoni si converte!'...
E quale spiegazione vi aspettavate da me, cui vi eravate rivolto in cerca di una sponda, come sempre, per quasi tutta la lezione, quale giustificazione per il mio riso di una stupidità totale, incontrollata?... avversione, derisione, opposizione?... Macchè!
Mi spiace ancora avervi deluso, sinceramente, a quel modo, con un 'niente, professo', mi è venuta in mente na parola che ogni bota ca mi vena in mente mi fa rìdiri...'
Quale parola non potei dire, of course.
Anche se avreste magari apprezzato almeno l'onestà.
Ma il vostro sguardo, la vostra riposta, mi brucia ancora: 'Amorù, 'sta 'nzalata del miracolo di San Rocco, mancu tu l'ha capita, peccato!'
Per questo, mentre mastico questa amara insalata, professore, mi sovvenite...

Un vostro alunno. 
fine anni '80; 
PS: il professore Ciccio Milano cercò in tutti i modi di indirizzarmi al meglio; non gli è riuscito, se questo è il meglio; non gliel'ho mai detto che a volte lo fissavo, e altre non lo guardavo, perché mi ricordava troppo mio padre. E questo è il motivo per cui non è riuscito nell'impresa di fare di me un avvocato, o non ricordo cos'altro: non poteva farci nulla.

jumara d'amur

Quello che segue è un vecchio post ripescato dal mio blog di un tempo, 'catablogario'. Risale al 5 agosto 2010. Due persone a me care, due amici virtuali ma veri, dei quali non svelo le identità, vollero omaggiarmi delle loro rispettive traduzioni, in veneto e in marchigano. A ben guardare posso quindi vantare ben due traduzioni in altri dialetti, non male! Ed ecco il post:
Non so perchè annoto queste cose in dialetto; ci sarà un motivo, di sicuro; ci sono alcune parole dal duplice significato, omofone, omografe, o come si chiamano (in questo momento non connetto molto), come 'sul', che significa sole e solo, o 'vena', che significa vieni o vena, e altre; io non le ho cercate, sono venute qui, queste parole: avranno avuto i loro motivi. Mò basta! Cià!  Dimenticavo...vena du mar significa vena del mare, vieni dal mare, viene dal mare, e -con un piccolo contributo della 'a' di vena- anche vieni al mare, qualora al malcapitato lettore potesse interessare. Cià n'ata vota.

mo' ti lass                                     ora ti lascio
ccà ti pos                                      qui ti poso
com na cosa cara                         come una cosa cara
o com nu jur 'e rosa                       o un fiore di rosa

ma juramill                                   ma giuramelo
unn u dir a nessun                        non dirlo a nessuno
adduv t'he ammucciat                   dove ti ho nascosto
e adduv t'accarìzz                         e dove ti accarezzo

'e sul e sul ti voj guardar                da solo a sola ti voglio guardare
'e man e man ti voj portar              di mano in mano ti voglio portare
sul nta l'occhji mi voj jettar            sole negli occhi mi voglio gettare

ven                                              vieni
vena!                                           vieni!
ti voj cuntar                                  ti voglio contare
'e na jumara c'un zapija du mar     di una fiumara che non sapeva del mare

ven                                             vieni
vena!                                           vieni!
ti voj 'mparar a mi far amar            ti voglio insegnare a farmi amare

vena jumara                                vieni fiumara
vena d'amur                                vena d'amore
e porta petr                                 e porta pietre
porta lign                                    porta legna
e crucifiss                                  e crocifissi
ca mi vaj a jettar.                        ché mi vado a gettare.

vena jumara                               vieni fiumara
vena du mar...                            vena di mare...

veneto: 
qua te poso
come ‘na roba cara
o un fiore de rosa...

da soeo a soea te vojo vardare
de man in man de vojo portare
e butarme soe in tei oci

vieni piena
vena damor
e porta piere
porta legna
e crocefissi
che me vago a butare

vien la piena
vena de mare

marchigiano:
 
Ades a't lasc
maché a t'met
com na roba chera
o ' n fior dla rosa

ma giurle
a'n'dil a niscion
do' a t'ò arpost
do'a't carez

da sol a sola a't voj guardè
da na men ma ch'l'atra a't voj portè
el sol in't'ioich a'm voj buttè

ven
ven !
a't voj arcuntè
d'una fiumena ca'n la saveva amè

ven
ven !
a't voj insegnè a fém amè

ven otra fiumena
vena d'amor
e porta le pitre
e porta i legn
i crucfes
parchè a'm vag a butè

coloro, ché amo

coloro, ché amo
e non sanno il perché
i miei destinatari, dei risvegli
come mai
le loro mani si volsero al lilla,
gli occhi d'azzurro,
i sorrisi al sapore dell'alba.
Ma ora dormono, essi
e coloro chi amo.

22.5.2013

e il tuo giorno contiene

e il tuo giorno contiene
chiunque tu sia
un risveglio di donna
che non sia semplice
come una pertinenza
o un luogo d'uso
perché comune non sarà mai
svegliare al sole
gli occhi
e sonnacchiosa
come una gatta giovane di millenni
strirare insonne gli amori

le porte lo sanno
il giorno dipinto negli occhi
quel velo che fuggito
dall'anima risale
come le mani attese
tra il rilascio e la stretta
e questo lo sanno
poi che lo replicarono
tus sienes, tu sexo.

19.5.2013

anche qui piove

anche qui piove
con la precisione, l'ostinata sensibilità
di tutti gli amori che siano
a diventare un ovunque di solo respiro che aggiunge
alle acque gli abbracci

essi si guardano, gli amanti
come una sola solitudine
di anfratti e dita, ché scorre
sulla pelle
una pioggia bordata di occhi

anche qui so che piove
e mi protegge una pioggia in forme
di palizzate a fiori

ai fili che appaiono al suolo
non importa incontrare nomi d'attori
purché amino
e il rischio non è che risalita
o a volte, schianto.

16.5.2013

sugnu na parola

sugnu na parola, una sula
e u' mmi cridìti...
sugnu na vinzogna daveru
pecchì vi piàcia cchjù ca a verità
a mòssica.

sono una parola, una sola
e non mi credete...
sono una menzogna vera
perché vi piace, più che il vero
il verosimile.

15.5.2013

e m'avvisa un tempo

e m'avvisa un tempo
di recidive e ricevute
accuse un procedere di non
luoghi e isole intese a giungere
punti cui non approdo

ma ora tace
l'ora e il suo battito
è una pagina al verso
ne seguo il bianco delle righe
come un rovescio di medaglia
un collo di bottiglia
una qualunque catacresi
che m'avvicini ai sensi

e non dico

15.5.2013

ho rubato due righe

ho rubato due righe
le nascondeva un tempo
di rovi accesi e di rosari dolenti
di un luogo di tufi e donne in nero
di una teoria di miserabili arredi

mi piacerebbe dire di quei luoghi
e di quel tempo
del riarso colore di sete
delle crepe inestinguibili
dei muri listati a lutto
delle spalle dei padri e degli occhi
quasi in forma di madre

vorrei dire
dei fiumi che lasciano il corso al destino
della siccità inaudita
delle bestie violate
delle lampare morte
degli approdi negati
della morte nelle unghie
e del sole su tutto

vorrei dire del sud
e dei suoi stracciati.

15.5.2013

lunedì 20 maggio 2013

i giorni impassibili



I giorni impassibili
I varchi
Da superare
Suddividendo con cautela
Nel nulla da dichiarare
Gli ostacoli accettabili
Dai mostri inevitabili
Gli occhi in attesa
Dagli sguardi orrifici
Separare la mela dai veleni
E raccogliere dalle tasche le mani
Come per un rosario
O una teoria di gesti
Che discostino
Anime e corpi
Dal fango fuori e dentro
Dal male dell’edera che tentacolare
Risalta
Come da crepe ritenute a stento

Sono giorni impassibili
Che non ammettono tregue
Né sconti
E contrattare è già
Come un mattino perso
Un giorno disatteso
E troppo presto, forse
Anche agli abbandoni.

domenica 19 maggio 2013

sono sempre più in là



Sono sempre più in là
Le parole d’ora che irraggiunte
Dicono la differenza

Sempre indifferibile è il non detto
E nasce l’urgenza di cancellare
Uno spazio che è dentro
Come una lisca dolente
Tra il palato e il labbro

Mi ha lasciato il silenzio
E sottobraccio vado
Col mio cranio dubitoso
mi domanda quale sarà
Il prossimo passo a spingermi avanti
O chissà, se lieve, un Giano bifronte
Per ambo le vie mi strazierà un cammino
già troppe volte a ritroso.

venerdì 17 maggio 2013

vanno via



Vanno via, a coppia
Vanno via, le parole di spalle
E le forme che delineavano
Candide dalle superfici
Permangono, occhieggiano
In singolare ricordo,
Visioni di uno sdoppiamento:
La sua forza
La sua tenerezza muta
Si staccano, come da un abbraccio

Nei vuoti delle stanze d’affitto
Quasi ragazze quasi complici pareti
Qualcuno porta via
L’armamentario furtivo di ogni amore
e storie che pure proibito
Si ripete
Sono le apprendiste dai grembiulini lindi
O i poveri dalle mani sempre unte
Quelli che non ebbero fortuna altrove
In un luogo migliore che non risuonasse di
sveglia alle nove, solo un paio d’ore
Tenga il resto
E discrezione, mi raccomando

A volte ricordo
Di certe corse
Degli affanni
Dei calcoli sempre tardi
E mi ricompongo in scene
Di odi sottintesi
Di furori silenziosi
Di prese ai fianchi
E promesse prossime alla scadenza
O forse, già smesse

E non so, di queste forme
Se mai ebbero un peso
Se ancora ne vale il ricordo di una pena

Forse è solo la strada
O i miei passi
A venirmi incontro
Ma non ci sono mani che tese
Cancellino pensieri e pesi.

martedì 14 maggio 2013

ho dato parole

ho dato parole
non avevo altro
luogo d'eleganze
le mie dita erano di terra
e le unghie trattenevano steli distratti
ho dato parole
distanti dal fare
i miei luoghi non contemplavano
confini oltre i desideri
e le pagine altro non erano
che sudari ai pensieri

sono andate vie le parole
come col tempo le foglie
le cedue e più amate
cadendo ostinate
e a farsi dai rami ricordi
ma ebeti
come un filo che manca
un tessuto che langue
la mia trama che stinge
e perciò io ridendo
di un tempo mai creduto
e pur giunto
a battere cassa

lo pago
il lenone, il ruffiano
il tempo sovrano.

basterebbe l'aria



Basterebbe l’aria
Ora che lo spazio tra la pelle e il labbro
È un luogo chiuso

Il nuovo grano si rierge
A stormire verde
Quasi accompagna ai margini
E i passi risuonano, a tacche
Infissi nell’asfalto

Bordeggio, e in distratta finzione
Sfioro steli e rosso un apparire
Di papaveri

Il loglio conosce il luogo esatto
Dove la realtà dilegua

Vorrei chiedere perdono
All’oceano verde per la mia via
E la sua esigua visione

Ci sono alberi
Così semplicemente muti
E nidi senza rimpianti
Degli anni precedenti
Gli scheletri di nuovo si abitano
Quasi d’abitudine a cancellare sorti
E un azzurro così, trasandato
E cirri dove indovino forme
Voluttuosamente gonfie
Di seni a vela e d’occhi e braccia
E dèi distrattamente amanti

La solitudine è qui
Nel richiamo rigonfio dei fossi
Nei limi
Nelle voci di rana
Negli equiseti spezzati

La solitudine è qui
Solo un passo più avanti
Uno sempre,
a staccarmi
basterebbe l’aria.

sabato 11 maggio 2013

mo' ti cuntu nu sonnu, ora ti racconto un sogno

Riprendo questa pagina di diario di qualche tempo fa, perché mi è stata esplicitamente richiesta; ci si capirà poco o nulla; parlo dei miei genitori, e del sogno (forse dovrei dire visione o immagine) che ho fatto della 'Ballata del vecchio marinaio' di S.T. Coleridge. Ho letto poco in vita mia, e quasi mai in maniera adeguata o sufficiente. Questa ballata invece l'ho anche riletta (anche perché è corta, lo ammetto), e se non l'avessi fatto mi sarei perso qualcosa. Ma questo non ha importanza. Conosco due poesie in cui si parla dell'albatro: una è questa, l'altra è di Baudelaire, e sono due meraviglie assolute. Facciamo così: non leggete le mie fesserie, ma procuratevi quelle due meraviglie alle quali accennavo.

pagina, diario, 17 agosto 2010

mo' ti cuntu nu sonnu                   ora ti racconto un sogno
e de pecchì un ti cunt, si sonn      e di perchè non te li racconto, questi sogni
lui tornava, e chiamava
con l'ape che ronzava
non aveva la patente
sembra niente
non sentiva e ci chiamava
sempre più forte
perchè non sentiva

lei non c'era
sa fimmina!                             questa donna!
sinn và semp girann                 se ne va sempre in giro
sà fìmmina                              questa donna
e quann a chiamu                     e quando la chiamo
mai na vota c'arriva                  mai una volta che arrivi

cchi teni? cchi teni?                  che hai?  che hai?
cchi c'è?                                  cosa c'è?
è troppu pisu!                          è troppo peso!

com cchi c'è, n'unn u vidi?        come cosa c'è, non lo vedi?

no, papà, n'unn u viju               no, papà, non lo vedo
mò t'aiutu ji ccù a spisa            ora ti aiuto io con la spesa
t'a portu ij dintra, un ti stancar     te la porto io in casa, non affaticarti

ma allura daver' unn u vidi?         ma allora davvero non lo vedi?
cchi teni, figghiu me'?                  che ti succede, figlio?
daver' u dici, c'unn u vidi?             davvero lo dici, che non lo vedi?

he pijat' i pisci ca ti piàcin          ho comprato i pesci che ti piacciono
e l'acqua minerala e vinu novu     e l'acqua minerale, e vino nuovo

e chissu...                                 e questo...

si stàvinu spusannu                      si stavano sposando
duj beddi giùvini                          due bei giovani
c'era fudda davant' a gghijèsa    c'era folla davanti alla chiesa
e nu vecchiju, nu marinaru            e un vecchio, un marinaio
era sulu, m'ha chijamàtu                era da solo, mi ha chiamato
m'ha dittu                                         mi ha detto
pija s'animalu                                 prendi questo animale
pìilu d'i sciddi e pòrtil a fìgghijta    prendilo per le ali e portalo a tuo figlio
u giùvinu                                        il più giovane
u sacciu ch'è benutu                         lo so che è qui
ma a mija umm vena a trova          ma non verrà a trovarmi

unn a viju, papà                                     non la vedo, papà
unn a vij sa bestia ca nun tocca terra non la vedo questa bestia che non tocca                                                                                                     terra
un zugnu statu ij ca l'he ammazzat           non sono stato io ad ucciderla
è stat' u vecchju                                     è stato quel vecchio
ma ormai mi l'ha mannata.                      e ormai me l'ha mandata.