giovedì 26 febbraio 2015

Pensieri impassibili, 1,2.

1.
Sono stati giorni pesanti, dolenti, durante i quali mi avete segnalato tutta la vostra sensibilità; abbiamo trascorso momenti intensi, di picchi elevati alquanto e di palpabile tensione; la capacità di sopportazione del dolore è stata messa a dura prova; mi sono avvicinato a voi con timore crescente anche alla semplice idea di toccarvi dall'esterno, di dover saggiare e constatare la vostra mobilità, scoprendovi vuoti o inconsistenti; è stata dura, non ve lo nascondo; ogni momento mi sembrava quello inderogabile in cui avrei dovuto parlare di voi con qualcuno a noi estraneo... eppure ho saputo sopportare e attendere, attendere e sopportare: alla fine, almeno per ora, questa mia titubanza, finalizzata solo a preservarvi, è stata premiata, ora che non provo più dolore, e posso dirvi che ho fatto bene a credere in voi, scegliendo di non andare dal dentista, cari miei denti...
2.
Amiamoci amando; amandoci amiamo; ci amiamo amando; amando ci amiamo. Varie, sono le forme di egoismo. Tanti, i cambi d'attori sullo stesso tema. Il fondale, la sinopia, non cambiano, e nemmeno l'armamentario, la panoplia. Rimane lo scorno d'aver creduto agli abbagli, o la pienezza di aver vissuto la coscienza, esatta, d'amare amandosi.

martedì 24 febbraio 2015

La passeggiata, di Tommaso Landolfi, I.

Premessa: quello che dico mi è quasi del tutto ignoto, dalla punteggiatura all'opera di Tommaso Landolfi. Se il graffito che segue è verosimile, esso è già tanto, ché mi basta il vento, fagliandomi i mulini...
Si può amare o disprezzare, uno scrittore come Tommaso Landolfi, per quello che è stato e per quello che ha prodotto, e anche per come ha prodotto le sue creazioni. Landolfi risulta essere scrittore non molto conosciuto al giorno d'oggi, suppongo per una sorta di ostracismo della critica, cosa della quale non ci sarebbe molto da meravigliarsi, visto l'atteggiamento da lui tenuto verso i critici di professione, almeno in occasioni come quella rappresentata dal testo qui riproposto, 'La passeggiata', e come attesta l'altro pezzo quasi conseguente, 'Conferenza filologicodrammatica con implicazioni', dove i critici vengono messi, immaginariamente, alla berlina.
Landolfi, è risaputo, era un giocatore incallito, e nei suoi racconti dimostra tutta la sua capacità di saper giocare, la sua disposizione a saper osservare se stesso e gli altri, con la lucidità di chi sa aspettare e cogliere il momento giusto nei suoi aspetti più attesi e meno scontati.
Leggendo i suoi scritti risulta difficile trovare una virgola fuori posto, e non è, la mia, una metafora, no: ho l'impressione che ci si trovi di fronte ad un maestro di punteggiatura. Certo, per qualche buontempone sembrerà quasi una battuta di spirito... la punteggiatura! Se non si capisce, se non si apprezza, la punteggiatura, non si capisce nulla, o si capisce comunque poco, dello scrivere, essendo essa una delle forme attraverso le quali meglio si esprimono l'intelligenza e la sensibilità di chi scrive. Forse è per questo che la si dà per scontata, che non la si insegna, facendola diventare una specie di disciplina esoterica, anzi no, è forse proprio per questo che la si nasconde affatto, perché rimanga appannaggio di pochi.
Chiudo dicendo che probabilmente, almeno nel XX secolo, nessun altro ha posseduto (sì!) la lingua italiana, il suo lessico, come Landolfi e D'Annunzio: me lo ha confermato anche Calvino, solo che nei miei viaggi trasognanti Calvino parlava a ragion veduta, per averlo letto Landolfi (o almeno così credo), mentre io ho solo indovinato, non avendo le basi per farlo (così, altrettanto almeno, credo). 
Ah, non era Calvino in persona a dirmelo, ho solo parlato con un libro che parlava di Calvino che parlava di Landolfi, che ero in bagno, l'ho compulsato il libro,  e... toh! guarda cosa c'era scritto:
                                                                   La passeggiata.
La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima … Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio… E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!…
Alla fodina ormai l’acqua da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
— O tu?… Beh, che si fa di bello al distendino?
Uhm, poco di bello: il padrone s’è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via…
— Già, — riprese, — da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine.
— Bravo davvero il tuo padrone!
— Mah, si sa bene, quando la s’infaona…
— E qui ora che ci fai?
— Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
— Ah, ecco; e come…
— Coi prostomi e colle molleche, — rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all’ipartia… Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d’una volta: “Inguala!”, e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?…
Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa l’atropo, sull’agrostide l’agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
— Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.

Nota bene: per quante ricerche abbia io fatto in rete, non ho trovato nessuna 'traduzione' di questo testo... e forse è stato meglio così. Del resto, è quello che mi propongo di fare. Alla prossima.
(Lagena, però, lo sapevo già...)

domenica 22 febbraio 2015

Cosa guardi? Contaminazioni varie. La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava...

Incipit:
…Ed ecco ad ogni modo perché io vi dico: contro la luna non c’è niente da fare.
La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima… Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
-          Cosa guardi?
  -         I libri, i miei libri, sono bellissimi, anche se non li ho mai letti, qualcuno nemmeno mai aperto. Coi libri sono stato sempre fortunato. Non posso provarlo, ma sento di averli sempre indovinati.
Penso, per un attimo, che solo una personale onestà potrebbe negarmi questa certezza, ma mi sembra un dato trascurabile.
-   -            Sento che non li leggerò mai questi libri, che non riuscirò mai a farlo.
-  -             Ma certo che puoi, che potrai, nulla te lo vieta.
- -     E quando? Quando sarò morto? Anche a portarmeli dietro, sarebbe difficile… Potrei ridimensionarli, ma non sarebbe lo stesso… potrei trasferirli su cd, altrimenti la bara potrebbe rompersi con il loro peso, e comunque tutti non ci starebbero, e poi non saprei quali scegliere.

-  -           Allora dovresti portarti dietro anche il computer, per leggerli …

o    (omissis)

     Explicit:
Contaminazioni da:
Tommaso Landolfi, ‘Il racconto del lupo mannaro’, ‘La passeggiata’, ‘La dea cieca e veggente’, ‘Conferenza personalfilogicodrammatica con implicazioni’;
J. L. Borges, ‘Tlön, Uqbar, Orbis Tertius’, ‘Pierre Menard, el autor del Quijote’;
Anónimo, Prefazione al Lazarillo de Tormes;
Cataldo Antonio Amoruso, ‘Cose mai scritte’.
                                           **************************
Tentativo di traduzione in italiano ordinario del brano in italiano straordinario di Landolfi, tratto da ‘La passeggiata’:
La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima… Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
Mia moglie era in calzini, il garzone disfaceva le doghe delle botti, la domestica preparava il pastone di cruschello per ammorbidire la tela (un intruglio, un decotto)… Sono uno svogliato, veh, son perfino un po’ ottuso, ma una tal calma, mal rotta da quel picchiare violento o dalle rade sentenze del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un impiastro o di un cerotto depilatorio! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla miniera.
Per le due parole in grassetto potrei fare delle supposizioni, ma sarebbero fuori luogo, non è qualcosa di simile che necessita, in questo caso, ma qualcosa di corrispondente al dire di Landolfi.
La storia de ‘La passeggiata’ è un po’ simile a quella delle teste di Modigliani, uno scherzo che lo scrittore giocò di sicuro a qualche critico letterario, ai veri linguisti non saprei. Si tratta di tre paginette, forse nemmeno, delle quali, per quante ricerche abbia fatto, non sono riuscito a trovare una traduzione, nemmeno abbozzata. Vedere alla voce: ‘Conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni’, e dimenticarsene, non so perché, ma dimenticarsene.


mercoledì 18 febbraio 2015

La mia identità, in breve.

Talvolta mi capita di essere fatto oggetto di domande circa la mia identità, riguardo alla quale non trovo nulla di particolare da dire. Sono io, punto. Conosco pochissime persone, altrettanto poche conoscono me. Tra le une e le altre, sono sicuro, posso annoverare amici della cui benevolenza mi sforzo di essere meritevole. Sono migliori di me, proprio secondo gli insegnamenti avuti in famiglia: 'mettiti con quelli migliori di te...', così mi dicevano i miei. Anche se non ho mai capito, sin da allora, come sia possibile frequentare solo persone migliori di sé stessi, senza creare un numero indicibile di reietti. Ho vissuto a Cirò Marina fino al 1979, cioè fino all'età di vent'anni, nutrendomi di ideali, sogni, speranze. Poi un giorno, in apparenza di punto in bianco, in realtà alla prima occasione, ho rincorso i sogni, gli ideali, le speranze, e di tutti insieme ho fatto strame. Il resto è la vita ordinaria di un ferroviere. Di quei sogni, ideali, speranze, evidentemente non del tutto estinti, ogni tanto riaffiorano parole e pensieri che per una ventina d'anni avevo represso con decisa precisione. Negli ultimi tempi mi concedo di annotare ancora qualcosa, qualcosa che tutto sommato tratta di ricordi o di avvitamenti verso il sogno. E' un problema mio... Spesso ricevo dei complimenti, molto benevolenti devo dire, soprattutto da parte di quegli amici di cui sopra. Li ringrazio, fanno sempre piacere, e i complimenti e gli amici. A volte mi domandano perché non pubblico qualcosa di mio, anzi, qualcuno si sta impegnando in tal senso, superando la mia ritrosia e strappandomi un consenso abbastanza risicato, più 'ni' che 'sì'. Non ho mai pubblicato nulla e volevo dirlo, giusto per non essere confuso con nessun altro. In fondo, magari solo un pochino, alla mia identità ci tengo... e devo dire che mi è costato non dimenticarmi.
E allora, a chi non mi conosce e me lo domanda, posso dire che sono solo un ferroviere che ogni tanto espone i propri pensieri, per nulla in cambio, ché ci mancherebbe altro, su questo blog come sull'altro 'Cremissa, Origini cirotane'.
Ciao.

lunedì 16 febbraio 2015

Nu luminèddu, un lumino.

Di questo modo di ricordare i miei cari recandomi nel cimitero del paese in cui abito, accendendo un lumino su una tomba scelta tra tante.

sabato 14 febbraio 2015

vivere sarà questa tregua dall'eternità

vivere sarà questa tregua dall'eternità
sarà come questi alberi perduti e impassibili
assaliti dalla galaverna in mezzo al piano
vivere con la fortuna di non conoscersi
di confondersi a sé stessi
come se le radici si potessero cambiare di posto
come se un destino successivo non segnasse ogni luogo, ogni atto
vivere senza sapere di vivere
prigionieri di tempi ed artifici
vivere lasciando nulla
che dia tregua all'eternità e ai suoi dinieghi
come la galaverna, dissolta sul più bello...

un sogno ci salverà dall'oblio

un sogno ci salverà dall'oblio
con le sue vele infisse
in una superficie senza fondo
e sarà impossibile a dirsi e vero
come riaversi nel sonno 
di eternità iniziate ieri...

venerdì 13 febbraio 2015

ci si avvita

ci si avvita
all'ardire di geometrie
ricercando canoni da memorizzare
e pensare che era qui
dietro la porta appena
o perduta
dietro le linee uniche di un palmo di mano
l'armonia
lo stile perfetto
come un dire irreplicabile
pure
si disconosce o non ammette
la precisione dei gesti
l'umile perfezione dei luoghi
parliamo nel vento
ignorando i suoi abitanti
recidiamo piante
e dentro
la vita
costretta emigrante
altrove riprende
rimane la violenza
e lo sguardo innocente
nel suo gioco infantile
a fiori cose e frutti.

lunedì 9 febbraio 2015

sole che stride

sole che stride
e il rimando dei raggi rende
i picchi forse vezzosi
mai stagione si è annunciata
coi timori di oggi
che nel loro freddo sicuro costringono
altri passi non oso
che questo, così lento
che quasi dimentico
di andarmene
da questo posto da dove a stento
non si vede altra luce
che quella che nella mano tesa
si schiude
rimani, dal lato di qua della sofferenza
con il tuo volto contiguo, ormai
alla forma delle mani
e il mento, quando cambi posa,
che insiste sul buio stretto delle dita
ce la farai,
tu che non parli mai
ai bordi di un sorriso.

domenica 8 febbraio 2015

Quando passerà il prossimo tempo

Quando passerà il prossimo tempo
Quanto durerà questa possibilità
Che ancora vigili
Sul piano
Questa coltre d’onesto
Colore che ripara
I guasti per un attimo alle viste

Traversa lo sguardo il dorso della mano
E un tutto è lieve di candore
Poi affiora
Tacita la forma di terra viola di dolore
E già, silente
Si scioglie
Alle scaglie del sale
Duraturo
Nel suo rapido addio al giorno
La neve ingenua
In sùbita fanghiglia

È stato un attimo
Poco più che toccare
una vela con un dito
e della neve già bastava,
quanto a meraviglia.


Tempo passa, cronico

Tempo passa, cronico
e ne rimangono, in verticale
i segni delle unghie
spezzati dalle vere a perpendicolo
fino al fondo del pozzo
Di tanta alternanza di lune
altro non appare
che un chiarore breve
e ineffabile
qualcuno che va
almanaccando lo identifica
forse da speciali effetti
o ineffabili
vita.
Che ci sarà,
come in un pozzo
da terra a cielo
senza porte.