domenica 18 marzo 2018

Un mese se ne è andato.

Un mese se ne è andato... E allora ti rinnovo un nostro ricordo. Tanto, ovunque tu sia, ti penso così forte che non puoi non sentirmi.
Tu facevi la quinta D, ed io la seconda, quel tuo ultimo anno di liceo.
Il liceo scientifico di Crotone, che allora non aveva nemmeno un nome –era ‘statale’ e basta: anche troppo, forse– era allocato in alcuni appartamenti di uno stabile preso in affitto, e distava circa un chilometro dalla stazione ferroviaria. Lungo quel percorso c’erano poche case, pochissime, e molte officine meccaniche o simili, come ancora oggi.
Le ragazze che tornavano alla stazione avevano sempre bisogno di camminare almeno a coppia, perché temevano i ragazzi che lavoravano in quelle officine, carrozzerie, o quello che erano... temevano gli sberleffi, gli sfottò, i lazzi, le intemperanze, o peggio, qualche avance o mano che si allungava, qualche pantalone che si abbassava...
Di solito tu tornavi con quella ragazza di Botricello, Cristina, serissima, che per un po’ aveva abitato nel nostro paese, anche lei figlia di ferroviere, zzu Peppinu Spina.
Ma quel giorno sapevo che lei non ci sarebbe stata al ritorno, sarebbe dovuta uscire prima, per cui saresti dovuta tornare con me...
Quel giorno cominciò a piovere, a piovere sempre più forte, a dirotto, e figurati se potevo avere un ombrello, non li uso nemmeno ora gli ombrelli...
All’uscita non ti ho vista, ho aspettato e aspettato, niente, niente di niente... e allora mi sono avviato verso la stazione, di corsa. Ho domandato a quelli che potevano conoscerti, nessuno ti aveva vista. Il tempo di rifiatare... e via di nuovo, sotto una pioggia come Dio la mandava, di corsa, fino al liceo... e poi un altro chilometro circa, con la milza che mi scoppiava, fino a Piazza Pitagora... niente, non c’era più nessuno sotto i portici dove gli studenti dei tanti paesi senza scuole superiori passeggiavamo in attesa dell’orario del pullman o del treno... niente di niente, e di nuovo di corsa fino alla stazione, con la lingua penzoloni e il cuore che non sapeva dove sbattere.
Giusto il tempo di stringere i denti di fronte agli sguardi divertiti dei temuti ‘discìpuli’ (apprendisti) delle officine che mi avevano visto fare avanti e indietro sotto il diluvio, e prendere il treno delle due, trafelato, fradicio di pioggia e arrivare a casa e trovarti già cambiata d’abiti (perché noi, al ritorno da scuola, dovevamo cambiarceli i vestiti, ché non si dovevano sporcare per tutta la settimana). 
- Anciulì???
- Sono tornata prima, col treno delle 11.30, mancava un professore, c’era anche Cristina...
- Meno male, a quell’ora non pioveva ancora, così non ti sei bagnata, per fortuna.
Lo avrei rifatto mille volte quell’avanti e indietro, senza fiatare, pur di saperti serena, pur di proteggerti.
Oggi no, oggi posso solo pensarti forte forte, più forte che posso, non posso altro. Non posso nulla che serva.
Anche ieri a Prato pioveva, nel tuo trigesimo e sulla tua tomba sommersa di fiori. Ha smesso giusto il tempo di salutarci, poi ha ripreso, senza dire nulla.
Nel 16 di marzo 2018.

Angela mia.
Da qualche parte nel tempo non avremo mai smesso di giocare alla bicicletta, piedi contro piedi sopra il letto, e a ridere, e ad essere gelosi di una carezza in più o in meno della mamma, o del tazzone di latte che a me sembrava sempre meno pieno di quello che toccava a te.
Vengo a trovarti, e hai sempre quegli occhi, di passerotto infinitamente rispettoso di tutto e di tutti, incapace di chiedere, di domandare, timorosa di fare rumore, infinitamente delicata, e dolce, sempre, come tu sai essere nei tuoi silenzi fatti di luce.
Era il 25 dicembre 2017.

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