Cinquecentesimo post... forse ho esagerato.
http://krimisa.blogspot.it/2014/01/lorenzo-calogero.html (per la parte I)
NOTA: la 'Premessa' di Tedeschi non è divisa in parti, la suddivisione è dovuta al fatto che nel mio adattamento grafico consta di ben 14 pagine A4.
http://krimisa.blogspot.it/2014/01/lorenzo-calogero.html (per la parte I)
NOTA: la 'Premessa' di Tedeschi non è divisa in parti, la suddivisione è dovuta al fatto che nel mio adattamento grafico consta di ben 14 pagine A4.
Quella che segue è la seconda parte della 'Premessa' di G. Tedeschi ai due volumi dell'edizione Lerici dell'opera completa (tale doveva essere secondo le intenzioni dell'editore) di Lorenzo Calogero. Spero di non violare i diritti d'autore, nel cercare di far rivivere questo buonissimo lavoro del Tedeschi. Del resto i lettori di questo blog sono talmente pochi che la violazione sarebbe comunque trascurabile.
****************
Mi scrive altre lettere, lunghissime e
che sembrano nate, tutte, da un unico, costante, incalzante motivo: la poesia,
la figura del poeta, il suo fallimento in ciò, o, almeno, la sua incapacità a
penetrare a fondo in questi ingranaggi. Lo esorto con vaghe giustificazioni, le
sue posizioni epistolari sono estreme, rasentano l'alienazione e quasi un tipo
di nevrosi, sistematica, intensa, perenne: l'ossessione della poesia.
Vigorelli, per esigenze redazionali, non può pubblicare, nel fascicolo di
febbraio-marzo, le sue poesie. Glielo scrivo. Mi risponde (mancano appena dieci
giorni alla sua morte e egli certamente già lo sa): «Ti ringrazio moltissimo della tua
lettera e della comunicazione che mi dai. Ho capito ormai e da molto che mi
trovo in un mondo alquanto misterioso. Prima speravo che sarebbe finito e che
sarei rientrato in una certa normalità di vita. Mi accorgo adesso o, meglio,
faccio la triste esperienza che quel tale mondo che avrei desiderato come una
specie di normalità al mio genere di vita, a quella tal vita che mi sono
costretto a vivere, non verrà mai più. E’ tanto già se tu mi degni della tua
amicizia...». Povero Calogero, ancora una volta disperato e sconfitto, e
ignaro se la sua poesia, cui ha dedicato tutto se stesso fino alla follia, sia
degna. Il 26 marzo ricevo dal fratello Francesco la comunicazione della sua
morte («...conoscendo la sua amicizia con mio fratello Lorenzo mi premuro
comunicarle la sua morte avvenuta sabato 25 ultimo scorso»).
Rimango
molto turbato dalla schematica perentorietà di questa lettera e dall'inespresso
che contiene. Mi torna alla mente un brano della tua ultima lettera ricevuta
qualche giorno prima e datata 18 marzo: « ...non è stata una gran bella esperienza quella che ho
fatto, ma il mondo era in tal modo era
bene pure che lo si sapesse, per quel tanto, almeno, che non si dovesse
distruggere la propria vita senza che nemmeno lo si sapesse...». Chiedo
al fratello di dirmi qualcosa di più, di spiegarmi meglio. Mi risponde con una
drammatica e pietosa lettera, completa, nel suo assurdo sviluppo e nei suoi
specifici ragguagli, di una serie di vicende che possono porre in dubbio
addirittura tutta la condizione dell'uomo e della sua storia.
Eccola: «...La morte del mio povero fratello
ci ha colti di sorpresa ed ancora non ci siamo ripresi dal trauma, quantunque
si debba arrivare alla conclusione logica, suggeritami da un mio amico,
professore di filosofia all'università ed amico fraterno pure di Lorenzo
" che per quanto triste sia stata la sua fine è certamente meno
triste della sua tormentata esistenza "(...). Infatti è stato sempre
infelice e credo che non abbia mai avuto un attimo di piena felicità o
soddisfazione. Anche quando all'unanimità da una commissione di uomini illustri
gli è stato conferito il premio letterario Villa San Giovanni, lui ha accettato
l'avvenimento, che ha fatto esultare noi familiari, con un senso di amarezza e
di sfiducia. Io lo seguivo molto da vicino e ascoltando i suoi interminabili e
talvolta caotici discorsi ravvisavo in lui i personaggi dei romanzi di Franz
Kafka. (...) Per lui la vita era misteriosa più di quanto questa sia in realtà.
Tale mistero in questi ultimi tempi lo assillava in maniera paurosa. (...)
Adesso cercherò di raccontarle come si sono svolte le cose per lo meno nell'ultima
settimana che va dal 19 al 25 marzo. Mio fratello viveva solo in una villetta
di proprietà di mio padre in Melicuccà. Io e mia sorella andavamo a trovarlo
due volte alla settimana per provvedere alle sue necessità. Domenica 19 marzo
come al solito verso le ore 15 ci siamo recati a Melicuccà, ma aperta la casa
non abbiamo trovato mio fratello, cosa questa che ci è capitata diverse volte.
Infatti quando partiva non aveva l'abitudine di avvertire alcuno. Quindi quella
sera dopo aver sbrigato quanto avevamo da fare in paese siamo ritornati a
Bagnara senza eccessive preoccupazioni. Lunedì mattina, giorno 20 marzo,
Lorenzo si è recato a casa mia accompagnato da un altro mio fratello, che abita
pure a Bagnara e nella cui casa aveva pernottato (...) Si è trattenuto a casa
mia fino alle ore 16 dopo di che l'ho accompagnato in macchina a Melicuccà,
dove mi sono trattenuto fino alle ore 20 circa a discutere con lui, quel giorno
era calmo come non mai. Questo è stato l'ultimo mio incontro con lui. Venerdì
24 marzo, essendo mia sorella impegnata, mi sono recato da solo a Melicuccà,
dove giunto ho trovato la casa chiusa e non avendo con me la chiave ho deciso
di tornarmene a Bagnara. Prima di partire ho chiesto ai vicini notizie di mio
fratello e m'è stato riferito da alcuni che loro l'ultima volta l'avevano visto
martedì giorno 21 marzo in chiesa, dove s'era recato a confessarsi e farsi la
comunione. Era ormai da venti anni che non praticava i sacramenti o frequentava
la chiesa, ed anzi dai discorsi che teneva con me dimostrava un astio
particolare verso tali istituzioni. Dopo aver assunto queste sommarie
informazioni sono tornato a casa, pensando che anche questa volta mio fratello
fosse partito come al solito per qualche posto. La mattina di sabato
però sono stato assalito da un dubbio, e Lei intenderà le ragioni di questo
dubbio da quanto fra poco Le dirò, e perciò ho mandato un incaricato ad aprire
la casa e Lorenzo è stato trovato a letto morto. La sua morte secondo il parere
dei medici risaliva ad almeno tre giorni prima. Per spiegarLe le ragioni del
mio atroce dubbio di sabato mattina debbo anche io entrare nel problema che la
vita è misteriosa per tutto e mi debbo riportare molto indietro nel tempo.
Quando mio fratello aveva 15 o 16 anni, sotto la guida della mia povera
mamma, donna molto religiosa, era talmente infervorato della religione che per
diverse volte ha praticato i primi venerdì del S. Cuore di Gesù. Tale pratica consiste nell'accostarsi ai
sacramenti ogni primo venerdì di mese per nove volte consecutive. Per chi ha
seguito tale pratica con fede esiste la promessa del S. Cuore di Gesù che non
potrà morire se non in grazia di Dio. Per dare giustificazione a questo inciso
Le debbo dire che mio fratello ha tentato di suicidarsi due volte mettendo la
sua vita in grave pericolo, la prima volta verso il 1942, sparandosi un colpo
di pistola in direzione del cuore e la seconda volta circa cinque anni fa
recidendosi le vene dei polsi, periodi questi in cui era in lite con la chiesa.
Rammentando tali episodi debbo ricordare anche le parole della mia povera mamma
che in tali circostanze, sia la prima che la seconda volta, ha detto "non
può morire perché non è in grazia di Dio e non morrà finché non sarà in tale
condizione perché ha fatto i nove venerdì del S. Cuore di Gesù". Il
mistero qui comincia a prendere grosse proporzioni e preferisco non
addentrarmi dato che Lorenzo faceva uso di sonniferi; quando ho appreso la sua
morte mi son posto e mi pongo ancora il problema "è morto o ha voluto
morire?". Cerco di dissipare il dubbio sulla seconda eventualità al lume
degli avvenimenti che precedettero la sua fine, poiché essendo uomo
intelligente non poteva conciliarsi con Dio premeditando
contemporaneamente quanto da Questi è condannato..».
Nell'aprile,
«L'Europa Letteraria»
pubblica i suoi versi con questo preciso giudizio di Giancarlo Vigorelli:
«...un caso, non soltanto letterario, che sembra inscriversi tra quelli
eccelsi di Campana e di Artaud» e con questo corsivo redazionale: «Questo
"Omaggio a Calogero1'' fu congegnato quattro mesi fa e
avrebbe dovuto comparire nel fascicolo scorso di "L'Europa Letteraria".
Calogero, così colpito da sventure, senza credito e senza speranze, come
sempre fu, ne attendeva la pubblicazione quasi con ansia. Le sue lettere sono
commoventi al riguardo. Esigenze redazionali non ne consentirono la
pubblicazione. Oggi che egli è morto, improvvisamente, (Melicuccà 24 marzo
1961) queste pagine avrebbero dovuto avere un altro tono, almeno più inequivocabile
e perentorio sul significato che un verso assume dopo una repentina morte.
Dovevano essere una testimonianza per un "vivo", non la rivelazione
del talento di un "morto". Si preferisce perciò lasciare nella
stesura originaria e il distico bio-bibliografico e la puntigliosa
presentazione di Sinisgalli e il drammatico profilo di Tedeschi così come
nacquero per lui vivo, come se egli non fosse morto e fosse ancora in attesa di
leggersi in questi giudizi. I lettori e i cultori di poesia non frettolosi
dovrebbero tenere in gran conto il comunicato della vita e della poesia di
Calogero».
Io so che è morto di solitudine, che è morto di
tristezza. Forse mi sto inoltrando in discorsi letterari, equivoci, decadenti,
in mitizzazioni facili e deformanti. Ma nessuno avrebbe retto a quella
solitudine, alla tristezza che io ho visto sulla sua faccia. I suoi ultimi
giorni sono stati terribili, ognuno può immaginarsi quanto, con questa morte
che gli alitava intorno e gli penetrava sempre più dentro fino a alterargli la
scrittura, sempre più piccola, caotica e declinante. Io stesso, per cercare di
fargli superare il suo perenne vittimismo, scrivendogli sbrigativamente «la vita è come è: si accetta o si
rifiuta» gli avrò dato una ulteriore spinta. Tutto ha contribuito, il suo carattere introverso e psicastenico, la sua estrema ricettività del
tragico, la sua diffidenza patologica, la insonnia perenne, il disordine
psichico e fisico in cui da decine di anni viveva, la impressionabilità e la
tendenza al pessimismo, al «maudit» e ai testi di questa natura,
un po' la sua natura di decadente e di lettore dei grandi testi del
decadentismo romantico. Queste le illazioni storicistiche della sua situazione
che, poi, a rapporto con tutta la sofferenza vera della sua vita, possono non
convincere. Era come era, decadente e vittimista, un caso patologico, un
pavido, un non-impegnato, ma di fronte all'assurdo cerchio della sua vita e
della sua morte, di fronte alla sua solenne poesia, di fronte alla sua bontà
che nessun poeta ha posseduto, che io sappia, tanto interamente, non si può
andare con le diagnosi dei sociologhi e degli psichiatri ma con la devozione
più aperta. Tutto può porsi in dubbio, si può non tollerare questi entusiasmi e
questa pena: è la vita, si dirà, ognuno ne ha una sua porzione, Calogero non è
né il primo né sarà l'ultimo dei travolti. Certo. Ciò che inquieta è altro: in
piena epoca di sistemazioni sociali, demografiche e democratiche, in pieni
miracoli economici, con progressi strabilianti di ogni natura, egli è stato
destinato a vivere e a morire così.
Le astrazioni, se si può dire, sono stati i suoi drammi: la vita e la
morte, la poesia e l'amore. Come tutti gli ingenui e i puri se ne è fatto per tutta la vita la sua
ossessione. Non possedendo, poi, la freddezza logica e il distacco dei forti,
anzi l'entusiasmo travolgente del debole, ne è rimasto impaniato fino alla
follia e alla morte.
La folta schiera dei travolti, suicidi e disperati, si chiamino Villon o
Poe, Van Gogh o Gerard de Nérval, Rigaut o Harte Crane, Virginia Woolf o
Pavese, Attila Jòzsef o Enrico Fracassi, Von Kleist o Michelstaedter, Otto
Weininger e Erskine Gorki, «poeti assassinati in una battaglia contro una
società intollerabile» come
diceva Tristan Tzara del suicidio di Attila Jòzsef, si allunga di un altro nome
degno della stessa devozione. Era malato, aveva anche un po' deformato tutto, i
suoi centri emozionali e ghiandolari gli trasformavano la vita, gliela
rappresentavano attraverso le sue trances. Avrebbe potuto capire che poteva
essere poeta anche se medico e non che per essere poeta lo stato ideale era il
suo? Non faceva di queste considerazioni. Gli si poteva parlare per mesi di
Ungaretti, Montale, Luzi, Saint John Perse, Costantino Kavqfis, William Carlos
Williams, grandi poeti e buoni professori, giornalisti, diplomatici, medici.
Le condizioni esterne gli hanno sempre aggravato tutto. Instabile,
pauroso, afflitto, sradicato da tutte le possibili organizzazioni, senza soldi,
senza amicizia, senza famiglia (rifiutava di stare con i fratelli e le cognate)
voleva rimuginare da solo i quesiti del suo destino, sempre più sbandato,
inquieto, allu-cinato, ingolfato di classicismo, del mito della poesia, i
grandi miti di Novalis, Von Kleist, Holderlin, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire.
La mitizzazione della poesia è stata la sua rovina. Sapeva di morire ma, dopo due suicidi non
riusciti, voleva, scrivendomene, apparirne incerto non so se per darsi o per
darmi coraggio, per chiamare o per scacciare dalla sua faccia glabra e lontana
l'assurdo invito. Non so dire quanto di letterarietà ci sia potuto anche essere
in questo suo giro intorno alla morte, dicendo di rifiutarla, ma gioiosamente
compiacendola: «che
la vita si accetti o si rifiuti è cosa del tutto normale. Dopo due volte che ho
tentato di suicidarmi, credo che non mi verrà più un'idea del genere per la
terza volta. All'età mia e col carattere di cui dispongo anche il mondo quasi
misterioso non sarebbe in grado di darmi mai più felicità. Che significherebbe
ciò? Che penso del tutto improbabile una terza volontà di realizzare un terzo
suicidio (...) che accetto cioè pienamente e completamente la vita senza essere
in grado da un lato della verità etica, colla completa ignoranza del mondo
misterioso e colla inadeguatezza, che sento a sufficienza, per le operazioni
utili e necessarie alla vita. Che cosa di più potrei fare? Del resto se tali
som i problemi che si presentano come regola e condizione della vita, d'una
vita migliore di quella che sono costretto a fare, non vorrei, posto che
qualcheduno potesse perdere, che nessuno dovesse perdere per causa mia, né io
saprei come fare per avvicinarmi a questo mondo misterioso, posto che potesse
dare qualcosa. O può darsi che io riceva abbastanza e non lo so troppo; ma non
sono certamente felice. In che cosa potrebbe consistere la mia felicità,
sarebbe troppo difficile dirlo, o richiederebbe molte parole complesse. Perciò
è bene, in ogni caso, che ognuno si tenga la propria felicità o infelicità
senza parlarne.. ». Intanto aveva già scritto su un gruppo di qua-derni
ultimi questa dedica: «A un mondo a me veramente sconosciuto, / ad uno
ritrovato, / (...) a la mia morte...». È la costruzione psicologica di una morte spietata,
maggiormente perché silenziosa.
Mi è stato chiesto un profilo biografico
e invece sto facendo un trattato di interpretazione. Avrei dovuto elencare solo
i fatti, le date, servirmi solo di testi, lettere e versi, elencare solo le sue
peregrinazioni,, senza partecipazione, senza trasformazioni sentimentali. Ho
decine di fogli su tutte queste possibili modalità, ho dovuto rifiutarle tutte,
non potevo ridurre la sua vita indicibile a una sinossi. Nella cronologia
biografica posta di seguito a questa presentazione sono elencate le sue date, i
suoi piccoli giri, le sue limitate attività pratiche, i suoi puri amori. La sua
vita è tutta qui: vocazione alla poesia. Per il resto è priva di qualunque fatto esterno, di viaggi,
conoscenze, esperienze, movimenti. Tutto per lui era la poesia, anche
fallimento dietro fallimento, delusione su delusione. Avesse avuto il carattere
del « bohémien » avrebbe affrontato la vita di molti poeti della
sua generazione, sarebbe corso a Roma o a Milano, si sarebbe inserito tra i
gruppi
Quasimodo-Gatto-Cantatore-via Rugabella-Sinisgalli-Falqui-Scipione-De
Libero. Era invece timido, legato alla madre, confuso, dibattuto.
La storia delle sue date è terribilmente
spoglia. Figlio di benestanti in una zona e in una regione tra le più depresse d'Italia, nel 1910
certamente più di oggi, egli viene avviato, come vuole l'accorta tradizione
familiare che elenca nelle sue tappe avi notai e farmacisti, avvocati e medici,
agli studi completi, da cui ricavare una sicura professione. Segue gli studi
con profitto anche se interrotti da qualche malattia e dalla instabilità del
suo fisico e dalla tendenza romantica del suo carattere che lo spingono molto
presto (pare che abbia cominciato a scrivere le sue prime poesie verso i 16-17
anni di età) a vedere delle cose l'aspetto lirico più che l'aspetto pratico, la
riflessione più che l'azione. Certamente egli non sa ancora niente di questo
atteggiamento psicologico che lo spinge alla poesia. Padre e madre lo tollerano
poco, la tradizione familiare vuole che tutti i figli siano « a posto »,
laureati o, almeno diplomati. È la storia dei nuclei familiari delle nostre
regioni meridionali, con tutto il portato delle ambizioni, delle repressioni,
dei sacrifici, delle velleità, delle fughe, dei fallimenti, delle acquiescenze, delle rare riuscite. Per lui la decisione è
che deve fare il medico, il resto non conta. Legato alla famiglia e docile per
natura egli non si ribella e studia la medicina con profitto ma
contemporaneamente legge i poeti e di essi si infatua indiscriminatamente. Si
ingolfa nel dannunzianesimo e in un tipo di cultura accademica imperante tra il
'30-34: Papini, il Borgese, Oriani. Essendo ai margini e pressato dalle
pratiche raccomandazioni materne non entra nel vivo della poesia e i suoi versi
sono ancora letterari. Nel '34 scopre «Il Frontespizio», Carlo
Betocchi e Piero Bargellini. Sono sintomatiche queste sue preferenze e queste
sue scelte? Perché «Il Frontespizio» e non, per esempio, « Salaria»? La sua formazione è vagamente cattolica e perciò nel «Frontespizio» che,
si sa, non ha un chiaro programma o, se lo ha, è solo quello di una generale
ripresa del cattolicesimo nazionale non privo peraltro di palesi
giustificazioni del momento politico, egli riesce a identificarla. Egli sa poco
della vera situazione culturale di quegli anni né, forse, la lettura di qualche rivista
letteraria lo orienta veramente. I versi che invia a Bargellini gli vengono
restituiti, quelli che invia a Betocchi giudicati non opportuni alla
pubblicazione. Non desiste e invia versi anche a premi letterari e a riviste
spurie, lasciandosi irretire dalla Centauro Editore a pubblicare, dietro
pagamento naturalmente, la raccolta Poco suono. È afflitto da strane patofobie che lo studio
della medicina contribuiscono a aggravare. Insiste con Betocchi per pubblicare
sul «Frontespizio» e gli chiede qualche presentazione. Le sue
poesie sono ancora informi e Betocchi, con giudizi attenti e pertinenti, glielo
fa notare. Nel '31 si laurea in medicina e chirurgia, ma più che della laurea
si occupa di scegliere poesie da inviare ancora a Betocchi che gli promette di
pubblicarle sul «Frontespizio». La pubblicazione non avviene e
egli ne trae la conclusione che il suo destino non è quello del poeta. Non
scrive più a nessuno, né invia più versi. Comincia a esercitare la professione
di medico, girando in infiniti paesi e paesini di Calabria. Pare tenga a
distanza la poesia, non ne parla più. Né ho scoperto corrispondenza relativa,
né per Betocchi né per altri o documenti che testimonino mandasse poesie a
premi o a riviste.
E' instabile, « non mi trovo », scrive. Non rimane mai molto nello stesso luogo. Tende a tornare a Melicuccà, dalla madre, quando è via; a fuggirne, quando vi è. Ha una intensa corrispondenza con la madre; delicata e stupenda, per entrambi. Le parla della sistemazione della casa, della toponomastica dei paesi, della ubicazione topografica rispetto a Melicuccà, delle frazioni che compongono un paese, della padrona di casa, delle visite, di tutto ciò che pensa e fa. Le scrive quasi ogni settimana. Le racconta anche le cose più piccole, le fa i conti dei soldi che riceve (pochi, « Le visite sono ben pochi quelli che me le pagano... Non è da farsi eccessive illusioni al riguardo... ») e di quelli che spende, le parla degli incontri con quasi tutte le persone, le fa la storia di tutte le sensazioni, i timori, le paure, la solitudine. La madre fa altrettanto. Gli dice e glielo dirà ogni volta «ti affido al Cuore di Gesù, Lui ti saprà guidare» e «che Iddio ti benedica e ti liberi d'ogni pericolo». Gli raccomanda tutto, fino alle cose più piccole e strane, trepida e tenera, come se il figlio avesse ancora 10 anni. E' la storia eterna della trepidazione delle madri, ma di quelle meridionali in particolare per il miscuglio di « Cuori di Gesù», superstizione, malocchio, affanni irreali che la intesse. Tra il '42 e il '43 tenta il primo suicidio. Non ho trovato notizie precise. Si spara in direzione del cuore. I fratelli sono alla guerra. Viene salvato a fatica. Fa il medico sempre più a malincuore.
E' instabile, « non mi trovo », scrive. Non rimane mai molto nello stesso luogo. Tende a tornare a Melicuccà, dalla madre, quando è via; a fuggirne, quando vi è. Ha una intensa corrispondenza con la madre; delicata e stupenda, per entrambi. Le parla della sistemazione della casa, della toponomastica dei paesi, della ubicazione topografica rispetto a Melicuccà, delle frazioni che compongono un paese, della padrona di casa, delle visite, di tutto ciò che pensa e fa. Le scrive quasi ogni settimana. Le racconta anche le cose più piccole, le fa i conti dei soldi che riceve (pochi, « Le visite sono ben pochi quelli che me le pagano... Non è da farsi eccessive illusioni al riguardo... ») e di quelli che spende, le parla degli incontri con quasi tutte le persone, le fa la storia di tutte le sensazioni, i timori, le paure, la solitudine. La madre fa altrettanto. Gli dice e glielo dirà ogni volta «ti affido al Cuore di Gesù, Lui ti saprà guidare» e «che Iddio ti benedica e ti liberi d'ogni pericolo». Gli raccomanda tutto, fino alle cose più piccole e strane, trepida e tenera, come se il figlio avesse ancora 10 anni. E' la storia eterna della trepidazione delle madri, ma di quelle meridionali in particolare per il miscuglio di « Cuori di Gesù», superstizione, malocchio, affanni irreali che la intesse. Tra il '42 e il '43 tenta il primo suicidio. Non ho trovato notizie precise. Si spara in direzione del cuore. I fratelli sono alla guerra. Viene salvato a fatica. Fa il medico sempre più a malincuore.
Nella primavera del '44 si fidanza con Graziella, una studentessa in
lettere di Reggio Calabria, ma dopo appena cinque o sei mesi rompe il
fidanzamento e si rifugia a Melicuccà dalla madre. La sua vita è sempre più
caotica. Abbandona i posti di lavoro, si rifugia dalla madre con più frequenza.
Si ingolfa in tutte le letture: filosofia, scienze biologiche e psicologiche,
teologia, poesia, matematica. Filosofia, poesia e matematica saranno poi
persistenti termini di paragone. Non ancora ha dimenticato Graziella, incarica
chi più gli riesce per riallacciare la relazione e le scrive lettere
lunghissime di implorazione e di amore. Di questi anni (1946-1952) sono, forse,
le poesie di Ma questo e
di Come in dittici, volumi che pubblicherà nel '55 e nel '56 (Maia,
Siena). Ha aggravamenti specifici e generali al suo già precario stato di
salute. Ha disturbi polmonari, una pleurite. Si ritira definitivamente a
Melicuccà dove fa, a malincuore e senza riscuotere fiducia, il
medico-sostituto. La madre lo stimola, gli dà coraggio gli fa fare concorsi per
altre provincie. Intanto invia i suoi dattiloscritti a molti scrittori, poeti,
uomini di cultura e ha corrispondenza con sigle editoriali spurie che gli
propongono pubblicazioni a pagamento.
Nel '54 ottiene l'incarico di medico condotto ad interim a Campiglia
d'Orcia (Siena), Anche qui «non si trova». Resiste, ripensando alla poesia.
Rimette in ordine qualche dattiloscritto. Vuole pubblicare assolutamente. L'11
ottobre del '54 spedisce a Einaudi, a Milano (chissà perché a Einaudi e alla
sede di Milano, poi) due dattiloscritti accompagnati da una lunga lettera (ne
ho trovato tre versioni, tutte cariche di correzioni, aggiunte, ripensamenti,
macchie) in cui, lungamente, spiega, giustifica, indaga la sua concezione di
poesia. Einaudi non risponde (è probabile che tra le sedi di Milano e di Torino
sia capitato qualche disguido). Nel novembre raggiunge Milano (farà in piazza
del Duomo, in mezzo ai colombi, alcune fotografie. Una è riprodotta nelle prime
pagine) per chiedere notizie direttamente. Alla sede della Einaudi di Milano
gli dicono che non sanno niente dei suoi due dattiloscritti, perché tutti i
dattiloscritti sono sempre rinviati alla sede centrale a Torino. Parte per
Torino, con l'intenzione di parlare con Giulio Einaudi personalmente. Gli
dicono che Einaudi è assente e che i dattiloscritti non sono ancora arrivati da
Milano. (Tutta questa storia la racconterà egli stesso in una ulteriore lettera
che scriverà nel febbraio del '55 a Einaudi e di cui ho trovato due minute).
Manda o porta personalmente lettere e dattiloscritti anche a altri
editori (non ho scoperto quali) che gli rispondono sempre evasivamente come è
detto in una sua lettera di quasi dieci cartelle, trovata in sette minute tutte
fitte di varianti, aggiunte, ricapitolazioni, spiegazioni, scritta in risposta
ad una cartolina in cui gli si dava assicurazione che gli sarebbe stata comunicata
la decisione su due dattiloscritti da lui consegnati.
La sua sfiducia diventa sempre più
patologica. Vuole tornare dalla madre e abbandonare il posto. Lo scrive al fratello
Paolo che fa l'ingegnere comunale a Macerata: «ho dei disturbi tali che mi
consigliano di abbandonare il posto (...) che mi accompagni almeno per un
tratto a fare ritorno a casa, perché da solo non ce la faccio..». Il fratello gli scrive affettuosamente,
gli dà coraggio.
Resiste,ripensando alla poesia e si mette in
contatto con la Editrice Maia di Siena. Nel febbraio del '55 riscrive a Einaudi
che gli risponde: «Egregio
Signore, abbiamo letto ed apprezzato le sue raccolte di poesie Ma questo e
Poesie, e ci dispiace dirle che siamo costretti a restituirgliele, non
avendo la nostra casa una apposita collana di poesie. Ci scusi il ritardo,
dovuto all'ingente numero di manoscritti da esaminare, e voglia gradire i
nostri migliori saluti. Giulio Einaudi Ed. S.p.A.».
Nel settembre del '55 esce Ma questo (Maia, Siena). Non ho scoperto se ebbe
recensioni, né se fu distribuito ai critici e a altri. Certamente lo spedisce a
molti. Comincia con Betocchi spedendoglielo a Firenze con lettera «raccomandata
r.r. » (28 settembre '55) all'indirizzo di Via Carnesecchi 23 che
evidentemente ricordava da venti anni prima. La lettera gli viene respinta con
la dichiarazione «sconosciuto al portalettere», così l'ho trovata. Lo
manda a Remo Cantoni a «Epoca». Lo manda a Alba De Cespedes.
Nel novembre del '55 viene dimesso da medico-condotto con questa deliberazione comunale:
«...il dott. Lorenzo Calogero, medico condotto di Campiglia d'Orcia, al
termine del periodo di esperimento e cioè il 23 gennaio 1956 è dimesso dal
posto perché la popolazione non gli ha dimostrato fiducia tanto che nella quasi
totalità si astiene dal ricorrere alle sue prestazioni ».
E' sempre più malato. Si fa visitare dal
professor E. Greppi dell'Università di Firenze. Gli riscontra: «segni generali
di tossicosi e labilità in probabile rapporto con abuso di barbiturici e
tabacco, in soggetto nervoso, suscettibile, ipoteso in atto... ».
Il tarlo
della poesia ricomincia interamente a prenderlo. Mette a punto la sua vocazione
poetica scrivendone una cronistoria densa di strane implicazioni wittgensteiniane,
certamente a lui ignote (sarà poi la « Premessa» per Parole del
Tempo che uscirà nel gennaio del '56). Gli riprende però il panico di tutto
come risulta da questa drammatica lettera alla madre: «...ti avevo
inviato due lettere (...). Con esse credevo di averti detto più o meno il mio
pensiero (...) che mi sento male, che non guadagno un quattrino, che non trovo
alcuna possibilità migliore di quella che avrei trovate costà per pubblicare i
miei versi, mi domando perché insisto a rimanere e non rinunzio definitivamente
al posto (...). Se per le altre cose si potrebbe non prendersela a cuore,
contro la cattiva salute non è facile far finta di non sapere o di non sapere o
non voler sapere. Dovrei decidere di voler morire a Campiglia. Ma sai come
avviene per chi si sente male, almeno lo potrai immaginare, oggi decide una
cosa il giorno dopo un'altra cosa e cosi via. Se non fosse la pigrizia che mi
impedisce o almeno mi ostacola a far le valigie, sarei a quest'ora sul treno
mentre è probabile che dovrò essere preso, non dico di forza, ma dalla energia
altrui per venire, se verrò. E poi venendo costà che cosa troverei? I mali
certo non mi passerebbero e per il resto, non fosse altro che in conseguenza
dei miei disturbi, zero.
Il 21 novembre del '55 invia a Sinisgalli Ma Questo con la curiosa dedica: «
All'illustre Sig. Ing./ Leonardo
Sinisgalli / Poeta e scrittore / con viva ammirazione / Campiglia
d'Orcia 21-11-55 - Lorenzo Calog. » e gli scrive una lunga lettera in
tono un po' notarile (...« mi permetto di inviarLe, contemporaneamente alla
presente, un mio libretto di versi, cui appongo una dedica. Come vedrà dalla
mia scrittura e dal mio nome che figura già sulla carta intestata sono a Lei completamente
sconosciuto; e sebbene non più giovane — sono della classe del 1910—
né per questo o per altro La prego di trascurarmi per ciò di cui La
richiederò nella presente »). Ma così circostanziata e precisa nei riferimenti
e nelle letture da far pensare che egli ha seguito in questi anni molto bene la
storia della nostra poesia. Da questa lettera ha inizio la strana e curiosa
storia dei rapporti che porteranno Calogero alla pubblicazione di questo libro.
Gli chiede una recensione («...anche se dovesse dirne tutto il male che si può
immaginare. So che anche in tal modo ci guadagnerei. Si dovrebbe vedere sempre
se Ella ritiene opportuno far guadagnare il tal modo ad uno sconosciuto, che
pure fra gli amori più vivi della sua vita ebbe quello della poesia…»), una
prefazione a un altro volume che sta per consegnare a Maia (Come in
dittici,) e l'interessamento di farlo pubblicare presso qualche altro
editore non a pagamento.
Non smetterà più di scrivere a Sinisgalli. Invia Ma Questo anche a Enrico Vallecchi
chiedendogli, forse e scavalcando Betocchi, di pubblicargli qualcosa e altro,
da come si capisce da una risposta di Enrico Vallecchi venuta in mio possesso.
Il 27 dicembre del '55 invia a Sinisgalli il dattiloscritto di Come
in dittici e una pietosa lettera, l'ultima datata Campiglia d'Orcia in cui
tra l'altro dice: « ...Sento la necessità di sbarazzarmi al più presto,
obbligando anche la mia famiglia a qualche sacrificio dei miei libri di poesia,
poiché prevedo una prossima fine. Scusi se le dico tanto. Non è mia volontà di
affliggere nessuno, per cose per cui non mi si può dare alcun aiuto ».
Esce entro i primi giorni di gennaio del '56 Parole del Tempo. Lo invia ancora a
Bargellini e a Betocchi. Lascia Campiglia d'Orcia e rientra a Melicuccà.
Passando da Roma va a conoscere Sinisgalli a « Civiltà delle Macchine»
in via Torino 44 e gli dà Parole del Tempo. Sinisgalli (me lo dirà
egli stesso, dopo) rimane molto impressionato della sua figura. Gli promette
che gli farà la prefazione a Come in dittici. Subito dopo (27 gennaio
'56) gliela spedisce a Melicuccà.
Riporto integralmente la lettera e la prefazione proprio perché è a
Sinisgalli che si deve la « scoperta» di Calogero. Ecco la lettera: « Carissimo amico, spero
che abbia fatto un buon viaggio e che abbia trovato un po' di requie. Fui
proprio sfortunato quella mattina a causa dei miei banali impegni di lavoro.
Avrei voluto parlare a lungo, chiedere tante cose. Ho avuto sotto gli occhi per
tanti giorni in questi ultimi tempi i suoi versi e avrei desiderato sapere
qualcosa di più. Io non sono un crìtico e qualche volta sono riuscito a dire
qualcosa di me e dei miei pensieri. Non so proprio se queste poche righe
potranno soddisfare la sua fiducia. Penso almeno che costringeranno altri ad
interessarsi del suo lavoro così assiduo, così arduo. Mi scriva e mi mandi sue
notizie. Affettuosamente suo, Leonardo Sinisgalli». Ecco la prefazione: «Sono
felice di aver trascorso molte ore su queste pagine di versi; la vita non mi
concede tante soste, devo rimandare alla notte i rari incontri con i poeti.
Quest'opera è di lettura difficile; ho fatto fatica ad assuefarmi ad un
congegno espressivo un po' dissueto. La poesia ci dà oggi risultati anche
troppo espliciti.
«L'autore di questo libro ha pagato cara la sua follia: venti anni di
vita oscura, senza amici, senza, complici. E ci si rende conto, ammirando
l'estensione del suo dominio, che da tanti anni egli non poteva distrarre
neppure un momento. Un fenomeno raro nella storia delle nostre lettere, una
dedizione disperata e mostruosa. Si può capire tanto ardore avanzando delle
ipotesi, fabbricando noi un retroscena o un sottosuolo per giustificare una
carica di energia così insolita. Ma al poeta è bastata la sua natura, il suo
sentirsi vivo soltanto per esprimersi. Ha allineato gli eventi in un flusso inesauribile
di parole.
« Un'opera così serrata — migliaia e migliaia di versi — non
può essere il frutto di illuminazioni improvvise, non si giustifica come una
scommessa o un miracolo. Il poeta ha rifiutato i soccorsi delle retoriche più
fertili: l'incanto del numero, della simmetria, degli accenti, gli attriti
degli oggetti, delle occasioni, della memoria. Si è fidato soltanto delle sue
capacità espressive, di una vitalità insita nel linguaggio (la « vita
acre dei segni »), per cui l'arabesco, che è senza dubbio l'acquisto più
glorioso delle pagine più aperte, non è mai nomenclatura o contorno, ma diventa
esso stesso, più che strumento, sostanza spirituale.
«Siamo, è chiaro, di fronte ad una poesia còlta che, però, scarta il
lusso intellettuale, l'enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la
scoperta fortuita. Quando dico arabesco, voglio sottintendere una algebra,
un'ottica, una fisiologia, più che una calligrafia. Pensate all'iter Cézanne-Matisse-Klee, al Klee di
quella memorabile epigrafe: " sono inafferrabile. Sono vicino al cuore
della creazione più di quanto è possibile e tuttavia non quanto vorrei ".
Perché il poeta rischia in ogni pagina di sembrare insensato, astruso,
assurdo, rischia di non dire niente. L'operazione temeraria che egli conduce ha
proprio l'indeterminatezza di certe analisi portate sulle quantità sfuggenti,
di certe indagini al limite della catastrofe.
«M'era venuta la tentazione di presentare, a persuasione del lettore
dubitoso, qualche stralcio, qualche lacerto, e anticipare l'opera del tempo e
affrettarla al punto da isolare nella vigna i grappoli incorruttibili. Mi sono
subito accorto che non riusciva facile resecare le cellule di un tessuto sempre
in crescita. Avrei messo insieme un museo, un atlante, avrei raccolto dei fossili
o dei cristalli e sacrificata la virtù più segreta dell'opera, la sua linfa, la
sua vena. Senza questa tensione le parole non sono che cadaveri.
«Dietro le immagini c'è sicuramente un sistema, una dottrina di cui
sentiamo la suggestione. C'è un'idea dell'essere come tremore, terrore, catena
di eventi fulminei, rotti, casuali; il poeta arriva a cogliere un soffio, una
scintilla e a restituircene qualche similitudine. Questa partecipazione, questa
mediazione viene raggiunta quasi a dispetto della sua coscienza: le sue parole
distorte, i suoi nessi incredibili, i suoi lapsus sembrano trascrizione
di uno stato di estasi, egli descrive un sogno cosi minutamente, lo districa
come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un'altra vita, più
resistente della morte... Leonardo Sinisgalli ».
Sono le prime parole e i primi giudizi pubblici che Calogero riceve, da
fonte autorevole, da quando ha cominciato a scrivere versi. Sinisgalli è
convinto che Calogero è un poeta degno e lo presenta (24 febbraio '56) anche
sul «Corriere
d'Informazione » così: «...In questi giorni una grandiosa
bizzarria è venuta a gettare nuova luce sulla natura della poesia e sui
portentosi risultati delle sue irriproducibili operazioni. Il demone
dell'analogia, della similitudine tiene in soggezione un uomo da oltre venti
anni. Da venti anni quest'uomo scrive versi tutti i giorni. Ha riempito finora
tre libri, ha scritto migliaia di poesie, ne ha salvate circa cinquecento. È un
apporto massiccio alla storia delle nostre lettere. Il dottor Lorenzo Calogero
è nativo di Melicuccà in provincia di Reggio Calabria. Da qualche anno è
medico di condotta in un paesello di montagna, Campiglia d'Orcia in provincia
di Siena. Vive in una cameretta gelata al quarto piano dì una casa anonima. Ha
pubblicato a sue spese due volumi nel 1955, e un terzo volume uscirà quest'anno
in cinquecento copie presso la casa editrice Maia di Siena. Tutto il mio tempo
disponibile, le ore notturne, io le ho dedicate alla lettura di questi versi,
tra la fine di dicembre e la fine di gennaio. Non mi rammarico del tempo
perduto. Sono, anzi, felice di testimoniare per primo, di aver percorso e
scoperto per primo le meravìglie di questo nuovo continente che viene ad
allargare il dominio della poesia. I libri di Calogero, specie gli ultimi due,
dovrebbero finalmente restituire ai nostri critici — i Cecchi, i Bo, i
Vigorelli, i Pampaloni, i De Robertis, i Ravegnani, i Macrì, i Contini, i
Muscetta, i Ferrata, i Flora, i Sapegno, i Romano, i Sereni, i Falqui, i
Bocelli, gli Alicata, i Gigli, gli Anceschi, i Debenedetti — la fiducia
nei poeti.
La storia della poesia è una storia ininterrotta e un caso come questo
di un poeta sconosciuto che porta un tributo inatteso di quindicimila versi
deve essere per tutti un motivo di sommo gaudio. Di che qualità sia quest'opera
ve lo dirò subito. È un groviglio insensato. Si ha l'impressione che il poeta
restituisca nelle sue parole una realtà straordinariamente effimera, una realtà
che vive, muore e rinasce in un soffio. Riesce a dare il senso di un moto, di
un murmure, di un'animazione, di un brivido, la vita labilissima raccolta in
una traccia di parole. È un groviglio qualche volta insensato come un arbusto
che geme al vento o il lampo incerto che riusciamo a ritrovare nel brulichio
della memoria. Una poesia dentro cui l'autore sembra sepolto, un folto intrico
da cui a tratti scaturisce un richiamo irresistibile. Non resta una storia, una
figura, un oggetto, ma solo il fluire di una vena, l'incanto di una voce.
Perfino i sentimenti sono distrutti per dar luogo a questi grappoli cinerei di
fiori. «Era un bisbiglio lungo il cammino / simile a un disegno deserto / di stelle di vetro nel vento.
// (pag. 136 del dattiloscritto) Inclemente la neve sui passeri /
sboccia dai freddi marmi alle mani. // (pag. 82 del dattiloscritto) Pure
dalla nuvola alla rosa odo / la tua parola coi suoi resti e l'andare / e
il venire e il probabile fluire / incerto delle vesti. // (pag. 78 del
dattiloscritto). O forse la vita ch'io ebbi in dono è un sogno: scivola,
sanguina / sul blu nero delle rose / al batter folle / d'un tuo
ciglio... (pag. 50 del dattiloscritto)».
Calogero è felice in questo periodo, mi dirà poi il fratello. Ma gli
riprendono tutte le crisi, presto. È afflitto dalla fissazione che ha un cancro
al polmone, la tbc e che deve morire entro l'anno. Viene ricoverato in una
cllnica per malattìe nervose a Gagliano di Catanzaro. Tenta il secondo
suicidio, recidendosi le vene dei polsi. Lo salvano anche questa volta. Si
sente perseguitato. Il ricovero nella casa di cura di Gagliano («Villa Nuccia») gli fa nascere altre fobie, diffida dei fratelli e ha paura della follia o
teme che la follia possa prenderlo interamente. Scrive ciò a Sinisgalli,
pregandolo di intervenire presso i fratelli e presso la direzione della casa di
cura.
Esce, nei primi giorni di settembre del '56, Come in dittici con la prefazione di
Sinisgalli. Neanche Come in dittici riceve attenzione dalla critica. Non
ne ho trovato comunque elementi, né notizie o ritagli relativi. Vuole uscire da
Villa Nuccia. Chiede a Sinisgalli di aiutarlo. Sinisgalli scrive alla madre, ai
fratelli, al sindaco di Melicuccà. Viene dimesso. Il 9 settembre muore la madre. La disperazione è assoluta. Viene
ricoverato ancora. La madre era il suo unico conforto.
Nel '57, ancora Sinisgalli gli presenta un gruppo di poesie su «La Fiera Letteraria», scrive
lettere ai fratelli, gli consiglia di concorrere al Premio Villa San Giovanni
di cui è giudice. Anche Falqui, pure giudice del Premio Villa San Giovanni gli
scrìve di partecipare al Premio. Non ho trovato questa lettera di Falqui.
Falqui invece mi ha fornito la risposta
di Calogero (Melicuccà 26 giugno '57) strana e misteriosa :
«Gentile Signor Falqui, ho ricevuto contemporaneamente alla Sua lettera
colla quale mi consigliava di partecipare al concorso per il Premio Villa San
Giovanni un'altra di Sinisgalli che mi dava il medesimo consiglio (...). Non le
nascondo, tuttavia, che aver partecipato al Concorso mi pone in uno stato di
disagio per quel tanto, almeno di possibile notorietà che potrebbe derivare al
mio nome come poeta. Ella non sa o sa ben poco della mia vita di questi ultimi
tempi e perciò può sembrarle strano un tale senso di disagio. All'atto in cui
avevo deciso di partecipare mi sembrava che avrei potuto sopportare un tale
rischio con molta disinvoltura. Ma potrebbe darsi che non sia così. Non le dirò
certamente, di decidere Lei della decisione da me presa, ma a Lei, come amico
che mi ha dato un consiglio, non potevo non dirLe i miei sentimenti. Stabilirà
un po' Lei come e quanto essermi effettivamente utile. La ringrazio del suo gentile interessamento... ». Falqui gli riscrive (è l'unica
lettera di Falqui che ho trovato). È bella, affabile, su carta intestata « Il
Tempo » e l'aggiunta a penna, sotto la data (3 luglio '57) « Via Lovanio
1». Dice: «Gentile Calogero, oggi sono arrivate qui a Roma le copie dei libri
spedite a Villa San Giovanni. Spedisca subito qui a Roma (Via di Villa Patrizi
4) le altre tre mancanti di Parole del tempo e di Ma questo. E
per il resto della faccenda lasci che le cose vadano come meglio potranno
andare. E non disperi. Ma altresì tenga conto che vincere un concorso è pur
sempre come trionfare in un combattimento. Sono lieto che questa occasione mi
dia modo di provarle la buona accoglienza già in precedenza da me riserbata
alla sua opera. E speriamo che mi riesca di fare qualcosa di più. La terrò
informata. Tutto dovrà essere deciso fra due settimane. Intanto la saluto, con
una cordiale stretta di mano. Falqui». Vince (15 luglio '57) il Villa San
Giovanni per la sua opera completa (Ma questo..., Parole del Tempo,
Come in dittici,). La giuria del Villa San Giovanni era composta oltre
che da Sinisgalli e Falqui anche da G. Selvaggi, da G.B. Angioletti, G. Doria,
S. Solmi. La rivista «Battaglia Letteraria» di Reggio Calabria gli dedica una
ridicola stroncatura. Invece Falqui, su «Il Tempo» (19 luglio '57) e
Ferdinando Virdia su «La Voce Repubblicana» (20 luglio '57) e
su «La Fiera Letteraria» (28 luglio) ne parlano degnamente. Falqui
dice: «...tre raccolte che recano la testimonianza di una vigorosa ed ardua
tempra poetica. Egli non s'appaga del facile successo oggi conseguibile con un
po' di bravura e di furberia, ma s'impegna in una ricerca di chiarezza
attraverso l'oscurità più perigliosa dei concetti e delle sensazioni. Le sue
tre raccolte, a chi sappia leggerle — come per primo ha saputo Leonardo
Sinisgalli, e va registrato a suo onore — corrispondendo alla loro
tensione e lasciandosene quasi prendere e portare, si configurano quasi come un
unico poema: sorta di complicatissimo diario di una coscienza tra le più
dolorosamente consapevoli della propria condizione. E Calogero non dovrebbe
tardare ad ottenere quel giusto consenso di controllo e di plauso, ch'è tutto
quanto un poeta sogna di poter conquistare e godere... ».
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