Lorenzo Calogero, anzi 'il calabrese' Lorenzo Calogero (dire
che uno è calabrese non è una semplice 'indicazione di provenienza'), 'lo strano poeta di Melicuccà' (anche dire 'di Melicuccà' non è
come dire 'born in London', per quanto anche Calogero fosse nato da una 'well to do family', come recitano spesso le storie della letteratura inglese), è stato a mio modestissimo parere uno dei poeti più 'totali'
della letteratura italiana, un personaggio scomodo e indifeso, a volte forse
anche indifendibile, sul quale quasi tutta la critica ufficiale ha preferito
'sorvolare', glissare, e comodamente ignorarlo. Calogero rimane ignoto ai più, nemmeno la sua follia è valsa a fare di lui un 'must' alla Dino Campana; ciò è comprensibile, per tanti motivi, non ultimo le origini di Calogero, il suo provenire da un angolo sperduto di Calabria di inizi '900. Calogero ha conosciuto Villa Nuccia, e spero di spiegare a cosa mi riferisco segnalando che, fino a non troppi anni orsono, il nome di questo ospedale psichiatrico veniva evocato per lanciare bestemmie e maledizioni... LC non scriveva bene, sono convinto che non scrivesse come avrebbe desiderato, e che a volte lo facesse per attenuare il dolore di esistere; nei suoi versi si ripeteva spessissimo, e non vedo come avrebbe potuto evitare di farlo, come avrebbe potuto sottrarsi alla sua ossessione se non cercando di farla uscire dal suo corpo, dalle sue mani, dalla sua testa. Possono non piacere i risultati della sua scrittura, ma rimane un esempio - forse da non seguire - di aderenza fisica tra visione poetica e poeta-strumento; nell'esistenza di Calogero non c'è, pare di capire, interruzione, cesura, tra il 'murmure' che gli parla e la vita di tutti i giorni: lui si è dato una missione, si è scoperto poeta ed è rimasto fedele a questa sua condizione fino al sacrificio estremo: è stato, il suo, un suicidio protratto, uno stillicidio quotidiano in parole e visioni. E' quasi superfluo domandarsi se l'atto finale sia dovuto a suicidio o morte per così dire 'naturale'. Era un medico, magari suo malgrado, ma comunque medico, e come tale sapeva bene a cosa stesse andando incontro. Non ci vedo un disprezzo della vita, ma una ricerca spietata di quello che desiderava di più, la poesia come forma di vita, giusto o sbagliato che fosse. Sto parlando per supposizioni, forse anche per immedesimazione, magari non c'è nulla di vero in quello che dico...
La poesia di LC è espressa sotto forma di congerie, così la leggo: immagino che questa 'musa' irrinunciabile lo abbia 'abitato', si sia installata nella sua mente come un prepotente, inarrestabile 'tinnitus', come gli acufeni che fanno udire continuativamente un suono, un rumore, un ronzio, un sibilo, il suono di una sveglia, o non so cos'altro di non ricollegabile a un fenomeno acustico, a qualcosa che proviene dall'orecchio, ma che è dentro la testa, una presenza 'sonora' difficilmente evitabile, razionalizzabile, curabile. Anche questo è la maledetta poesia, quella contro la quale si può scegliere di ergere una barriera, di piantare dei pali, di levare degli scudi, di improvvisare difese quali che siano. O rassegnarsi magari a scriverla, sempre con quell'amaro in bocca, quella insoddisfazione che risiede nel divario mobile tra la totalità dell'interiore epifania della visione poetica (l'apparizione di quello che si prova) e ciò che si riesce ad esternare, a portar fuori da sé: l'escissione dal proprio sentire della parte poetica e dolente, il frutto e l'offerta. Direttamente proporzionale alla totalità del sentire deve essere la forza dei mezzi a difesa di se stessi. Credo che un accorgimento, una consequenziale decisione del genere sia mancata del tutto allo strano medico e poeta di Melicuccà. Certo avrebbe scritto cose bellissime, abbordabili, musicali, da antologie scolastiche, pezzi orecchiabili senza infamia e con qualche lode stiracchiata, se solo avesse voluto, potuto o deciso di fare così, cioè di non essere quello che veramente fu: un poeta totale, vittima del suo stesso sentire, una preda privilegiata della parola. Vittima ma anche protagonista di poesia, di personalissima vita nella poesia, che deve essergli costata una lotta titanica e di conseguenza disperata. Leggere LC senza sapere della sua vita credo sia sforzo del tutto inutile. Non leggerlo potrebbe essere invece un utile disinteresse, come dire?... non sapere può giovare.
La poesia di LC è espressa sotto forma di congerie, così la leggo: immagino che questa 'musa' irrinunciabile lo abbia 'abitato', si sia installata nella sua mente come un prepotente, inarrestabile 'tinnitus', come gli acufeni che fanno udire continuativamente un suono, un rumore, un ronzio, un sibilo, il suono di una sveglia, o non so cos'altro di non ricollegabile a un fenomeno acustico, a qualcosa che proviene dall'orecchio, ma che è dentro la testa, una presenza 'sonora' difficilmente evitabile, razionalizzabile, curabile. Anche questo è la maledetta poesia, quella contro la quale si può scegliere di ergere una barriera, di piantare dei pali, di levare degli scudi, di improvvisare difese quali che siano. O rassegnarsi magari a scriverla, sempre con quell'amaro in bocca, quella insoddisfazione che risiede nel divario mobile tra la totalità dell'interiore epifania della visione poetica (l'apparizione di quello che si prova) e ciò che si riesce ad esternare, a portar fuori da sé: l'escissione dal proprio sentire della parte poetica e dolente, il frutto e l'offerta. Direttamente proporzionale alla totalità del sentire deve essere la forza dei mezzi a difesa di se stessi. Credo che un accorgimento, una consequenziale decisione del genere sia mancata del tutto allo strano medico e poeta di Melicuccà. Certo avrebbe scritto cose bellissime, abbordabili, musicali, da antologie scolastiche, pezzi orecchiabili senza infamia e con qualche lode stiracchiata, se solo avesse voluto, potuto o deciso di fare così, cioè di non essere quello che veramente fu: un poeta totale, vittima del suo stesso sentire, una preda privilegiata della parola. Vittima ma anche protagonista di poesia, di personalissima vita nella poesia, che deve essergli costata una lotta titanica e di conseguenza disperata. Leggere LC senza sapere della sua vita credo sia sforzo del tutto inutile. Non leggerlo potrebbe essere invece un utile disinteresse, come dire?... non sapere può giovare.
Oggi mi sono capitate tra le mani, nella
stessa forma di altre carte che intendevo eliminare, i fogli a stampa con
l'opera di LC, che non ho mai veramente letto, come mio solito, ma che mi ero
procurata pur sapendo che non me ne sarei fatto nulla. Conservo quelle carte in
quanto, una estate di qualche anno fa, decisi che non era giusto tanto oblio
per l'opera di LC e quindi, con mia grande sorpresa, rinvenni, in una
biblioteca situata a queste latitudini, i due volumi dell'edizione Lerici e mi
risolsi a farne le scansioni, pagina per pagina. Io non so se ho compiuto una
operazione illegale, spero proprio di no, e spero di non farla ora, questo qualcosa
di illegale, postando la 'premessa' di R. Tedeschi al primo volume dell'opera
completa, che tale, a dire il vero, non fu, poiché la pubblicazione si
interruppe: ne rimangono, fuori commercio, i primi due volumi dalla copertina
rossa; nella biblioteca dove raramente mi reco, ristanno, impolveratissimi,
spalla a spalla con Pessoa. Sono libri molto belli, proprio come quelli di un
tempo, dalla copertina telata e monocromatica e dalle pagine spesse. Ai miei
tempi, li avrei senz'altro macchiati dell’olio col quale bagnavo il pane e lo
zucchero. Ora, invece, prima di leggerli me ne laverei le mani...
Quella che segue è la prima parte della
'Premessa'.
Arrivai
nello studio di Roberto Lerici, a via Santa Tecla, stanco e sfiduciato da molti
mesi di propositi e di proposte inutili. Non sapevo più se parlargliene. Forse
non bastano questi versi, pubblicati su una rivista, a convincerlo, pensavo.
Gli dissi di leggere, e dalle sue reazioni quasi immediate capii che, forse,
avevo trovato un editore per Calogero. Gli raccontai qualche episodio della sua
vita e della morte, il suo entusiasmo crebbe. Gli lasciai «L'Europa Letteraria» ripetendogli di leggere meglio tutto: i versi, la
presentazione di Sinisgalli, la mia nota sulla sua figura. Ripartii. Dopo due
giorni Roberto Lerici comparve a Roma, cercò me e Sinisgalli per confermarci di
voler prendere subito tutti i diritti per la pubblicazione. Partimmo, Roberto
Lerici e io, in aereo per Reggio Calabria dove i fratelli di Calogero ci
attendevano. Raccogliemmo le sue carte, i suoi quaderni, i suoi appunti: una
produzione enorme. A distanza di meno di un anno da quelle calde e intense
giornate di giugno 1961 ecco che il primo vero libro di Calogero vede la luce.
A Roberto Lerici ne va il merito maggiore non solo come editore ma anche e
soprattutto come curatore. Non è molto un anno di preparazione per un autore
come Calogero: la sua produzione enorme, il fascino lirico e umano dei suoi
versi che ci ha più volte tentato di imporlo come « caso letterario »
prima che come l'episodio di alta poesia che è, il dubbio se fornirlo di
tutto l'apparato biografico-epistolare, altamente suggestivo, di cui venivamo
in possesso o se affidarlo al solo messaggio dei versi, le molteplici
difficoltà della trascrizione, la sistemazione dei manoscritti, hanno fatto
passare molte giornate. E’ stata un po' la ripetizione delle vicende che
in Francia sorsero intorno all'analogo caso del poeta alsaziano Jean-Paul de
Dadelsen che, morto assolutamente inedito a 42 anni nel '57, dové essere considerato
e riconsiderato infinite volte, prima che, riscoperto da Albert Camus e da lui
considerato uno dei maggiori contemporanei poeti francesi, fosse accettato da
Gallimard.
Da
vivo, Calogero, implorò anche il più piccolo riconoscimento per la sua poesia,
cui aveva sacrificato tutto, anche la vita, destituendola di anno in anno
sempre più di ogni valore, di ogni dignità, di importanza. La poesia fu l'unica
aspirazione di Calogero, i riconoscimenti che essa avrebbe potuto dargli, il
massimo da chiedere alla vita. Per la poesia Calogero ha consumato tutto, il
suo fisico, il suo cuore, il suo intelletto, fino alla menomazione e alla
follia.
Certamente
la follia e la morte lo possedevano già per intero quando verso i primi giorni
del mese di novembre del 1960 si avviò a Roma alla ricerca di un ospedale e di
un ricovero o alla ricerca di una dilazione alla morte. Si presentò di buon
mattino in via del Sassoferrato 6 a chiedere aiuto al suo unico vero amico,
Sinisgalli. Aveva viaggiato, forse, tutta la notte da Reggio Calabria a Roma,
insonne e malato in uno stretto scompartimento di seconda classe per essere
all'alba a Roma e per presentarsi, subito, con la ingenuità o l'incoscienza o
la follia dei puri, a casa dell'amico Sinisgalli. Sinisgalli era già uscito, gli
dissero di raggiungerlo in ufficio, a via Tevere 50.
Verso
le ore 10 arrivò, lo conobbi. Era il 6 o 7 novembre 1960, appena qualche mese
prima della sua morte (egli certamente già lo sapeva: la sua figura fisica,
storta e macilenta, disordinata e triste, i tratti del suo volto pallido, la
sua rassegnazione, ne erano i segni). Calogero era però nei miei interessi dal
1957, messovi dalla curiosità appunto di scoprire perché Leonardo Sinisgalli,
che conoscevo sempre molto estraneo e diffidente nei confronti di tutti, gli
presentava sulla «Fiera Letteraria»
(3 marzo 1957, gli sbagliarono pure il nome, Norenzo invece che Lorenzo) un
gruppo di poesie molto entusiasticamente e in una maniera tanto criticamente
serrata, da non lasciare sospetti di occasionalità, complicità e altro. La
curiosità aumentò qualche mese dopo. Ancora Sinisgalli, giudice, con Gian
Battista Angioletti, E. Falqui, G. Doria, S. Solmi, A. Baldini, G. Selvaggi del
Premio di Poesia Villa San Giovanni, volle la sua premiazione. Calogero era uno
sconosciuto. Non aveva mai pubblicato versi sulle riviste letterarie. Nessuno
sapeva chi fosse, neanche se giovane o vecchio. I versi presentatigli da
Sinisgalli potevano far pensare tutto e niente. Come e perché Sinisgalli se ne
era tanto entusiasmato? Perché insistè tanto per volerlo vincitore del Villa
San Giovanni? Rimasi con la curiosità, legata, peraltro, più agli entusiasmi di
Sinisgalli che ai versi e al nome di Calogero di cui avrei voluto conoscere
notizie in funzione del mio interesse per Sinisgalli. Versi, presentazione e
notìzie della premiazione finirono in una cartella, privi di ogni antefatto.
Dopo qualche anno, maggiore amicizia e altro, legandomi quasi quotidianamente a
Sinisgalli, fecero tornare il discorso anche su Calogero: «sai, un poeta nel
vero senso della parola. Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della
Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce, io stesso l'ho scoperto per
caso, vedi che può capitare in questo paese, se non si è nel giro, non si
esiste... Gli ho fatto qualche articolo, gli feci una presentazione a un libro,
gli feci vincere il Villa San Giovanni, pensando che altri, i critici, lo
scoprissero. Nessuno si è accorto di niente. È malato, fuori dalla vita
organizzata. È un po' impedito, quando venne a trovarmi a " Civiltà
delle Macchine " stava cadendo per le scale... Mi scrive lettere
lunghissime, non riesco a leggerle per intero, fitte-fitte, mi cita cose
complicate, mi descrive l'amore per una donna, sempre quello, in tutte le
variazioni. È di famiglia nobile, proprietari calabresi, i fratelli avvocati e
farmacisti. E' laureato in medicina, poi a Campiglia d'Orcia in provincia di
Siena... Qui fu colto da crisi di patofobia, credè di avere un cancro, la Tbc. Si ritirò al paese di
nascita, è stato in cliniche per malattie nervose. Avrà 10-15 mila versi, ha
pubblicato tre libri fittissimi, cinque-seicento pagine ognuno, dice che ha
altri cinque quaderni pronti. Bisognerebbe fargliene pubblicare, non può
rimanere abbandonato, gli si deve qualche soddisfazione, almeno per questa
furia mostruosa che ha nel costruire versi e nel dedicarsi alla poesia, sua e
degli altri...». Con questi stimoli Calogero era entrato nei miei
interessi.
Passai
tutto il giorno con Calogero. Ore anormali, al cospetto di un uomo che
distrugge tutta la vita organizzata di un individuo, tutta la sua carica di
autoconservazione e voglia di imposizione nella vita. Una figura pallida e
disordinata, suggestionante e dispettosa, apparentemente senza storia, o
espressiva solo di storia casuale, inconsapevole, a cui tutto capita per
ineluttabilità. Figure apparentemente inutili che pure riescono a condizionare,
illuminare o deprimere tutto ciò che le tocca.
Lo
ricordo benissimo morfologicamente: piccolo, magro, storto, tra Leopardi e
Tristan Corbière. Faccia semi-glabra e lucida, occhiali tondi e antichi, occhi
vividi o spenti allo stesso tempo. L'ho osservato attentamente, seduto sulla
punta di una poltrona, bloccato, le gambe intrecciate nervosamente e contorte,
la voce nasale, allungata da un leggero accento calabrese. Parlava di tanti
guai, della sua solitudine disperata, del fallimento della sua vita, come
medico e come poeta, della sua insonnia perenne e inguaribile: decine di
Luminal, Talofen, Miltaun. Ne parlava quasi con distacco, come di accidenti
naturali: «ormai non ci penso più, posso sopportare, però questi "fatti
emorroidali " (proprio cosi
"fatti emorroidali") mi danno più fastidio di tutto. Per essi sono
venuto a Roma, voglio operarmi, sono anni che vanno e vengono, questa volta mi
hanno preso in maniera violenta». Insisteva percuotendo con il pollice e
l'indice della mano sinistra uno spigolo del portacalendario (un tic che gli
consentiva più disinvoltura, forse). Ogni tanto si richiudeva nel pesante
cappotto, coprendosi i calzoni privi di tutti i bottoni. Parlava con il suo
tono cantato, residui di saliva densa e nicotinosa gli si erano aggrumati agli
angoli della bocca, gli guardavo le mani bruciate dalle cicche e dalla
nicotina.
Telefonammo
al Policlinico. Era quasi felice di essere ricoverato. Tornammo alla pensione a
ritirare le sue cose. Aveva invaso la camera di cicche, ridotte all'estremo.
Indugiò nel riordinarsi, sembrava che dovesse piangere da un momento all'altro.
Non aveva che una borsa da scolaro di scuole medie, tirò fuori mutande e
fazzoletti sporchi. Decise che doveva comprare mutande e fazzoletti. Cominciò a
parlarmi di amore: «se fossi sposato non sarei ridotto così, una moglie non mi
avrebbe mandato in giro in questo modo ».
Cercai
di dargli coraggio, lo aiutai a sistemarsi. Insisteva sull'amore che non aveva
mai avuto. Avrebbe voluto che leggessi le sue poesie d'amore, buono,
sottomesso, gentile. Gli ricordai che bisognava andare. Insaccò tutto nella
borsa e si avviò con il suo passo malfermo. Al policlinico lo spogliarono, gli
saltarono di dosso le pulci (non posso non dirlo), lo vidi nudo, tremante,
rattrappito, colpevole. Gli sorrisi, mi guardò con occhi e sopraciglia disfatti
attraverso gli occhiali sbilenchi. Lo spinsero alla doccia, ricomparve in un
camice bianco enorme, tratteneva a stento le lacrime. Mi venne in mente
l'analogo episodio di Cardarelli in queste stesse stanze. Mi venne in mente un
brano di Francois Mauriac su Rimbaud: ''...una testa irsuta, mangiata dai
pidocchi, le ascelle verminose, la bocca marcita dall'assenzio. Quante volte
questo Rimbaud l'abbiamo incontrato,
e siamo passati sull'altro marciapiede...».
Non resisté all'ospedale, scappò via dopo appena due giorni di
ricovero. Mi scrisse dal paese scusandosi e cominciando a parlarmi della sua vita, della sua poesia, della sua
tristezza, della sua morte. Conosciutolo in queste circostanze e in queste
condizioni, letti i suoi casi, dai
volumi editi e dai quaderni inediti, provai sensazioni discordi (molte volte ho
dubitato e l'ho tradito, gli ho scoperto il decadentismo e i versi facili, le
astruserie e le allitterazioni). Meritava in ogni caso, da parte mia,
qualche soddisfazione. Gli scriviamo, Sinisgalli e io, di preparare una scelta
accurata e di spedirla a Vittorio Sereni che da qualche mese ha assunto la
direzione editoriale della Mondadori. Faccio una scelta di quaderni che mi
aveva lasciato e la passo a Giancarlo Vigorelli che accetta di pubblicarla su
«L'Europa Letteraria». Sinisgalli scrive una presentazione, aggiustandola su
quelle già fatte negli anni passati. Gli scrivo tutto ciò e gli chiedo di darmi
qualche notizia biografica da integrare a una mia nota. Mi risponde
immediatamente, ringraziandomi morbosamente e pregandomi, altrettanto
morbosamente, di stare molto attento alla scelta. Poi mi fornisce cosi le sue
notizie biografiche: «Mi domandi il mio curriculum vitae. Esso è: sono
nato il 28 maggio 1910 a Melicuccà. Mi sono iscritto alla fine del 1929
all'inizio del 1930 nella facoltà di matematica per conseguire la laurea in ingegneria,
però l'anno dopo ho cambiato facoltà e mi sono iscritto nella facoltà di
Medicina e Chirurgia, sempre a Napoli, dove mi sono laureato nel novembre
dell'anno 1937. Ho conseguito l'abilitazione nel 1938. Dopo poco tempo
dall'abilitazione ho incominciato ad esercitare la professione di medico
libero. Poi, in varie riprese, ho avuto incarichi di medico interino in
provincia di Catanzaro e due volte in provincia di Reggio Calabria fino alla
vincita di un posto di medico condotto in provincia di Siena, da dove, allo
scadere dei due mesi di prova, anche per motivi di salute, mi sono allontanato.
Avventure che io possa chiamare veramente avventure, si può dire che non ne
abbia avuto affatto. Ho avuto, al contrario, molti guai ed incidenti, ma di
questi, ove tratteggiassi un mio ritratto, come tu dici, o ponessi delle
semplici notizie, è meglio non parlare affatto». In questa stessa lettera,
aggiunge: «...Ti dirò, in ultimo, che contemporaneamente alle tue due lettere
mi sono stati restituiti da Vittorio Sereni della Mondadori due dattiloscritti
che avevo muniti di due lettere: una battuta a macchina e l'altra scritta a
mano. Sereni mi ha risposto con una lettera molto cortese e non posso dire, se
penso specialmente a uno dei dattiloscritti, che le critiche ch'egli mi muove
siano del tutto ingiustificate, anzi nella sua estrema cortesia fa qualche
appunto che non solo è fondatissimo, ma è anche di quelli che sentivo io stesso
nell'inviargli le due opere. Tuttavia conclude per un "no
possibilista"» (1).
(1) I due
dattiloscritti e copia della lettera battuta a macchina sono ora in mio
possesso. Avrebbero, dattiloscritti e lettera, scoraggiato il lettore più ben
disposto e più devoto. Il dattiloscritto «Sogno, non ricordo » contiene i versi
meno buoni di Calogero. Capisco come abbia inviato a Sereni proprio questo,
solo se ripenso alle giornate tragiche che viveva quando lo ordinò:
novembre-dicembre 1960. La lettera è di venti (20) cartelle dattiloscritte,
zeppa di tutte le sue teorizzazioni, che aveva accumulato in trenta anni, sul
concetto di poesia. Anche la lettera di Sereni è in mio possesso. Non creo
ammiccamenti se dico che essa è, almeno, la più circostanziata che Calogero
abbia ricevuto. Certamente egli ne fu, se non contento, consapevole, come
chiaramente è detto nel brano che ho riportato.
1.
segue (forse)
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