martedì 27 agosto 2013

Annarosa Macrì, prefazione a 'Andata e ritorno'.



Nel mio piccolo mi ci ritrovo, nella scrittura di Annarosa Macrì, dove 'ritrovarsi' significa perdersi o lasciarsi avvincere in un coinvolgimento interiore, anche quando il tema affrontato, come in questo caso, sembra essere superato dagli eventi, dalla frenesia degli accadimenti, dagli sconvolgimenti dovuti anche ad una tecnologia malamente diffusa che irrimediabilmente ormai va sempre più modificando la geografia, la storia e il rapporto tra uomini e mondi. Il pezzo che propongo potrà sembrare, come dicevo sopra, fuori moda o tempo, ma sento che non è così, che è solo questo sepolcreto sempre più scientificamente imbiancato a nascondere la verità, a camuffarla, a mostrarci altro da quello che siamo, tutti, calabresi e non. Che poi... anche questa condizione non è altro che uno dei tanti paradigmi dell'essere, o peggio, del sembrare. 

Su un treno da un treno.
Annarosa Macrì, prefazione al volume ‘Andata e ritorno, treni stazioni paesi della Calabria errante’, di Francesco Adornato e Carlo Desideri, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2011, pagg. 7-9.
Due viaggiatori assorti sopra il mio stesso treno. Uno ha in mano un piccolo quaderno, si perde nel paesaggio di buio e di luci che scompare e abbaglia, sminuzza appunti di viaggio, di vita, di viaggio, di vita, tum tum, tum, sulla carta timida.
I suoi occhi si perdono in mezzo a sipari di colline di orizzonti di mare - quanto è bella e quanto è vera la Calabria vista dal finestrino di una carrozza di seconda classe - la sua anima si ritrova, si dispera e si consola, tum, tum, tum, in mezzo ai giorni perduti.
L'altro ha in grembo una macchina fotografica. Sbircio rapita l'altalena intermittente che muove la sua mano e i suoi scatti. Dentro e fuori dal treno. Clic, clic, clic. Esterni di paesaggi superbi smozzicati da costruzioni interrotte di povertà e di bellezza; interni odorosi di rughe e fatica assonnata. Clic, clic, clic. Rapido, flessuoso, perentorio. Un gatto che agguanta la preda. Seguo curiosa le sue mosse. Guardo con il suo stesso sguardo, non riesco a decifrare il gioco veloce con cui cattura facce e persone, scene e panorami. È la macchina fotografica, forse, a decidere tempi e modi della creazione.
Due viaggiatori loquaci sopra il mio stesso treno.
Sono un giurista, sono un intellettuale, sono uno scrittore, mi chiamo Francesco Adornato, sono quell'ulivo, lo vedete? Uomo-ulivo, io sono, divento di sole e di pioggia mi sono cibato, piantato dentro la terra che mia madre ha lavorato e che custodisce tiepida mio padre e la mia storia.
Dove va, signor uomo-ulivo, o forse torna?
Un andare e un tornare è stata la mia vita. Andata e ritorno. E i binari in mezzo, e pure una stazione. Varcarli, i binari, voleva dire superare la stagione acerba dell'adolescenza e diventare uomo. Li ho oltrepassati, un giorno, e tutti gli altri giorni li ho passati nella nostalgia di prima. E a quel prima, adesso, cerco di tornare. Non è lì che tutti, prima o poi, torniamo?
E lei, signore, chi è lei che ruba il mondo con il suo obiettivo?
Sono un ricercatore, sono un fotografo, sono un ladro di immagini, mi chiamo Carlo Desideri. Vedo quello che voi avete davanti agli occhi e non vedete, conosco il linguaggio della luce, colgo il mistero delle cose. Sono il dio del tem-
po, l'unico in grado di bloccare gli orologi per l'eternità. E di fermare il mondo. E di moltiplicarlo in dieci, cento, un milione di immagini.
Dove va, signor dio, o forse torna?
Un andare continuo è stata la mia vita. Un ri-cercare di cose e di persone, un fuggire lontano. Alla ricerca dell'ultimo scatto, quello che vale una vita. E di ognuno, invece, ti accorgi che è il milionesimo ed è il primo.
E lei, signora viaggiatrice curiosa?
Io sono nata sopra un treno, perché un viaggio sopra un treno è il mio primo ricordo di bambina. Su un treno sono andata via. Dove? Al Nord, al Nord, dove altro se non al Nord, lontano da dove, si può andare da qui? Su un treno mi sono innamorata, su un treno sono andata incontro a mia madre morta, su un treno sono invecchiata. Su un treno luogo-non-luogo, tra una partenza e un ritorno, pausa e tempo sospeso, ho trascorso tutti i miei giorni sotterranei e sospesi, quelli da sottrarre al computo della vita e della morte, quelli che un giorno ti accorgi che erano loro, solo loro, il calendario della vita vera. Allineati in fila su un binario morto.
Tre viaggiatori insieme sopra uno stesso treno per ri-comprendere, in un viaggio che è un pellegrinaggio, un pezzetto di Calabria, di Sud, di Mondo dimenticato, cancellato dalle rotte delle lunghe percorrenze e dell'alta velocità.
È la Calabria low and slow, dimessa e dismessa, persa e dispersa tra le pieghe di una globalizzazione che l'ha tutta attraversata massificata omogeneizzata. Alla periferia di un porto di container che pare Singapore e di un ipermercato come quelli di Paris, Texas, lontano-vicino da un villaggio turistico formato-Ibiza e di un aeroporto fotocopia di Detroit, c'è ancora una Calabria così. Stazioni abbandonate rubate ai paesaggi metafisici di De Chirico, littorine surreali popolate di immigrati e pendolari, capannoni inutilizzati strappati ai quadri di Sironi, facce di uomini e di donne ritratti nei ritratti di Carlo Levi o di Ernesto Treccani. Paesaggi potenti e prepotenti, di ulivi, di mare, di sole che vi giocano dentro, di cicli superbi sopra la Sicilia sorella e dirimpettaia.
Ah, io non sapevo che la Calabria fosse così. La Calabria è così.
E ora lo sanno anche i ragazzi e le ragazze calabresi che da quando ci sono le università non se ne vanno più e se la sono ripresa, la Calabria, pendolando pendolando percorrendola in lungo e in largo - Reggio, Catanzaro, Cosenza - su e giù per i treni, per questi treni, e mescolano dialetti e ricordi, canzoni e progetti, andata e ritorno, andata e ritorno.
E ora lo sanno anche gli immigrati che dai Sud del Mondo sono arrivati anche in Calabria - il loro Nord! - e ci chiamano "cugini" e ci chiedono lavoro pendolando su e giù per i treni, per questi treni, prossima fermata le arance, no, io scendo ai pomodori, vengo dagli ulivi, devo arrivare fino alle pesche, devo, andata e ritorno, andata e ritorno, no, solo andata, ritornare mai.
E lo sanno i precari - della scuola, degli uffici, degli ospedali - precari coi capelli bianchi e le facce spiegazzate, precari per tutta la vita, su e giù per stazioni e binari, un mese di lavoro, no, una settimana, tre ore di viaggio ogni giorno, forse però mi avvicino a casa, solo due ore, da domani solo due ore e mi pare un sogno. Andata e ritorno, andata e ritorno.
Studenti, immigrati, precari. Gruppi senza voce in un interno di treno.
Un popolo silente, fatto di ombre, di dettagli, di sguardi. Gruppi senza volto in un esterno, in attesa di un treno, a una stazione.
Studenti, immigrati, precari. Avanti popolo, scendete dal treno, come nel quadro di Pellizza da Volpedo, scendete in piazza e riprendetevi la vita. Come a Rosarno, i neri, in un gennaio di aranci e di rivolta. Avanti popolo, alla riscossa. Di questo pezzo di Calabria, di Sud, di Mondo. Sarete voi, forse, a salvarlo, il mondo, e a salvare anche noi tre viaggiatori stanchi, che siamo arrivati. Eterni studenti, eterni immigrati, eterni pendolari, siamo arrivati.

sabato 24 agosto 2013

come vuoti a rendersi

come vuoti a rendersi
l'onda è stata qualcosa di meraviglioso
rimane qui
tra le cose che volevo dire
e i pensieri che non ho osato
ché troppo mi prendeva quel ritorcersi arcuato
e ho voluto guardare dentro
dove finiva il blu
e nessun altro colore importava

sono ebbro d'onda
fino al respiro
mi confonde
questo ossigeno che scava
furente tra le sponde

solide e solari le onde
non promettono nulla
è solo moto
delle anime di tutti i fondi
a rimestare sabbie fitte
a stridere tra i denti

e scaglio sassi senza vergogna
con rabbia di ragazzo
verso le onde, quelle che amo fino all'orizzonte
dove si perde in sbalzi e acque, di me, fino il respiro.

venerdì 23 agosto 2013

e ad ora ad ora

e ad ora ad ora
sai d'aria nell'aria
e posso guardare traversare sbarrare
le mani gli occhi a fondo
liquida
la terra liquida
palilalia che precede i silenzi
nulla avevo da aggiungere
ai sogni che vanno
avvitandosi a un belvedere di meraviglie
ad albe ad oriente
a tramonti oltresilvani
e niente
rimaniamo fatti di intrecci e dita
come di palme di domenica a pasqua
davanti a questa chiesa microscopica
che sa di krimisa e macalla
di origani e tetti
aguzzi ma solo d'occhi
e piani
come piogge che dilavano
e polveri, umane

ho bisogno di te,
d'aria nell'aria ti dico

oltre i paraventi e le barriere irte
di segmenti disumani
e di ferite a scaglie controvento

per aprirti sorridere
con te
di questo luogo che sai
ma di dentro
e sempre così inagevole
dove ti vivo, libera

questo voglio, portarti dentro.

(mateo, cartas entreabiertas)