venerdì 30 novembre 2012

non chiedermi




non chiedermi coordinate
dove arrivano gli occhi
dove sanno le mani
di nuvole e vele
il luogo spiegato non tocca
due volte in un punto

chiamalo cielo,
o sogno qualunque

giovedì 29 novembre 2012

il mio mare

il mio mare di bambino cominciava sempre alla stessa ora
dal bordo di una barca immobile
dove finivano i terremoti
a cuccuvedda li annunciava
quasi a scherzare tragica
finivano in risa di pantàsimi
e radici sguainate, nere del mandarino enorme
a notte di lenzuola che scuoteva il vento
nei fili e ferro che vibravano
tumidi di pioggia, i resistenti
in pali che indovinavo infissi nel costato
dei guerrieri sotterranei, i sempre presenti

il mio mare finiva dove cominciava l'incubo delle caverne
alla stessa ora che segnava il tempo
un fischio di locomotiva, come un ritardo che tutto riconduce a capo

e andavo,
a lato di rovine

mercati saraceni

Preferisco le rovine. Anche se, lo capisco, incutono timore, dove si imporrebbe rispetto. Le rovine sanno la fine e come si raggiunge. Forse da qui, l'inquietudine, dall'affermarsi della caducità delle opere dell'uomo che costruisce senza badare a scadenze. I restauri si impongono, e sono una invenzione dei posteri, e in un certo senso bisogna meritarsela, la perpetuazione artefatta di tali e tante opere.
 ...ma anche il restauro va bene!!! (anzi, se la prossima volta evito di riprendere quel fil di ferro, va anche meglio...)

rimuovere

rimuovere
in punta di scarpe
foglie

di fine stagione
il computo del tempo
non prescinde dai voli
e il saldo è sordo
è risonanza d'assenza
ché già si prefigura


a quest'ora le foglie
non trovano parole
sono pagine informi,
e schemi d'innervature, accennati

solo tali traspaiono
così giunte alla luce
le altre non hanno
che un filo di selce
un terrore di grate

mercoledì 28 novembre 2012

premi

premi
e in fondo al bavero
il pierrot sugge
un fiore di sale
        
             ride
agli occhi e deborda
un grano di follia
concentrica:
        allegria
di luci, ribalte, piste

      stinge
e da presso, il respiro
è solitudine, è compagnia

martedì 27 novembre 2012

ci rimasero gli occhi

ci rimasero gli occhi
quando smisero il pianto
e le gote seppero di abito usato
di fili a stendere, e bucati
in risa  e lacrime
da stille inestinguibili
e fiumi custoditi in fondo a un letto
forse di morte, o latte
e liquirizia dalle ripe estratta
quasi a sorte, o scorze
forse di trofei

ci rimasero gli occhi
attestati alle pendici
come un vuoto di speranze
di qua dalle salite






lunedì 26 novembre 2012

arbitrii

attarda
ché giandarono
le nuvole
come un raspare di migaglia
un cielo d'arature
a specchio di solchi
e falcetto ripiegato
in cintola
nostra signora insiste
tra pollice e indice cadenti
scelte tra dire o essere

ma il luogo
una lontanaglia di vissenze

era un distico, staccato
od occorrenze, uno statistico tra assenze.

Una delle caratteristiche salienti delle lingue è l'uso arbitrario delle stesse, da contemperarsi con la loro funzione sociale, sempre che non si voglia passare per pazzi. Davanti alle parole si può essere magnificamente soli o accompagnati.
Improvvisamente capì che i significati si erano ribellati alle sue intenzioni: non corrispondendogli più, sentiva che lo stavano trascinando altrove, benché l'aspetto esteriore del suo dire permanesse immutato.
Dentro di sè intese che la parola 'gatto' non indicava 'mammifero a quattro zampe, di differenti taglie e colori del pelo, felino...', ma qualcos'altro: al più presto avrebbe dovuto trovare il modo di ottenere nuove corrispondenze, funzionali e finalizzabili... al più presto. Intanto l'unica via d'uscita poteva essere una  pausa di riflessione, certamente raggiungibile. Oppure godersi quel deragliamento dei significati, chiamare semaforo un cane o sole un piatto, cancello un'automobile, signora una chiesa... E se poi si trova un nuovo accordo, o un altro, semplicissimo folle in grado di riordinare, recependo e demodulando quella che stava per diventare una accozzaglia di suoni assolutamente arbitrari?
Impazzire non è il male assoluto, forse è un contrattempo inaccettabile, o insormontabile, chissà... Ma una pazzia deludente a tal punto, questo no!
Tornò sui suoi passi. Decise di spiegarsi, prima di spararsi in camera da letto. (Vorrei fargli notare che forse è più logico -ma parlare di logica sarebbe come parlare di corda in casa dell'impiccato- prima spararsi* e poi spiegarsi; ma visto che i significati sono così arbitrari, me ne guarderò bene dal farlo, n.d.r.)
Ricorrendo ad uno dei significati di spiegarsi, disse:
attarda... intransitivo, ma indica qualcosa di piovigginoso sul far della sera;
ché giandarono... si suppone una voce del verbo giandare, passato remoto, crasi avverbio-verbale, ellittica del soggetto; il verbo, secondo le grammatiche in via di sistemazione, è usato in senso assoluto, e non regge neanche uno straccio di complemento;
un raspare di migaglia... dove il nostro fonde una inguardabile visione di briciole (compresenze lombardo-ispaniche con un retrogusto francofoneggiante) disperse in cielo, raspate, come la raspadura, maniera di comedere il queso dalle parti di Laudes e dintorni;
un cielo d'arature... è il risultato delle strie lasciate sulla tavola celeste dalla raccolta delle briciole che segue al pasto; verrebbe da tirar via la tovaglia e non parlarne più;
a specchio di solchi... passaggio controverso, sul quale molti critici hanno a lungo discettatto: si potrebbe dire, con il profèssor **** della **** University, che qui il nostro offre come contraltare delle arature di cielo -seu cielo d'arature- i solchi terreni che in quelli celesti si specchiano, quindi:
e falcetto ripiegato in cintola... potrebbe essere la visione di una delle signore mietitrici di umani destini, una Lachesi, Atropo, Tisifone, Aletto (a scelta), in breve e pensosa sosta...
cadenti scelte... enjambement che dovrebbe riferirsi alle vittime strette tra indice e pollice della suddetta signora;
tra dire ed essere... condizione peggiore che tradire e fare, o tradire ed essere, o forse no, e ma anche;
ma il luogo... dove piazzare questi pensieri che nascondono una lontanaglia di vissenze... una squalificata lontananza fatta di visioni ed essenze, o assenze: dipende;
ma quelli sopra erano solo due righi a se stanti, quindi simili a
un distico staccato
oppure erano solo occorrenze, un computo (statistico) di presenze per esclusione tra assenze di segni grafici (parole è un po' troppo) che parlano di se stesse... metaversi. Metaversi? Ma no...

*Un esempio di sparamento: il fatto che il prete si è sparato nella sagrestia non è punto cruento, in quanto significa semplicemente che il prete si è sgravato dei paramenti, senza allontanarsi dalla grazia del Divino.


domenica 25 novembre 2012

Un vecchio post, attinente al precedente.

   Devo  premettere che considero quello che segue qualcosa di simile a uno scherzo... ho cercato di ricordare, senza troppo verificare, quanto più possibile di certe letture e di ricavarne questa specie di gioco, nulla di più.
Ad ogni modo, se qualcuno riesce a leggere fino alla fine...
Si tratta, tutto sommato, di storia di ricordi personali, fatta in casa, sommamente arbitraria e perciò... fantastica. Se vi capitano per le mani, comunque, le 'Cronache di Bustos Domecq', leggete o rileggete quelle due paginette dal titolo 'Esse est percipi', e chissà, forse sarete d'accordo col tale che chiamò don Luigi (J.L. Borges) 'Omero del novecento', al di là di qualsiasi altra considerazione.
Ciao!
Historia unilateral de desliteratura*, chapter 1st, Don Luigi.
   ...Ora, dunque, tutto è dimenticato, Don Luì, non ci siete più, non ci sono le vostre parole, non ci sono i vostri pensieri; lo sapevate da sempre, lo avevate detto, avevate avvisato, e non siete mancato...
   Mancate solo nella meraviglia di chi vi scrive, voi così diverso da tutto ciò che avendovi circondato, con la vostra assenza, è scomparso a sua volta; ricordo di aver inseguito zaguanes (1) e di essere sboccato in patios senza fine, con rovine circolari, vado a braccio, o a mente, - non saprei-, cerco di intravedere i vostri inizi di novecento, dove iniziavano le torri, intersecandosi, in lingue e simboli che non ho conseguito d'intendere... direste algo similar (2), Don Luì?
   Non mi sento in grado di indovinare le vostre domande, le mie verifiche sono prive di sostanza, solo immagino, null'altro, esa música, lejana, la que Usted sintió, en aquella hora de llanura en la tarde (3)... qui rimane il vento, si è cristallizzato sulla foto di voi seduto con le mani appoggiate al bastone, come una silente folata che si ritorce in se stessa, annullando il proprio moto, un remolino atando vuestros dedos (4)...
   Perdonate, don Luigi, se tutto ho dovuto dimenticare, ma così intendevo, così ho creduto di capire quando dicevate che per voi la difficoltà non era scrivere un libro, ma leggerlo... forse avrei dovuto pensare al revés e al ves-re, al contrario e al suo contrario, come dite voi del cono sur... forse tenía que pensar en vuestra ceguera (5), e allora avrei potuto capire, che scrivere un libro era per voi più facile che leggerlo, anzi no, per una volta forse vi siete schermito... voi che avete letto e ordinato migliaia di volumi, quasi una storia dell'uomo... ma ora non importa, mi tarea se cumplió, si acaso hubo una (6).
***
A domanda, il paziente risponde in maniera confusa e leggermente compulsiva indicando un volume minuscolo, di cui crede di poter dare il titolo, 'libro de arena' (7) o qualcosa di simile, e un altro, ma qui il tutto si complica, dice trattarsi di artifici, artificios (8), qualcosa di simile, non si capisce se stia ricorrendo a uno stratagemma, dice di non ricordare, di non essere lui il memorioso, parla di funi, o funes (9), non si capisce, forse affiorano tendenze suicide, a domanda risponde di no, che non parla di sé, ma di un tale Martín Fierro (10), che è stato ucciso da un negro, che a sua volta era stato sconfitto da altro personaggio ignoto in una specie di sfida musicale, sembrerebbe trattarsi di una vendetta tra bande, ma l'ipotesi risulta remota, anche perchè il soggetto ha chiamato improvvisamente a testimonio un certo signor Dahlmann, Dalmàn, come egli dice, parente di un tal Flores (11) non meglio identificato, sembra si tratti di un personaggio altolocato, di più non è dato capire...
***
   La ricerca di familiari è riuscita infruttuosa, sembra che nessuno, nelle cliniche contattate, abbia domandato di persone scomparse le cui caratteristiche potrebbero aiutare nell'identificazione del soggetto.
   De cada manera, el sujeto mismo se detiene constantemente en la biblioteca del instituto (12).
***
   Guarda i volumi con insistenza, infine sembra eleggerne uno, vecchissimo, copertina marrone, pagine assalite da giallore e umidità, in brossura, e quasi senza guardare lo apre e comincia a parlare...
   Così:
...ecco, dov'ero finito, ultimo capitolo, 'Sur'. Ci sono tutti, aspettavano, Dahlmann, Flores, la carrozza di piazza, gli infermieri, i medici che mi hanno curato, il bigliettaio, il treno fermo nella pianura trascorrente, la stazione spiazzata, il ferroviere che mi indicò la locanda, los mozos maldidos, le palline di mollica che mi tirarono, il duello, il vecchio rannicchiato, la daga lanciatami in disperato soccorso, el cuchillo, mia estrema condanna, y mi muerte, don Luís, yo muerto, tutto il vento del sud premendomi al suolo, e voi,... che avete fatto del mio ritorno una morte di cui vi sono grato, la mia vita non avendo, così composta, altro fine, Usted comprende...
   Anche Recabarren e Savastano (13) capivano tutto, e non parlavano, neanche una parola, anzi no, Savastano le confidò cose che nessuno avrebbe creduto, non c'erano prove sostenibili, già, perchè in questo breve, contenuto delirio, in questa totale assenza di ricordo, sporgono queste poche note, che hanno avuto il loro effetto, quasi un segno; la fine, il sud, la percezione dell'essere.
Tutto qui, don Luigi, quello che riesco a trattenere dei vostri insegnamenti e che ho sognato in questa mia degenza.
-Ma chi ha inventato tutto questo?
-Non si sa.
-Allora nel mondo non succede niente?
-Ben poco.
-Quello che non capisco è la sua paura. Che vuol farci?
-E se si rompe l'illusione?
-Ma no che non si rompe,- mi tranquillizzò.
-Quanto a me, sarò una tomba,- promisi.
-Dica quello che vuole, tanto non le crederebbero.
Squillò il telefono. Il presidente portò il ricevitore all'orecchio e con la mano libera m'indicò la porta.**
Ora esco, dall'incubo, il treno è quello al penultimo binario, falta media hora, voy a poner la valija en la red, acaso leeré las Mil y una noche, tendré que bajar en la nueva estación del sur, y después irme al almacén, comer, allí estarán unos muchachones borrachos, me echarán bolitas de miga, y habrá tal vez un duelo, el último, sin palabras...***
Oppure no, il vecchio, rannicchiato, nasconde la daga, Recabarren, sorpreso, la raccoglie e la fa scivolare sul retro, verso la finestrella che dà sulla prateria, da dove un giorno aveva visto crescere un piccolo punto fino a diventare un uomo che smontava da cavallo.

Mistificazioni da J.L. Borges, 'El fin', 'El Sur' (da 'Artificios'), 'Esse est percipi' *(da 'Crónicas de Bustos Domecq').

*Desliteratura, composto di deslizar, scivolare, e literatura, quindi mistificazione letteraria, più o meno.
Le traduzioni che seguono sono assolutamente personali, cioè a me più convenienti, ma non si distaccano troppo dal vero, come quelle precedenti;
1-corridoi, androni;
2-qualcosa di simile;
3-quella musica, lontana, che voi sentiste in quell'ora della pianura, di sera...mistificazione da 'El fin':...hay una hora de la tarde en que la llanura está por decir algo; nunca lo dice o tal vez lo dice infinitamente y no lo entendemos, o lo entendemos pero es intraducible como una música...;
4-un vortice che lega le vostre dita;
5-dovevo pensare alla vostra cecità;
6-il mio compito è concluso, se mai ci fu;
7-Il libro di sabbia;
8-Artifizi;
9-Funes il memorioso;
10-Martín Fierro, si può definire figura mitologica?
11-Dahlmann e Flores, personaggi di 'El Sur';
12-Ad ogni modo, il soggetto medesimo si trattiene costantemente nella biblioteca dell'Istituto...se sto parlando di chi dico io, la biblioteca la dirigeva, anzi, lo dirigeva...
13-Recabarren, personaggio di 'El fin', Savastano di 'Esse est percipi';
**Frasi tratte da 'Esse est percipi';
***Qui, la mistificazione è fatta su 'El Sur'.

18 maggio 2010

venerdì 23 novembre 2012

quadernetto di traduzioni, 2: Esse est percipi.

   A dimostrazione della verosimiglianza delle considerazioni esposte in un post precedente, ecco questo 'Esse est percipi', della coppia Borges-Bioy Casares, del 1967, e facente parte delle 'Crónicas de Bustos Domecq'. E' una traduzione estremamente... difficile, nel senso che bisogna sforzarsi per non riportarla pari pari dallo spagnolo, che definirei classicissimo, della formidabile coppia Jorge Luis/Adolfo, all'italiano. Infatti, in questo caso, più che tradotto, il pezzo è stato ricopiato in italiano.
   Il titolo, 'Esse est percipi', è già di per sé perfetto: 'essere è essere percepiti', con il richiamo fin troppo evidente alla filosofia di George Berkeley, delle cui tesi la frase-titolo è la formula riassuntiva.
   La rilettura di questo racconto, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua apparizione, è illuminante, e un po' inquietante, anche se meno di quanto lo fu, per Bustos Domecq, il 'disvelamento' di quello che era in fondo il motivo della sparizione dello stadio monumentale del River.
   E' una lettura in apparenza semplice, anche grazie alla elegante ironia dei due coautori. 
   In realtà, l'amarezza non è aliena all'assunto, dal momento che vengono prima a giustapporsi due visioni della realtà, l'una, quella di Savastano, proiettata già verso la 'propaganda globale', l'altra visione, quella di B. Domecq, trattenuta e guidata dallo scorrere 'ordinario' del tempo. Si potrebbe parlare, anche, di un incombente 'nuovo che avanza', già allora! 
   Di queste due visioni, la prima è costantemente all'attacco, l'altra è costretta perennemente in difesa. Sarebbe interessante allegare a queste visioni delle categorie di persone, o -se si volesse- dello spirito, ma il 'gioco', così impostato, porterebbe forse troppo lontano. 
   Torniamo alle due visioni della realtà di cui parlavo poco fa: delle due, la seconda è destinata, se non a soccombere, a vivere nell'ombra (la maggioranza silenziosa spaparanzata sulla poltrona?), l'altra, la prima, ha un continuo, inesauribile bisogno di visibilità (ad esempio: 'è la stampa, bellezza!'), e non può fermarsi, ristare o sostare: si pensi solo alla moltiplicazione esponenziale di offerte e richieste a mezzo web, televisione, stampa, telefono, social networks...Parlare di Orwell, di 'grande fratello', è quasi superfluo: trascurarne i metodi e la presenza, invece, credo sia pericoloso, per tutti, anche per coloro che credono di dominare o controllare i mezzi di persuasione (sto parlando di 'convitati di pietra'?)... Altrettanto pericoloso è tralasciare una semplice nozione che ci deriva dalla notte dei tempi - o almeno dai greci in qua: la tragedia, in fin dei conti, non è che il convergere di interessi contrastanti verso un punto di 'incontro'.
   Quelle due visioni del mondo di cui prima parlavo, anche questo potrebbero essere o diventare: un convergere di volontà opposte verso un punto di rottura... tragico! ('E se si rompe l'illusione?')
   Scherzavo!
  Divagazioni a parte, gli autori affrontano, con una operazione semplice, precisa quanto intelligente, un tema tra i più sentiti e dibattuti di fine anni sessanta del '900: la massa, con tutte le implicazioni che il suo studio poteva comportare, in anni segnati dalle lotte, -Vietnam, sessantotto, decolonializzazione...,- ma anche da conquiste sociali e crescita culturale.
   Borges e Bioy Casares hanno capito e lasciato detto; a noi tocca capire e ridire, riconoscendo le loro intuizioni. Aggiungo solo, visto che anch'io nella notte dei tempi mi appassionavo al 'gioco più bello del mondo', che episodi simili a quelli di questo racconto, si sono avverati, anche solo per riparare agli abbagli di cronisti troppo presi dalla passione, come avvenne con un cambio di punteggio grazie ad una rete mai realizzata in un incontro del mondiale messicano del '70. Va da sé che lo stesso radiocronista, a fine partita, riportò 'indietro le lancette' comunicando il risultato esatto della gara. A meno che...non so, avevamo vinto veramente? Mah! Non c'ero, non ho visto, non c'erano immagini, e neanche reti fantasma, ché sì, anche quelle, per essere devono essere viste... Devo guardare sull'almanacco di quegli anni, se non mente, se non è di parte, se non lo ha stilato un qualche 'Arturo'...
ESSE EST PERCIPI


Vecchio frequentatore delle parti di Nuñez e dintorni, non mancai di notare che mancava dal suo posto di sempre il monumentale stadio del River. Costernato, consultai al riguardo il mio amico dottor Gervasio Montenegro, membro effettivo dell’Accademia Argentina delle Lettere. In lui trovai quella spinta capace di indirizzarmi. A quei tempi la sua penna compilava una sorta di Storia panoramica del giornalismo nazionale, opera altamente meritevole, nella quale si affannava la sua segretaria. La relativa documentazione lo aveva casualmente condotto a subodorare il busillis. Poco prima di addormentarsi completamente, mi mandò da un comune amico, Tulio Savastano, presidente del club Abasto Juniors, alla cui sede, situata nel Palazzo Amianto, di avenida Corrientes e Pasteur, mi recai. Il dirigente, nonostante il regime di doppia dieta a cui lo sottoponeva il suo medico e vicino dottor Narbondo, si mostrava ancora agile e scattante. Alquanto inorgoglito per l’ultimo trionfo della sua squadra contro la compagine canarina, si lasciò andare a confidarmi, tra un mate e l’altro, ghiotti particolari inerenti alla questione sul tappeto. Benché io mi ripetessi che Savastano era stato un tempo il mio compagno di ragazzate di Agüero angolo Humahuaca, l’importanza del suo incarico mi intimoriva e, per allentare la tensione, mi congratulai per lo svolgimento dell’azione dell’ultimo goal che, nonostante l’intervento di Zarlenga e Parodi, il centrocampista Renovales aveva realizzato, grazie allo storico passaggio di Musante. Sensibile alla mia adesione all’undici di Abasto, il grand'uomo diede un ultimo tiro alla cannuccia esaurita del mate, dicendo filosoficamente, come chi sogna ad alta voce:
-E pensare che sono stato io ad inventare questi nomi.
- Vale a dire? – domandai gemendo – Musante non si chiama Musante? Renovales non è Renovales? Limardo non è il vero nome dell’idolo acclamato dalla tifoseria?

La risposta mi fiaccò nelle membra.
- Come? Lei crede ancora nella tifoseria e negli idoli? Ma dove ha vissuto, don Domecq?
- In quella entrò un fattorino che sembrava un pompiere e mormorò che Ferrabás voleva parlare con lui.
- Ferrabás, il cronista dalla voce pastosa? – esclamai- L’animatore dei cordiali  dopopranzo delle 13 e 15 del sapone Profumo? Questi miei occhi lo vedranno così com’è? Davvero si chiama Ferrabás?
- Che aspetti! - ordinò il signor Savastano.
- Che aspetti? Non sarebbe più prudente che io mi sacrifichi e me ne vada? – aggiunsi con sincera abnegazione.
Neanche per idea – rispose Savastano-. Arturo, dica a Ferrabás che entri. Fa nulla…
Ferrabás entrò con naturalezza. Stavo per cedergli la mia poltrona, ma Arturo, il pompiere, mi dissuase con una di quelle occhiatine che sono come uno sbuffo di aria polare. La voce presidenziale sentenziò:
- Ferrabás, ho già parlato con De Filipo e Camargo. Nella prossima giornata l’Abasto perde, per due a uno. Il gioco sarà duro, ma non ricada, se lo ricordi bene, nel passaggio di Musante a Renovales, che la gente conosce a memoria. Io esigo immaginazione, immaginazione. Capito? Può andare
- Raccolsi le forze per azzardare la domanda:
- Devo dedurre che il risultato è scritto a tavolino?
Savastano, letteralmente, mi gettò nella polvere.
- Non c’è risultato, né formazioni, né partite. Gli stadi sono già demolendi che cadono a pezzi. Oggi tutto passa per la televisione e la radio. La falsa eccitazione dei commentatori, non le è mai venuto il sospetto che fosse tutto un imbroglio? L’ultima partita di calcio si è giocata qui nella capitale il 24 giugno del ’37. Da quel preciso momento, il calcio, proprio come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, a carico di un solo uomo in una cabina o di attori in maglietta davanti ad un cameraman.

- Signore, ma chi ha inventato tutto ciò? Riuscii a domandare.
- Nessuno lo sa. Tanto varrebbe cercare di scoprire a chi è venuta per primo l’idea della inaugurazione delle scuole o delle visite fastose di teste coronate. Sono cose che non esistono fuori degli studi di registrazione e delle redazioni. Si convinca, Domecq, la propaganda di massa è il marchio dei tempi moderni.

- E la conquista dello spazio? – gemetti.
- E’ un programma straniero, una coproduzione russo-americana. Un lodevole passo avanti, non neghiamocelo, dello spettacolo scientificista.

- Presidente, lei mi mette paura – farfugliai, senza rispettare la via gerarchica-. Quindi al mondo… non succede nulla?
- Ben poco, rispose con la sua flemma inglese-. Ciò che non afferro è la sua paura. Il genere umano se ne sta in casa, spaparanzato, attento allo schermo o al commentatore, se non alla stampa scandalistica. Cosa vuole di più, Domecq? E’ il cammino gigantesco dei secoli, il ritmo del progresso che si impone.
- E se si rompe l’illusione?- dissi con un filo di voce.
- Ma cosa deve rompersi…- mi tranquillizzò.
- E se anche fosse, sarei una tomba – gli promisi-. Lo giuro per la mia passione personale, per la mia lealtà alla squadra, per lei, per Limardo, per Renovales.
- Dica quello che le pare, nessuno le crederebbe.

Squillò il telefono. Il presidente portò la cornetta all’orecchio, e con la mano libera mi indicò l’uscita… 


"Viejo turista de la zona de Nuñez y aledaños, no dejé de notar que venía faltando en su lugar de siempre el monumental estadio de River. Consternado, consulté al respecto al amigo y doctor Gervasio Montenegro, miembro de número de la Academia Argentina de Letras. En él hallé el motor que me puso sobre la pista. Su pluma compilaba por aquel entonces una a modo de Historia panorámica del periodismo nacional, obra llena de méritos, en la que se afanaba su secretaria. Las documentaciones de práctica lo habían llevado casualmente a husmear el busilis. Poco antes de adormecerse del todo, me remitió a un amigo común, Tulio Savastano, presidente del club Abasto Juniors, de cuya sede, sita en el Edificio Amianto, de avenida Corrientes y Pasteur, me di traslado. Este directivo, pese al régimen doble dieta a que lo tiene sometido su médico y vecino doctor Narbondo, mostrábase aún movedizo y ágil. Un tanto enfarolado por el último triunfo de su equipo sobre el combinado canario, se despachó a sus anchas y me confió, mate va, mate viene, pormenores de bulto que aludían a la cuestión sobre el tapete. Aunque yo me repitiese que Savastano había sido otrora el compinche de mis mocedades de Agüero esquina Humahuaca, la majestad del cargo me imponía y, cosa de romper la tirantez, congratulélo sobre la tramitación del último goal que, a despecho de la intervención de Zarlenga y Parodi, conviertiera el centro-half Renovales, tras aquel pase histórico de Musante. Sensible a mi adhesión al once de Abasto, el prohombre dio una chupada postrimera a la bombilla exhausta, diciendo filosóficamente, como aquel que sueña en voz alta:
-Y pensar que fui yo el que les inventé esos nombres.
-¿Alias?- pregunté, gemebundo- ¿Musante no se llama Musante? ¿Renovales no es Renovales? ¿Limardo no es el genuino patronímico del ídolo que aclama la afición?
La respuesta me aflojó todos los miembros.

-¿Cómo? ¿Usted cree todavía en la afición y en los ídolos? ¿Dónde ha vivido, don Domecq?

En eso entró un ordenanza que parecía un bombero y musitó que Ferrabás quería hablarle al señor.
-¿Ferrabás, el locutor de la voz pastosa? -exclamé- ¿El animador de la sobremesa cordial de las 13 y 15 y del jabón Profumo? ¿Estos, mis ojos, le verán tal cual es? ¿De verás que se llama Ferrabás?
-Que espere - ordenó el señor Savastano.

-¿Que espere? ¿No será más prudente que yo me sacrifique y me retire? -aduje con sincera abnegación.


-Ni se le ocurra -contestó Savastano-. Arturo, dígale a Ferrabás que pase. Tanto da…
Ferrabás hizo con naturalidad su entrada. Yo iba a ofrecerle mi butaca, pero Arturo, el bombero, me disuadió con una de esas miraditas que son como una masa de aire polar. La voz presidencial dictaminó:
-Ferrabás, ya hablé con De Filipo y con Camargo. En la fecha próxima pierde Abasto, por dos a uno. Hay juego recio, pero no vaya a recaer, acuérdese bien, en el pase de Musante a Renovales, que la gente sabe de memoria. Yo quiero imaginación, imaginación. ¿Comprendido? Ya puede retirarse.

Junté fuerzas para aventurar la pregunta:
-¿Debo deducir que el score se digita?
Savastano, literalmente, me revolcó en el polvo.

-No hay score ni cuadros ni partidos. Los estadios ya son demoliciones que se caen a pedazos. Hoy todo pasa en la televisión y en la radio. La falsa excitación de los locutores, ¿nunca lo llevó a maliciar que todo es patraña? El último partido de fútbol se jugó en esta capital el día 24 de junio del 37. Desde aquel preciso momento, el fútbol, al igual que la vasta gama de los deportes, es un género dramático, a cargo de un solo hombre en una cabina o de actores con camiseta ante el cameraman.

-Señor, ¿quién inventó las cosas? -atiné a preguntar.


-Nadie lo sabe. Tanto valdría pesquisar a quién se le ocurrieron primero las inauguraciones de escuelas y las visitas fastuosas de testas coronadas. Son cosas que no existen fuera de los estudios de grabación y de las redacciones. Convénzase, Domecq, la publicidad masiva es la contramarca de los tiempos modernos.
-¿Y la conquista del espacio? -gemí.

-Es un programa foráneo, una coproducción yanqui-soviética. Un laudable adelanto, no lo neguemos, del espectáculo cientifista.


-Presidente, usted me mete miedo -mascullé, sin respetar la vía jerárquica-. ¿Entonces en el mundo no pasa nada?
-Muy poco -contestó con su flema inglesa-. Lo que yo no capto es su miedo. El género humano está en casa, repatingado, atento a la pantalla o al locutor, cuando no a la prensa amarilla. ¿Qué mas quiere, Domecq? Es la marcha gigante de los siglos, el ritmo del progreso que se impone.
-¿Y si se rompe la ilusión? -dije con un hilo de voz.
-Qué se va a romper -me tarnquilizó. -Por si acaso, seré una tumba -le prometí-. Lo juro por mi adhesión personal, por mi lealtad al equipo, por usted, por Limardo, por Renovales.

-Diga lo que se le dé la gana, nadie le va a creer.


Sonó el teléfono. El presidente portó el tubo al oído y aprovechó la mano libre para indicarme la puerta de salida."



non urla



Non urla, s’insedia
La notte
già sotto il mento un vuoto
Come di pensieri
O forse
Solo un indice
Parallelo al labbro, cerca indizi

I giorni sono sogno
A quest’altezza
Color notte
E come saranno
I mari, le grotte, gli anfratti
In quest’ora ritratta
Che le paure sono solo di oscurità, o luci, forzate

Da qualche parte
Come in fine di stagione
Le orme che ho impresso accolgono nuova linfa
dalla sabbia, assurda
O forse un vento di sereno le cancella
E senza sosta, si fa nenia
Quasi un silenzio che flagella appena.

mercoledì 21 novembre 2012

Qualche considerazione.

   Ho avuto l'ardire, nel post precedente a questo, di cimentarmi nella traduzione di un racconto di Julio Cortázar. Dico 'ardire' in quanto dovrei smetterla, forse, di nascondermi dietro il dilettantismo o il puro diletto e cominciare -o riprendere- a studiare e capire fino in fondo, e non solo la parte che mi interessa, che mi giova, o mi reca -appunto- diletto. Devo crescere? Chissà... Devo affermare quel che penso, fintanto che ne ho la possibilità? Questo, forse sì. Oppure lasciar perdere, e tenermi tutto per me... Ma in questo caso dovrei imparare a trattenere quegli 'sbocchi' di parole che si affollano, in maniera assolutamente incontrollata, quando mi si offre la possibilità di 'dire veramente' a proposito di argomenti che mi hanno interessato o che mi interessano. Per ora continuo a parlare da profano, da osservatore, o da viaggiatore 'non controllato'.
***
   La scrittura di Julio Cortázar, scrittore che ho sommamente ammirato tra tutti quelli in cui ho avuto modo di imbattermi, mi ha sempre sorpreso, in tutti i sensi, vuoi per le trame, quasi sempre 'chiuse' -a volte solo apparentemente chiuse- da finali assolutamente sorprendenti, inusuali se non inusitati, e per il linguaggio utilizzato, che trovo straordinariamente affine a quello italiano. Solo in Jorge Luis Borges, 'l'Omero del novecento' ho trovato una struttura lessicale e sintattica paragonabile a quella di J. C.
   Ne consegue che per un lettore italiano è altamente possibile, soprattutto per chi non sia assolutamente a digiuno di conoscenza della lingua latina e dei meccanismi di formazione delle parole nei vari idiomi -dialetti compresi- che da quella derivano, leggere 'in lingua' le opere dei due autori che ho citato. Altri due autori che potrei citare, e indicare a dimostrazione di quanto dico, sono l'uruguaiano Mario Benedetti, nonché Gabriel García Márquez.
   Certo, le affinità tra l'italiano e lo spagnolo (di Castiglia), aiutano molto e sono sotto gli occhi di tutti, ma anche e proprio per questo, le differenze, i 'false friends', sono più perfidi e forieri di cantonate clamorose. Per non parlare delle pronunce da brivido formidabilmente rese dai commentatori sportivi che, bontà loro, riescono a superare qualsiasi problema di interpretazione 'fonetica', situandosi già oltre una conoscenza 'scolastica' ma accettabile, e già immersi nella pronuncia quasi gergale di nomi e cognomi ispanici di calciatori o di altri fenomeni connessi al calcio. Fa niente, anche se una informazione sbagliata, da qualsiasi parte provenga, è sempre e comunque qualcosa di negativo, anche nel mondo dello sport o della televisione.
   E' opinione diffusa, soprattutto tra i vacanzieri italiani, che per comprendere lo spagnolo basti aggiungere qualche esse in fine di parola e magari assumere una cadenza leggermente veneta. Ma non è con il ricorso a questi stratagemmi o accorgimenti che si può veramente comunicare e capirsi, ovvero trasmettere e recepire significati: al più ci si può spiegare o intendere; in questo caso, nel tentativo di dialogare pur non conoscendo la lingua, non si fa altro che ricorrere a qualcosa di succedaneo ad essa, ad un surrogato che non è neppure il linguaggio dei segni, ma l'utilizzo dei gesti, operazione di cui molti italiani si ritengono i migliori interpreti.
   Che significa: non sono gli utenti ad essere i proprietari, per così dire, di un codice linguistico, ma al contrario essi appartengono ad una lingua in quanto codice, ovvero i parlanti risultano essere dei decodificatori, non dei creatori di codici. Del resto la glossolalia di cui si parla già dal tempo della Babele delle lingue non sarebbe quel qualcosa di irraggiungibile che non sarà mai, in terra, ovvero il dono divino di trovarsi in un luogo quale che sia, e parlarne la lingua dell'uso. Chissà se mi spiego... o se il codice al quale appartengo mi si sta negando!
   Personalmente, mi capita di pensare di aver interpretato, magari senza grossi errori, pagine e pagine di letteratura, neanche di quelle più semplici, mentre all'improvviso mi trovo a considerare che mi sfugge il termine equivalente per indicare, che so, la forchetta o un altro oggetto d'uso quotidiano. In effetti, in quel momento, sto traducendo ciò che mi interessa, e questo esercita su di me un influsso che mi porta ad interpretare, a vedere dei termini che si materializzano dall'una all'altra lingua, in un processo di traduzione, appunto, che è portare qualcosa da qualcuno ad un altro: tradere ab aliquo ad aliquem, che poi sarebbe la 'zeppa' su cui poggia la tesi secondo la quale tradurre è in un certo senso 'tradire' (tradere). Tradere e trans-ducere sono due operazioni differenti: la prima deriva -oserei dire- dal 'sottrarre per consegnare', la seconda deriva dal 'prendere per offrire', quindi asportazione nel primo caso, riconsegna ed omaggio nel secondo. Per cui: bando alle piacevolezze delle assonanze lessicali e alla voglia di sorprendere con trovate che non hanno nulla di geniale.
   Tornando alla letteratura sudamericana, che in questi giorni celebra il cinquantesimo del suo 'boom', con ampio risalto sulle pagine dei giornali di lingua spagnola, si potrebbe interpretare questa sua esplosione come una transizione di una certa parte di umanità dall'infanzia ad una fase più adulta, attraverso quel realismo magico e quella interpretazione del 'fantastico'  che tanto doveva sorprendere la stanca, compassata società europea e nordamericana, la cui civiltà letteraria era comunque detentrice di una posizione di privilegio ormai ingiustificata. O forse dovrei posizione di privilegio ingiusta, più che ingiustificata, dal momento che essa derivava dall'essere gli scrittori sudamericani i rappresentanti dei 'conquistati' e dei discendenti dei 'conquistatori' ormai 'americani' gli uni e gli altri a tutti gli effetti, e contrapposti, in qualche modo, ai rappresentanti della cultura dominante, europea e nordamericana.
   Credo di poter dire, forse sunteggiando eccessivamente, che per la seconda volta, nella storia dell'America Latina, un movimento culturale autoctono supera le barriere della colonia e si afferma oltre l'Atlantico; l'altro fenomeno, ad inizi di novecento, era stato il movimento poetico conosciuto come 'Modernismo', frutto dell'opera del poeta nicaraguense Rubén Darío. Ma in quel caso l'affermazione era dovuta se non esclusivamente almeno in massima parte alla risonanza planetaria di Darío. L'opera di García Marquez, invece, si inserisce in un panorama letterario e politico mondiale notevolmente mutato, e con una forza e una novità di stili e temi dirompenti. Un mondo nuovo si affaccia sulla scena planetaria, rivendicando non solo dignità letteraria, ma umana per il 'Cono Sud'.
   Voglio aggiungegere che gli autori che ho citato fin qui hanno tutti più o meno, e spesso per motivi politici, vissuto in Europa e questo si 'legge' chiaramente dai loro testi, nel senso che essi differiscono da quelli elaborati da scrittori più legati alle proprie origini, o che hanno operato quasi esclusivamente nei paesi dei loro natali. Non per questo, però, ne risultano sminuiti: penso, ad esempio, ad Alejo Carpentier di 'Ecue-Yamba-O'.
   Il panorama letterario e le possibilità di fruizione concesse ai lettori di tutto il mondo sono fortemente cambiati negli ultimi anni: ancora all'epoca della pubblicazione di 'Cent'anni di solitudine' non era facile, per il lettore comune, accedere ai testi di autori sudamericani, per non parlare di quelli africani od asiatici; e devo dire che ancora negli anni ottanta solo la testardaggine mi ha consentito di acquisire molti di quei libri che oggi sfoglio, ingialliti dal tempo; del resto, fino agli anni novanta, non mi pare di ricordare altre opere storico-letterarie, in italiano, oltre a quella del benemerito professor Giuseppe Bellini, un pioniere per quanto riguarda la diffusione in Italia della letteratura ispano-americana. Del resto, a scanso di ossimori, nel provincialistico panorama europeo del tempo, anche la letteratura spagnola del novecento era alquanto 'negletta', escludendoParigi, tant'è che in Italia, almeno relativamente alla poesia, oltre ad Oreste Macrì, Francesco Tentori Montalto e pochi altri, da comune e profano lettore non saprei chi indicare.
   Allo stato attuale, invece, a sapersi destreggiare, bastano pochi clic del mouse perché si materializzino testi di autori di qualsiasi angolo del mondo.Questo lo dobbiamo ad Internet, ovvio, ma non solo: nella corografia dei paesi occidentali qualcosa è profondamente cambiato (vedi Francia, Gran Bretagna), o sta cambiando (Italia, Spagna, Grecia), e la presenza di tanti stranieri, tra i quali molti in possesso di titoli di studio 'equipollenti' a quelli degli 'indigeni' dei vari paesi ospitanti, non può che far bene al dialogo, alla conoscenza reciproca. Giocoforza, la nostra storia diventerà anche la loro storia, e la loro storia -attualmente forse troppo ingabbiata in tante personali microstorie di dolore- anche la nostra: questione di tempo e di preminenze culturali e sociali, o anche, se vogliamo, questione di censi e censimenti.
   Riassumendo: difendiamo, tutti, la storia, quale che sia l'appartenenza, la provenienza, il colore della pelle e, pur non prescindendo dal da dove veniamo, facciamo in modo che la destinazione, il dove andiamo, sia un unico fine comune, per tutti.
   Ero partito parlando di Cortázar, e mi ritrovo a parlare di integrazione tra popoli...mah!

martedì 20 novembre 2012

Quadernetto di traduzioni, 1.

La traduzione è mia, per quel che ricordo di spagnolo. Essendomi imposto di non usare il vocabolario, di sicuro ci saranno errori grossolani, ma mi necessitava esercitare la memoria con qualcosa di stimolante. La scrittura di J. C. è di un castigliano 'classico', sintattticamente e lessicalmente molto simile all'italiano. La prossima volta, se capiterà, cercherò di fare una traduzione seria, questa era inficiata dalla voglia di arrivare fino alla fine al più presto.
  
Axolotl. (il termine è di origine azteca, come è più che evidente: per facilitare la lettura si può pronunziare 'axoloti'). 
 
C'è stato un tempo in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli all'acquario del Jardín des Plantes e rimanevo per ore a fissarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl.
Fu il caso a condurmi fino a loro, una mattina di primavera che Parigi faceva la sua ruota di pavone dopo il lungo inverno. Scesi per Boulevard de Port Royal, imboccai St. Marcel e L'Hopital, vidi verdeggiare tra tanto grigiore e mi ricordai dei leoni. Ero amico di leoni e pantere, ma non ero mai entrato nell'umido e scuro edificio dell'acquario. Lasciai la mia bicicletta contro la recinzione e andai a guardare i tulipani. I leoni erano abruttiti e tristi e la mia pantera dormiva. Decisi per l'acquario, evitai pesci comuni fino a quando mi imbattei insperatamente negli axolotl. Rimasi per un'ora a guardarli, poi uscìi come inebetito.
Nella biblioteca
Saint-Geneviève consultai un dizionario e seppi che gli axolotl sono forme larvali, provviste di branchie, di una specie di batraci del genere amblistoma. Che fossero messicani lo sapevo già da quello che erano, per le loro faccine rosate azteche e per cartello applicato sopra la vasca. Lessi che si erano trovati esemplari in Africa capaci di vivere nella terra durante i periodo di siccità, e che riprendono la loro vita  in acqua all'arrivo della stagione delle piogge. Trovai il loro nome in spagnolo, ajolote, con la nota che sono commestibili e che il loro olio si usasse (si direbbe che non si usi più) come quello di fegato di merluzzo.
Non volli consultare opere specialistiche, ma  tornai il giorno seguente al Jardìn des Plantes. Cominciai ad andarci tutte le mattine, a volte mattina e sera. Il custode degli acquari sorrideva perplesso ritirando il biglietto d'ingresso. Mi appoggiavo alla barra di ferro che circonda le vasche e li guardavo. Non c'era nulla di strano in ciò poiché dal primo momento compresi che eravamo vincolati, che qualcosa di infinitamente perduto e distante si ostinava ancora ad unirci. Mi era bastato fermarmi quella prima mattina davanti al cristallo dove alcune bollicine correvano nell'acqua. Gli axolotl si ammucchiavano nel misero e angusto (solo io posso dire quanto angusto e misero) luogo di pietra e muschio dell'acquario.
Ce n'erano nove esemplari e la maggioranza premeva la testa contro il vetro, fissando con i loro occhi d'oro quelli che si avvicinavano. Turbato, quasi vergognandomi, sentìi come qualcosa di impudico il mio sporgermi verso quelle figure e immobili raggrppate sul fondo della vasca. Ne isolai mentalmente una, situata sulla destra e alquanto distaccata dalle altre, per studiarla meglio.Vidi un corpicino rosato e come traslucido (pensai a quelle statuine cinesi di cristallo lattiginoso), somigliante a una piccola lucertola di circa quindici centimetri, terminante in una coda di pesce di straordinaria delicatezza, la parte più sensibile del nostro corpo. Lungo il dorso le correva una aluccia trasparente che andava a fondersi con la coda, ma ciò che mi ossessionò furono le zampe, di una finezza sottilissima, che finivano con piccole dita, e unghie minuziosamente umane.
E allora scoprìi i suoi occhi, la sua faccia, due buchini come capocchie di spillo, completamente di un oro trasparente, carenti di vita ma capaci di guardare e di lasciarsi penetrare dal mio sguardo che sembrava attraversare il punto aureo e perdersi in un diafano mistero interiore. Una delicatissima aureola nera circondava l'occhio e lo inscriveva nella carne rosa, nella pietra rosa della testa vagamente triangolare ma dai lati ricurvi e irregolari, che gli davano una totale somiglianza con una statuina corrosa dal tempo. La bocca era dissimulata dal piano triangolare della faccia, solo di profilo si indovinava il suo volume considerevole; di fronte, una lieve fenditura segnava appena la pietra senza vita. Ai due lati della testa, dove sarebbero dovuto essere le orecchie, gli crescevano tre rametti rossi come di corallo, una escrescenza vegetale, -suppongo le branchie. Ed era tutto quanto c'era di vivo in lui, ogni dieci o quindici secondi i rametti si drizzavano irrigidendosi tornavano ad abbassarsi. A volte una zampina si muoveva appena, io vedevo le minuscole dita posarsi dolcemente sul muschio. E' che non ci piace muoverci molto, e e l'acquario è così misero; appena avanziamo un po' ci scontriamo con la coda o la testa di uno di noi; nascono difficoltà, liti, stanchezza. Il tempo ci pesa di meno se ce stiamo quieti.
Fu la loro calma ciò che mi fece affacciare affascinandomi la prima volta che vidi gli axolotl. Oscuramente mi sembrò di capire la loro volontà segreta, abolire lo spazio e il tempo con una immobilità indifferente. Poi seppi meglio, il contrarsi delle branchie, il sondare delle belle zampine sulle pietre, lo scatto repentino del nuoto (alcuni di loro nuotano con ils emplice ondeggiare del corpo) mi dimostrava che erano capaci di sottrarsi a quel sopore minerale in cui trascorrevano intere ore. Soprattutto i loro occhi mi ossessionavano. Al loro fianco, nella altre vasche, diversi pesci mi mostravano la semplice stupidità dei loro begli occhi somiglianti ai nostri. Gli occhi degli axolotl mi parlavano della presenza di una vita differente, di un altro modo di guardare. Premendo la mia faccia contro il vetro (a volte il custode tossiva inquieto) cercavo di vedere meglio i piccoli punti dorati, quell'entrata nel mondo infinitamente lento e remoto delle creature rosate. Era inutile picchiettare col dito il cristallo, nelle loro facce non si avvertiva la minima reazione. Gli occhi d'oro continuavano ad ardere con la loro dolce, terribile luce; continuavano a fissarmi da una profondità insondabile che mi dava le vertigini.

E tuttavia erano vicini. Lo sapevo già da prima, prima di essere un axolotl. Lo seppi dal giorno che mi avvicinai a loro per la prima volta. I tratti antropomorfici di una scimmia rivelano, al contrario di ciò che crede la maggioranza, la distanza che intercorre tra loro e noi. L'assoluta mancanza di somiglianza degli axolotl con l'essere umano mi confermava la validità della mia intuizione, che non mi stavo basando su facili analogie. Solamente le manine...Ma anche una lucertolina ha manine simili, eppure in nulla ci rassomiglia. Io credo che fosse la testa dell'axolotl, quella forma triangolare rosata con gli occhietti d'oro. Questo guardavo e sapevo. Questo volevo. Non erano animali.

Sembrava facile, quasi ovvio, cadere nella mitologia. Cominciai a vedere negli axolotl una metamorfosi che non riusciva ad annullare una misteriosa umanità. Li immaginai coscienti, schiavi del loro corpo, eternamente condannati ad un silenzio abissale, ad una riflessione disperata. Il loro sguardo cieco, il ristretto disco d'oro inespressivo e tuttavia terribilmente lucido, mi penetrava come un messaggio: ''Salvaci, salvaci.'' Mi sorprendevo a biascicare parole di conforto, trasmettendo puerili speranze. Loro continuavano a fissarmi immobili; subito le lamelle rosate delle branchie si irrigidivano. In quell'istante sentivo come un dolore sordo; forse mi vedevano, coglievano il mio sforzo di penetrare nell'impenetrabilità delle loro vite. Non erano esseri umani, ma in nessun animale avevo trovato una relazione così profonda con me. Gli axolotl erano come testimoni di qualcosa, e a volte come dei giudici orribili. Mi sentivo ignobile di fronte a loro, c'era una purezza spaventosa nei loro occhi trasparenti. Erano larve, ma larva vuol dire maschera e anche fantasma. Dietro quelle facce azteche inespressive e tuttavia di una crudeltà implacabile, quale immagine attendeva la sua ora?
Li temevo. Credo che per non avere sentito la vicinanza di altri visitatori o del guardiano, non avessi osato rimanere solo con loro. ''Lei se li mangia con gli occhi'', mi diceva ridendo il guardiano, che doveva considerarmi un tantino squilibrato. Non si rendeva conto che erano loro a divorarmi lentamente con gli occhi in un cannibalismo d'oro. Lontano dall'acquario non facevo altro che pensare a loro, era come se sentissi a distanza la loro influenza su di me. Arrivai ad andarci tutti i giorni, e di notte li immaginavo immobili nell'oscurità, allungando una mano che subito incontrava quella dell'altro. Forse i loro occhi vedevano in piena notte, e per loro il giorno continuava all'infinito. Gli occhi degli axolotl non hanno palpebre.
Ora so che non ci fu nulla di strano, che il fatto doveva succedere. Ogni mattina, allo sporgermi sull'acquario il riconoscimento era più grande. Soffrivano, ogni fibra del mio corpo raggiungeva quella sofferenza imbavagliata, quella rigida tortura sul fondo dell'acqua. Espiavano qualcosa, una antica nobiltà decaduta, un tempo di libertà in cui il mondo era stato degli axolotl. Non era possibile che una espressione tanto terribile da riuscire a superare la forzata inespressività dei loro volti di pietra, non portasse un messaggio di dolore, la prova di quella condanna eterna, di quell'inferno liquido che pativano. Inutilmente cercavo di dimostrare a me stesso che era mia sensibilità a proiettare negli axolotl una coscienza inesistente. Loro ed io sapevamo. Per questo non ci fu nulla di strano in quel che accadde. La mia faccia era incollata al vetro dell'acquario, i mei occhi cercavano una volta di più di penetrare il mistero di quegli occhi d'oro senza iride né pupilla. Vedevo da molto vicino la faccia di un axolotl immobile contro il vetro. Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, invece dell'axolotl vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dell'acquario, la vidi dall'altro lato del vetro. Allora la mia faccia si allontanò e capìi.
Solo una cosa era strana: continuare a pensare come prima, sapere. Rendermi conto di ciò fu sulle prime come l'orrore del sepolto vivo che si sveglia al suo destino. Fuori la mia faccia continuava ad avvicinarsi al vetro, vedevo la mia bocca dalle labbra strette per lo sforzo di capire gli axolotl. io ero un axolotl e sapevo ora, istantaneamente, che nessuna comprensione era possibile.
Lui era fuori dell'acquario, il suo pensiero era un pensiero fuori dell'acquario. Conoscendolo, essendo lui stesso, io ero un axolotl ed ero nel mio mondo. L'orrore veniva - lo seppi nello stesso istante- dal credermi prigioniero in un corpo di axolotl, trasmigrato in lui con il mio pensare di uomo, sepolto vivo in un axolotl, condannato a muovermi lucidamente tra creature insensibili. Ma questo fini quando una zampa mi sfiorò la faccia, quando muovendomi appena di lato vidi un axolotl vicino a me che mi fissava, e seppi che anche lui sapeva, senza possibilità di comunicare ma tanto chiaramente. O io stavo anche dentro di lui, o tutti noi pensavamo come un uomo, incapaci di una espressione, limitati allo splendore dorato dei nostri occhi che guardavano la faccia dell'uomo incollata all'acquario.

Lui è tornato molte volte, ora più di rado. Passa settimane senza farsi vedere. Ieri l'ho visto, mi ha guardato a lungo e poi se n'è andato bruscamente. Mi è sembrato che non si interessasse tanto di noi, che obbedisse ad una abitudine. Poiché l'unica cosa che faccio è pensare, ho avuto modo di pensare molto a lui. Mi capita che all'inizio continuiamo a comunicare, che egli si senta più che mai legato al mistero che lo ossessionava. Ma i legami tra lui e me sono interrotti, poiché ciò che era la sua ossessione ora è un axolotl, escluso dalla sua vita di uomo. Credo che in principio io fossi capace di tornare in qualche modo a lui -ah, ma solo in qualche modo-, e di mantenere vivo il suo desiderio di conoscerci meglio. Ora sono definitivamente un axolotl, e se penso come un uomo è solo perché ogni axolotl pensa come un uomo dentro la sua immagine di pietra rosata. Mi sembra che di tutto ciò io sia riuscito a comunicargli qualcosa nei primi giorni, quando io ero ancora lui. E in questa solitudine finale, alla quale lui non torna più, mi consola pensare che forse scriverà di noi, che credendo di immaginare un racconto scriverà tutto questo sugli axolotl.

foglietti volanti e ritrovati

Noi non siamo Giove informe di nuvole.
Teniamo memorie volatili
e immagini d'esse
immemori.
********
Esse memorano; quando in cielo
è deciso il fondo
posano.
E' l'attimo fuggito;
già precede
la nuova imago
la forma dell'aria.
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E' il tempo.

Cedono il posto, nell'ordine:
parole
          nuvole
                    imballaggi.


lunedì 19 novembre 2012

Axolotl, di Julio Cortázar, operazione 1.

Domani 12 febbraio 2014 ricorre il trentennale della scomparsa di J.C., per cui ripropongo questo racconto.
Operazione 1: ho incontrato questo racconto di J.C. in maniera assolutamente casuale nel web; non lo conoscevo, e non so come ci sono arrivato; poi mi è venuto in mente che qualche giorno, o settimana, fa, ho seguito in TV un documentario che parlava di gechi, salamandre e axolotl: i figli-notai hanno confermato. In quel documentario si parlava di scorcio anche di J.C., citandolo e mostrando il filmato -brevissimo- di un uomo che in un acquario osservava quelle specie di pesci-larve.
Traduco il testo alla meno peggio, come è nel mio poco stile.
Poi mi riprometto di parlarne, del testo.
Ah, ecco come mi sono imbattuto in questo racconto: stavo leggendo sulla edizione on-line di ''El Paìs'' delle interviste ad eminenti critici e scrittori  incentrate sul cinquantenario del boom della letteratura latinoamericana, ed una critica peruviano-statunitense citava una frase di questo racconto. Magari poi riporterò anche quelle interviste, se qualcuno fosse interessato e passasse da qui a leggere; altrimenti lo farò per me e basta, per esercitare la memoria. Intanto guardo lo schermo e vedo una larva che mi fissa. Poi allontano la testa, e la larva viene via, in sintonia col mio sguardo. Mah!...

Axolotl. (il termine è di origine azteca, come è più che evidente: per facilitare la lettura si può pronunziare 'axoloti'). 
 
Hubo un tiempo en que yo pensaba mucho en los axolotl. Iba a verlos al acuario del Jardín des Plantes y me quedaba horas mirándolos, observando su inmovilidad, sus oscuros movimientos. Ahora soy un axolotl.
C'è stato un tempo in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli all'acquario del Jardín des Plantes e rimanevo per ore a fissarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl.
El azar me llevó hasta ellos una mañana de primavera en que París abría su cola de pavo real después de la lenta invernada. Bajé por el bulevar de Port Royal, tomé St. Marcel y L’Hôpital, vi los verdes entre tanto gris y me acordé de los leones. Era amigo de los leones y las panteras, pero nunca había entrado en el húmedo y oscuro edificio de los acuarios. Dejé mi bicicleta contra las rejas y fui a ver los tulipanes. Los leones estaban feos y tristes y mi pantera dormía. Opté por los acuarios, soslayé peces vulgares hasta dar inesperadamente con los axolotl. Me quedé una hora mirándolos, y salí incapaz de otra cosa.
Fu il caso a condurmi fino a loro, una mattina di primavera che Parigi faceva la sua ruota di pavone dopo il lungo inverno. Scesi per Boulevard de Port Royal, imboccai St. Marcel e L'Hopital, vidi verdeggiare tra tanto grigiore e mi ricordai dei leoni. Ero amico di leoni e pantere, ma non ero mai entrato nell'umido e scuro edificio dell'acquario. Lasciai la mia bicicletta contro la recinzione e andai a guardare i tulipani. I leoni erano abruttiti e tristi e la mia pantera dormiva. Decisi per l'acquario, evitai pesci comuni fino a quando mi imbattei insperatamente negli axolotl. Rimasi per un'ora a guardarli, poi uscìi come inebetito.
En la biblioteca Saint-Geneviève consulté un diccionario y supe que los axolotl son formas larvales, provistas de branquias, de una especie de batracios del género amblistoma. Que eran mexicanos lo sabía ya por ellos mismos, por sus pequeños rostros rosados aztecas y el cartel en lo alto del acuario. Leí que se han encontrado ejemplares en África capaces de vivir en tierra durante los períodos de sequía, y que continúan su vida en el agua al llegar la estación de las lluvias. Encontré su nombre español, ajolote, la mención de que son comestibles y que su aceite se usaba (se diría que no se usa más) como el de hígado de bacalao.
Nella biblioteca
Saint-Geneviève consultai un dizionario e seppi che gli axolotl sono forme larvali, provviste di branchie, di una specie di batraci del genere amblistoma. Che fossero messicani lo sapevo già da quello che erano, per le loro faccine rosate azteche e per cartello applicato sopra la vasca. Lessi che si erano trovati esemplari in Africa capaci di vivere nella terra durante i periodo di siccità, e che riprendono la loro vita  in acqua all'arrivo della stagione delle piogge. Trovai il loro nome in spagnolo, ajolote, con la nota che sono commestibili e che il loro olio si usasse (si direbbe che non si usi più) come quello di fegato di merluzzo.
No quise consultar obras especializadas, pero volví al día siguiente al Jardin des Plantes. Empecé a ir todas las mañanas, a veces de mañana y de tarde. El guardián de los acuarios sonreía perplejo al recibir el billete. Me apoyaba en la barra de hierro que bordea los acuarios y me ponía a mirarlos. No hay nada de extraño en esto porque desde un primer momento comprendí que estábamos vinculados, que algo infinitamente perdido y distante seguía sin embargo uniéndonos. Me había bastado detenerme aquella primera mañana ante el cristal donde unas burbujas corrían en el agua. Los axolotl se amontonaban en el mezquino y angosto (sólo yo puedo saber cuán angosto y mezquino) piso de piedra y musgo del acuario.
Non volli consultare opere specialistiche, ma  tornai il giorno seguente al Jardìn des Plantes. Cominciai ad andarci tutte le mattine, a volte mattina e sera. Il custode degli acquari sorrideva perplesso ritirando il biglietto d'ingresso. Mi appoggiavo alla barra di ferro che circonda le vasche e li guardavo. Non c'era nulla di strano in ciò poiché dal primo momento compresi che eravamo vincolati, che qualcosa di infinitamente perduto e distante si ostinava ancora ad unirci. Mi era bastato fermarmi quella prima mattina davanti al cristallo dove alcune bollicine correvano nell'acqua. Gli axolotl si ammucchiavano nel misero e angusto (solo io posso dire quanto angusto e misero) luogo di pietra e muschio dell'acquario.
Había nueve ejemplares y la mayoría apoyaba la cabeza contra el cristal, mirando con sus ojos de oro a los que se acercaban. Turbado, casi avergonzado, sentí como una impudicia asomarme a esas figuras silenciosas e inmóviles aglomeradas en el fondo del acuario. Aislé mentalmente una situada a la derecha y algo separada de las otras para estudiarla mejor. Vi un cuerpecito rosado y como translúcido (pensé en las estatuillas chinas de cristal lechoso), semejante a un pequeño lagarto de quince centímetros, terminado en una cola de pez de una delicadeza extraordinaria, la parte más sensible de nuestro cuerpo. Por el lomo le corría una aleta transparente que se fusionaba con la cola, pero lo que me obsesionó fueron las patas, de una finura sutilísima, acabadas en menudos dedos, en uñas minuciosamente humanas.
Ce n'erano nove esemplari e la maggioranza premeva la testa contro il vetro, fissando con i loro occhi d'oro quelli che si avvicinavano. Turbato, quasi vergognandomi, sentìi come qualcosa di impudico il mio sporgermi verso quelle figure e immobili raggrppate sul fondo della vasca. Ne isolai mentalmente una, situata sulla destra e alquanto distaccata dalle altre, per studiarla meglio.Vidi un corpicino rosato e come traslucido (pensai a quelle statuine cinesi di cristallo lattiginoso), somigliante a una piccola lucertola di circa quindici centimetri, terminante in una coda di pesce di straordinaria delicatezza, la parte più sensibile del nostro corpo. Lungo il dorso le correva una aluccia trasparente che andava a fondersi con la coda, ma ciò che mi ossessionò furono le zampe, di una finezza sottilissima, che finivano con piccole dita, e unghie minuziosamente umane.
Y entonces descubrí sus ojos, su cara, dos orificios como cabezas de alfiler, enteramente de un oro transparente carentes de toda vida pero mirando, dejándose penetrar por mi mirada que parecía pasar a través del punto áureo y perderse en un diáfano misterio interior. Un delgadísimo halo negro rodeaba el ojo y los inscribía en la carne rosa, en la piedra rosa de la cabeza vagamente triangular pero con lados curvos e irregulares, que le daban una total semejanza con una estatuilla corroída por el tiempo. La boca estaba disimulada por el plano triangular de la cara, sólo de perfil se adivinaba su tamaño considerable; de frente una fina hendedura rasgaba apenas la piedra sin vida. A ambos lados de la cabeza, donde hubieran debido estar las orejas, le crecían tres ramitas rojas como de coral, una excrescencia vegetal, las branquias supongo. Y era lo único vivo en él, cada diez o quince segundos las ramitas se enderezaban rígidamente y volvían a bajarse. A veces una pata se movía apenas, yo veía los diminutos dedos posándose con suavidad en el musgo. Es que no nos gusta movernos mucho, y el acuario es tan mezquino; apenas avanzamos un poco nos damos con la cola o la cabeza de otro de nosotros; surgen dificultades, peleas, fatiga. El tiempo se siente menos si nos estamos quietos.
E allora scoprìi i suoi occhi, la sua faccia, due buchini come capocchie di spillo, completamente di un oro trasparente, carenti di vita ma capaci di guardare e di lasciarsi penetrare dal mio sguardo che sembrava attraversare il punto aureo e perdersi in un diafano mistero interiore. Una delicatissima aureola nera circondava l'occhio e lo inscriveva nella carne rosa, nella pietra rosa della testa vagamente triangolare ma dai lati ricurvi e irregolari, che gli davano una totale somiglianza con una statuina corrosa dal tempo. La bocca era dissimulata dal piano triangolare della faccia, solo di profilo si indovinava il suo volume considerevole; di fronte, una lieve fenditura segnava appena la pietra senza vita. Ai due lati della testa, dove sarebbero dovuto essere le orecchie, gli crescevano tre rametti rossi come di corallo, una escrescenza vegetale, -suppongo le branchie. Ed era tutto quanto c'era di vivo in lui, ogni dieci o quindici secondi i rametti si drizzavano irrigidendosi tornavano ad abbassarsi. A volte una zampina si muoveva appena, io vedevo le minuscole dita posarsi dolcemente sul muschio. E' che non ci piace muoverci molto, e e l'acquario è così misero; appena avanziamo un po' ci scontriamo con la coda o la testa di uno di noi; nascono difficoltà, liti, stanchezza. Il tempo ci pesa di meno se ce stiamo quieti.
Fue su quietud la que me hizo inclinarme fascinado la primera vez que vi a los axolotl. Oscuramente me pareció comprender su voluntad secreta, abolir el espacio y el tiempo con una inmovilidad indiferente. Después supe mejor, la contracción de las branquias, el tanteo de las finas patas en las piedras, la repentina natación (algunos de ellos nadan con la simple ondulación del cuerpo) me probó que eran capaz de evadirse de ese sopor mineral en el que pasaban horas enteras. Sus ojos sobre todo me obsesionaban. Al lado de ellos en los restantes acuarios, diversos peces me mostraban la simple estupidez de sus hermosos ojos semejantes a los nuestros. Los ojos de los axolotl me decían de la presencia de una vida diferente, de otra manera de mirar. Pegando mi cara al vidrio (a veces el guardián tosía inquieto) buscaba ver mejor los diminutos puntos áureos, esa entrada al mundo infinitamente lento y remoto de las criaturas rosadas. Era inútil golpear con el dedo en el cristal, delante de sus caras no se advertía la menor reacción. Los ojos de oro seguían ardiendo con su dulce, terrible luz; seguían mirándome desde una profundidad insondable que me daba vértigo.
Fu la loro calma ciò che mi fece affacciare affascinandomi la prima volta che vidi gli axolotl. Oscuramente mi sembrò di capire la loro volontà segreta, abolire lo spazio e il tempo con una immobilità indifferente. Poi seppi meglio, il contrarsi delle branchie, il sondare delle belle zampine sulle pietre, lo scatto repentino del nuoto (alcuni di loro nuotano con ils emplice ondeggiare del corpo) mi dimostrava che erano capaci di sottrarsi a quel sopore minerale in cui trascorrevano intere ore. Soprattutto i loro occhi mi ossessionavano. Al loro fianco, nella altre vasche, diversi pesci mi mostravano la semplice stupidità dei loro begli occhi somiglianti ai nostri. Gli occhi degli axolotl mi parlavano della presenza di una vita differente, di un altro modo di guardare. Premendo la mia faccia contro il vetro (a volte il custode tossiva inquieto) cercavo di vedere meglio i piccoli punti dorati, quell'entrata nel mondo infinitamente lento e remoto delle creature rosate. Era inutile picchiettare col dito il cristallo, nelle loro facce non si avvertiva la minima reazione. Gli occhi d'oro continuavano ad ardere con la loro dolce, terribile luce; continuavano a fissarmi da una profondità insondabile che mi dava le vertigini.
Y sin embargo estaban cerca. Lo supe antes de esto, antes de ser un axolotl. Lo supe el día en que me acerqué a ellos por primera vez. Los rasgos antropomórficos de un mono revelan, al revés de lo que cree la mayoría, la distancia que va de ellos a nosotros. La absoluta falta de semejanza de los axolotl con el ser humano me probó que mi reconocimiento era válido, que no me apoyaba en analogías fáciles. Sólo las manecitas... Pero una lagartija tiene también manos así, y en nada se nos parece. Yo creo que era la cabeza de los axolotl, esa forma triangular rosada con los ojitos de oro. Eso miraba y sabía. Eso reclamaba. No eran animales.

E tuttavia erano vicini. Lo sapevo già da prima, prima di essere un axolotl. Lo seppi dal giorno che mi avvicinai a loro per la prima volta. I tratti antropomorfici di una scimmia rivelano, al contrario di ciò che crede la maggioranza, la distanza che intercorre tra loro e noi. L'assoluta mancanza di somiglianza degli axolotl con l'essere umano mi confermava la validità della mia intuizione, che non mi stavo basando su facili analogie. Solamente le manine...Ma anche una lucertolina ha manine simili, eppure in nulla ci rassomiglia. Io credo che fosse la testa dell'axolotl, quella forma triangolare rosata con gli occhietti d'oro. Questo guardavo e sapevo. Questo volevo. Non erano animali.

Parecía fácil, casi obvio, caer en la mitología. Empecé viendo en los axolotl una metamorfosis que no conseguía anular una misteriosa humanidad. Los imaginé conscientes, esclavos de su cuerpo, infinitamente condenados a un silencio abisal, a una reflexión desesperada. Su mirada ciega, el diminuto disco de oro inexpresivo y sin embargo terriblemente lúcido, me penetraba como un mensaje: «Sálvanos, sálvanos». Me sorprendía musitando palabras de consuelo, transmitiendo pueriles esperanzas. Ellos seguían mirándome inmóviles; de pronto las ramillas rosadas de las branquias se enderezaban. En ese instante yo sentía como un dolor sordo; tal vez me veían, captaban mi esfuerzo por penetrar en lo impenetrable de sus vidas. No eran seres humanos, pero en ningún animal había encontrado una relación tan profunda conmigo. Los axolotl eran como testigos de algo, y a veces como horribles jueces. Me sentía innoble frente a ellos, había una pureza tan espantosa en esos ojos transparentes. Eran larvas, pero larva quiere decir máscara y también fantasma. Detrás de esas caras aztecas inexpresivas y sin embargo de una crueldad implacable, ¿qué imagen esperaba su hora?
Sembrava facile, quasi ovvio, cadere nella mitologia. Cominciai a vedere negli axolotl una metamorfosi che non riusciva ad annullare una misteriosa umanità. Li immaginai coscienti, schiavi del loro corpo, eternamente condannati ad un silenzio abissale, ad una riflessione disperata. Il loro sguardo cieco, il ristretto disco d'oro inespressivo e tuttavia terribilmente lucido, mi penetrava come un messaggio: ''Salvaci, salvaci.'' Mi sorprendevo a biascicare parole di conforto, trasmettendo puerili speranze. Loro continuavano a fissarmi immobili; subito le lamelle rosate delle branchie si irrigidivano. In quell'istante sentivo come un dolore sordo; forse mi vedevano, coglievano il mio sforzo di penetrare nell'impenetrabilità delle loro vite. Non erano esseri umani, ma in nessun animale avevo trovato una relazione così profonda con me. Gli axolotl erano come testimoni di qualcosa, e a volte come dei giudici orribili. Mi sentivo ignobile di fronte a loro, c'era una purezza spaventosa nei loro occhi trasparenti. Erano larve, ma larva vuol dire maschera e anche fantasma. Dietro quelle facce azteche inespressive e tuttavia di una crudeltà implacabile, quale immagine attendeva la sua ora?
Les temía. Creo que de no haber sentido la proximidad de otros visitantes y del guardián, no me hubiese atrevido a quedarme solo con ellos. «Usted se los come con los ojos», me decía riendo el guardián, que debía suponerme un poco desequilibrado. No se daba cuenta de que eran ellos los que me devoraban lentamente por los ojos en un canibalismo de oro. Lejos del acuario no hacía mas que pensar en ellos, era como si me influyeran a distancia. Llegué a ir todos los días, y de noche los imaginaba inmóviles en la oscuridad, adelantando lentamente una mano que de pronto encontraba la de otro. Acaso sus ojos veían en plena noche, y el día continuaba para ellos indefinidamente. Los ojos de los axolotl no tienen párpados.
Li temevo. Credo che per non avere sentito la vicinanza di altri visitatori o del guardiano, non avessi osato rimanere solo con loro. ''Lei se li mangia con gli occhi'', mi diceva ridendo il guardiano, che doveva considerarmi un tantino squilibrato. Non si rendeva conto che erano loro a divorarmi lentamente con gli occhi in un cannibalismo d'oro. Lontano dall'acquario non facevo altro che pensare a loro, era come se sentissi a distanza la loro influenza su di me. Arrivai ad andarci tutti i giorni, e di notte li immaginavo immobili nell'oscurità, allungando una mano che subito incontrava quella dell'altro. Forse i loro occhi vedevano in piena notte, e per loro il giorno continuava all'infinito. Gli occhi degli axolotl non hanno palpebre.
Ahora sé que no hubo nada de extraño, que eso tenía que ocurrir. Cada mañana al inclinarme sobre el acuario el reconocimiento era mayor. Sufrían, cada fibra de mi cuerpo alcanzaba ese sufrimiento amordazado, esa tortura rígida en el fondo del agua. Espiaban algo, un remoto señorío aniquilado, un tiempo de libertad en que el mundo había sido de los axolotl. No era posible que una expresión tan terrible que alcanzaba a vencer la inexpresividad forzada de sus rostros de piedra, no portara un mensaje de dolor, la prueba de esa condena eterna, de ese infierno líquido que padecían. Inútilmente quería probarme que mi propia sensibilidad proyectaba en los axolotl una conciencia inexistente. Ellos y yo sabíamos. Por eso no hubo nada de extraño en lo que ocurrió. Mi cara estaba pegada al vidrio del acuario, mis ojos trataban una vez mas de penetrar el misterio de esos ojos de oro sin iris y sin pupila. Veía de muy cerca la cara de una axolotl inmóvil junto al vidrio. Sin transición, sin sorpresa, vi mi cara contra el vidrio, en vez del axolotl vi mi cara contra el vidrio, la vi fuera del acuario, la vi del otro lado del vidrio. Entonces mi cara se apartó y yo comprendí.
Ora so che non ci fu nulla di strano, che il fatto doveva succedere. Ogni mattina, allo sporgermi sull'acquario il riconoscimento era più grande. Soffrivano, ogni fibra del mio corpo raggiungeva quella sofferenza imbavagliata, quella rigida tortura sul fondo dell'acqua. Espiavano qualcosa, una antica nobiltà decaduta, un tempo di libertà in cui il mondo era stato degli axolotl. Non era possibile che una espressione tanto terribile da riuscire a superare la forzata inespressività dei loro volti di pietra, non portasse un messaggio di dolore, la prova di quella condanna eterna, di quell'inferno liquido che pativano. Inutilmente cercavo di dimostrare a me stesso che era mia sensibilità a proiettare negli axolotl una coscienza inesistente. Loro ed io sapevamo. Per questo non ci fu nulla di strano in quel che accadde. La mia faccia era incollata al vetro dell'acquario, i mei occhi cercavano una volta di più di penetrare il mistero di quegli occhi d'oro senza iride né pupilla. Vedevo da molto vicino la faccia di un axolotl immobile contro il vetro. Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, invece dell'axolotl vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dell'acquario, la vidi dall'altro lato del vetro. Allora la mia faccia si allontanò e capìi.
Sólo una cosa era extraña: seguir pensando como antes, saber. Darme cuenta de eso fue en el primer momento como el horror del enterrado vivo que despierta a su destino. Afuera mi cara volvía a acercarse al vidrio, veía mi boca de labios apretados por el esfuerzo de comprender a los axolotl. Yo era un axolotl y sabía ahora instantáneamente que ninguna comprensión era posible. Él estaba fuera del acuario, su pensamiento era un pensamiento fuera del acuario. Conociéndolo, siendo él mismo, yo era un axolotl y estaba en mi mundo. El horror venía -lo supe en el mismo momento- de creerme prisionero en un cuerpo de axolotl, transmigrado a él con mi pensamiento de hombre, enterrado vivo en un axolotl, condenado a moverme lúcidamente entre criaturas insensibles. Pero aquello cesó cuando una pata vino a rozarme la cara, cuando moviéndome apenas a un lado vi a un axolotl junto a mí que me miraba, y supe que también él sabía, sin comunicación posible pero tan claramente. O yo estaba también en él, o todos nosotros pensábamos como un hombre, incapaces de expresión, limitados al resplandor dorado de nuestros ojos que miraban la cara del hombre pegada al acuario.
Solo una cosa era strana: continuare a pensare come prima, sapere. Rendermi conto di ciò fu sulle prime come l'orrore del sepolto vivo che si sveglia al suo destino. Fuori la mia faccia continuava ad avvicinarsi al vetro, vedevo la mia bocca dalle labbra strette per lo sforzo di capire gli axolotl. io ero un axolotl e sapevo ora, istantaneamente, che nessuna comprensione era possibile.
Lui era fuori dell'acquario, il suo pensiero era un pensiero fuori dell'acquario. Conoscendolo, essendo lui stesso, io ero un axolotl ed ero nel mio mondo. L'orrore veniva - lo seppi nello stesso istante- dal credermi prigioniero in un corpo di axolotl, trasmigrato in lui con il mio pensare di uomo, sepolto vivo in un axolotl, condannato a muovermi lucidamente tra creature insensibili. Ma questo fini quando una zampa mi sfiorò la faccia, quando muovendomi appena di lato vidi un axolotl vicino a me che mi fissava, e seppi che anche lui sapeva, senza possibilità di comunicare ma tanto chiaramente. O io stavo anche dentro di lui, o tutti noi pensavamo come un uomo, incapaci di una espressione, limitati allo splendore dorato dei nostri occhi che guardavano la faccia dell'uomo incollata all'acquario.
Él volvió muchas veces, pero viene menos ahora. Pasa semanas sin asomarse. Ayer lo vi, me miró largo rato y se fue bruscamente. Me pareció que no se interesaba tanto por nosotros, que obedecía a una costumbre. Como lo único que hago es pensar, pude pensar mucho en él. Se me ocurre que al principio continuamos comunicados, que él se sentía más que nunca unido al misterio que lo obsesionaba. Pero los puentes están cortados entre él y yo porque lo que era su obsesión es ahora un axolotl, ajeno a su vida de hombre. Creo que al principio yo era capaz de volver en cierto modo a él -ah, sólo en cierto modo-, y mantener alerta su deseo de conocernos mejor. Ahora soy definitivamente un axolotl, y si pienso como un hombre es sólo porque todo axolotl piensa como un hombre dentro de su imagen de piedra rosa. Me parece que de todo esto alcancé a comunicarle algo en los primeros días, cuando yo era todavía él. Y en esta soledad final, a la que él ya no vuelve, me consuela pensar que acaso va a escribir sobre nosotros, creyendo imaginar un cuento va a escribir todo esto sobre los axolotl.

Lui è tornato molte volte, ora più di rado. Passa settimane senza farsi vedere. Ieri l'ho visto, mi ha guardato a lungo e poi se n'è andato bruscamente. Mi è sembrato che non si interessasse tanto di noi, che obbedisse ad una abitudine. Poiché l'unica cosa che faccio è pensare, ho avuto modo di pensare molto a lui. Mi capita che all'inizio continuiamo a comunicare, che egli si senta più che mai legato al mistero che lo ossessionava. Ma i legami tra lui e me sono interrotti, poiché ciò che era la sua ossessione ora è un axolotl, escluso dalla sua vita di uomo. Credo che in principio io fossi capace di tornare in qualche modo a lui -ah, ma solo in qualche modo-, e di mantenere vivo il suo desiderio di conoscerci meglio. Ora sono definitivamente un axolotl, e se penso come un uomo è solo perché ogni axolotl pensa come un uomo dentro la sua immagine di pietra rosata. Mi sembra che di tutto ciò io sia riuscito a comunicargli qualcosa nei primi giorni, quando io ero ancora lui. E in questa solitudine finale, alla quale lui non torna più, mi consola pensare che forse scriverà di noi, che credendo di immaginare un racconto scriverà tutto questo sugli axolotl.