domenica 30 giugno 2013

Scrivete, leggete, traducete.

Scrivete, leggete, traducete.

Scrivete, è un vostro umano diritto, e non lasciate che chicchessia vi critichi, se non la vostra coscienza, l'arbitrio parallelo all'andatura del vostro vergare parole, il controllo necessario e silenzioso sotteso dal pensiero, lirico o narrante che sia... non lasciate che vi guardino dall'alto in basso per quello che avete scritto o pensato; chi vuole aiutarvi nel vostro anelito all'elevazione lo faccia guardandovi negli occhi, come il campione che guarda negli occhi l'avversario volonteroso ma forse meno fortunato o capace; non lasciate a nessuno l'agio di potervi degradare o cassare; prendete le parole per come sono, un frutto di tutti e per tutti, e fatene l'uso che più vi si addice, comunque il migliore che potrete consentirvi; rifuggite da soloni e dita levate brandendo matitine rosse e blu: la poesia, la narrazione, sono belle anche infarcite da errori, da titubanze; poi, se ricorrendone il caso, sarà il tempo ad affinare le vostre capacità, a farvi sentire, se non più profondamente, più sottilmente, e a guidarvi nei piaceri delle raffinatezze stilistiche, nel gusto della forma che va a combaciare quasi miracolosamente con il sentire. Scrivete, se volete, oppure no, ma non dimenticate che chi vi critica dovrebbe avere una sensibilità molto superiore alla vostra, da esprimere nel campo del difficilmente esprimibile come è quello della creazione poetica: bisognerebbe rispettare, del dire di un uomo, anche la parte inespressa, quel non detto che comincia dai margini della realizzazione poetica, e questo, che è poi la gran parte del 'sentito', nessuno e nessuna scuola o abilitazione o diploma può giudicarlo. E' la parte della visione che non sarete riusciti a tradurre, quella che produce la sorta di delusione derivante dalla consapevolezza di non essere riusciti ad esprimervi come avreste voluto, sono le parole che sul più bello vi hanno tradito, vi sono mancate, sono andate via, in cerca di altre anime, dita, bocche.
Leggete, non abbiate paura di leggere i versi di quelli che vi hanno preceduto nel comporre e nel donare: a volte si è trattato di un vantaggio casuale, temporale, di collocazione... non lasciatevi condizionare dall'idea di dire qualcosa di già detto o sentito: è inevitabile, la poesia la scrivono ancora gli uomini, grazie al cielo, e gli uomini sono tra loro simili, anche quando qualcuno tra di loro svetta per ingegno; ma anche qui, tutta questa ricerca di differenze e originalità... a cosa serve computare le 'occorrenze' in un testo o in un poeta? A cosa serve definire qualcuno il poeta delle 'elle', o delle allitterazioni, o di qualsiasi altra forma metrica, grammaticale, sintattica, lessicale? 
Esprimetevi, senza il timore di ripetere o di ripetervi... in fondo, saprete bene quanta parte della poesia, italiana e non, si può far risalire a Petrarca, quanta prosa a Boccaccio, quanta lirica a Pascoli, e mi limito a questi, che inconsciamente si cerca di dimenticare, forse per sentirsi più intatti e originali.
E traducete, se potete, traducete la vostra anima, e le anime che attraverso lingue, altre e diverse dalla vostra, vi cercano: senza domandarvi come e se è giusto farlo, provateci, e imparate parole e linfa nuove, attraverso le poesie di altri, non formalizzatevi e non lasciate che si venga a sindacare nel tradurre un termine: il conte Giacomo traduceva, in fondo, la lingua del suo sentire nella lingua degli italiani quando indugiava su un 'rammenti' o 'rimembri', ma lui, anzi Egli, poteva farlo, con buona pace di quanti lo hanno imitato fingendo di non conoscerlo, e magari anche di quegli incomprensibili Arbasino di turno che si sentono autorizzati a schernire alla radio il magistrale Giovanni Pascoli, paragonandolo ad un autore di canzonette da festival popolar-paesano.
PS: non ho la più pallida idea del perché mi sia passato per la testa di scrivere queste cose. Le leggerà qualcuno? Mah!... come sempre.
27-5-12

Todavía nos guían

Todavía nos guían
los muertos por debajo mirándonos
los que unen por rayos invisibles
a caso místicos, andénes y zaguanes

A escondidas aparecen
sus ojos en el marco de las puertas
y los dedos presionando pieles de marfil
y caras, blancas
plumas pesadas en la espuma adonde
más está la mar doblando escombros
y esquinas

Sólo quedan, muros hundidos
en la arena las palabras
las que solas guían nosotros
en el desierto de las sombras.

Ancora ci guidano
i morti osservandoci dal basso
unendo con raggi invisibili
forse mistici, marciapiedi e atrii

Di nascosto appaiono
gli occhi nel vano delle porte
e le dita premendo su pelli d'avorio
e volti, bianchi
piume pesanti sulla schiuma dove
ancora più il mare doppia rottami
e angoli

Solo rimangono
muri profondi
nella sabbia le parole
quelle che sole ci guidano
nel deserto di ombre.

5.5.2012

martedì 25 giugno 2013

non moltiplicare

non moltiplicare gli attimi per sempre
sbaglieremmo
dividili per ora, non temere i frammenti

e le parole che sgorgano
rilasciale
contro vento, contro pini, contro resine
contro salmastro, contro correnti

ma

quando sarà il tempo
ricomponile
contro i miei occhi, contro le tempie
contro le labbra contro le ginocchia

e non sbagliare
il conto degli amori mai ritorna
è solo una somma che traspare
in calce
quasi una linea
o un filo
un tempo da segnare.

sabato 22 giugno 2013

ho incrociato in parole

ho incrociato in parole
il tuo grembo
sei pazzo dicevi
quando parlavo reclino
e le tue labbra rosavano le mie labbra

ancora le tue dita
diluiscono sul mio collo
una tua scia di saliva

che traspare, che è lenta, che sento

le nostre anime scivolano
indifferenti quasi
ai corpi dove insistono

le nostre parole lasciano una traccia
un contorno di lini irrisolti
e trame fitte
dove nascondono le dita
svelte
i tuoi sussurri che amo
e che di donna chiamo.

A. Vicente Vitale.


venerdì 21 giugno 2013

a volte esco

a volte esco
solo, banale
come una scusa
siamo io
e il mio passato
e davanti al nulla
solo passi
e altro nulla
e strada
poi tocchi
non altro
non vista.

la rosa

LA ROSA, di T. Herrera Garay.

al di là della rete
rimane circoscritta
prigione della sua bellezza
la rosa

non ho cuore di chi amare
aldilà
questa nostra
dorata che sia
recinzione

ma vedi, in queste losanghe
di ferro leggiamo
un cuore reciproco

e non importa d'altri
lo sguardo occhiuto
lo sberleffo
il dare di gomito
e su tutto
falso
quel sorriso
che più mi ti avvicina

perché da sempre
tu
mi camminavi accanto
di petalo e silenzi
e non sento più i tuoi passi
ché dai miei non staccano.

i nostri corpi si sfiorarono

trad. di T. Herrera Garay
i nostri corpi si sfiorarono
aspettavano di erigersi
da sempre, pronti
qualcosa scivolò tra le gambe
di azzurrato e lucente
la scia di un saluto
di mare, salato
i nostri corpi già si appartennero
e ora sentendosi
sfiorati
si riavviano
come uno sbuffo d'aria
un colpo alla frangetta
un sorriso sudato.

y deslizarse en la noche

H. L, Formento
y deslizarse en la noche
e scivolarsi nella notte appena nata
accenderla
oltre la tua bordura rosa
di labbra strette
e rilasciate a tempo
dolce prigione
tra i tuoi denti bianca
è la notte...

tuo è il mio corpo

T. Herrera Garay
tuo è il mio corpo
e di te il desiderio
rido nel tuo grembo
come un amante appena nato
senza parole che tu non abbia
da sempre amato.

oggi il tuo riposo

T. Herrera Garay.
oggi il tuo riposo
non già la luce che vi penetrava
non il tuo corpo
mi ha sorpreso
mi ha sussurrato quanto breve
sia il tempo tra un abbrivio e il ritorno
al moto delle onde
quelle che all'alba
silenti
accostano
e la riva sono le tue labbra
un fruscìo fulvo che dal monte si eleva.

Miré mi dedo y tus labios
la piel dorada
e l'incanto
vorrei incastonare l'anima
e nel tuo anello prezioso
dormre.

svegliarsi da questo lato

Trad. da T. Herrera Garay.
Despertarse de este lado
Svegliarsi da questo lato
dove c'è sole
e il brivido nero di terra
è un moto sconosciuto
svegliarsi e attendere sapendo
che sarà vana attesa
di un cenno, di un saluto
di qualcosa di liquido che spinga in superficie
come a bagnare, improvvisando trame
un fazzoletto, un lino
i morti già lo sanno
ciò che vanno ripetendo
e che da questo lato
dove c'è il sole
non intendiamo
perché la terra, nera, infaticabile
lo cancella
ne affiora a volte
come una musica incomprensibile, lontana
qualcosa di liquido
che chiamo
nostalgia, rimpianto, attesa
ma nessuna parola basta
quando lo stelo permane
nel buio delle radici
e solo voi che vi so
infinitamente di là
sapete
che sarà un vano accenno ripetere.

lunedì 17 giugno 2013

Assettàt 'mmenz a strata / Seduti per strada..... (Ntonetta / Antonietta)

sabato, 19 febbraio 2011
Premessa breve breve...si tratta di una sorta di sedimento, un ricordo di quando ero poco più che bambino; il tutto è un po' sfocato, mi riappare a tratti, forse sono i primi turbamenti della adolescenza, vai a sapere...e la persona di cui parlo... boh! vera lo sarà stata - e lo sarà ancora – senz'altro... Di quelle case basse mi colpivano sempre i fili della luce che non sapevo mai se cercavano di salire verso il soffitto o se ne venivano giù, con quella lampadina appesa, costretta a volte a un dondolio da impiccato... Quel filo - la piattina! - era avvolto in carta - velina, di giornale, da zucchero, da sarta - che le mosche prendevano d'assalto...
Noi guardavamo, tutti, e non perdevamo una sola immagine, forse convinti che la vista fosse il bene più grande... Vedevamo tutto, anche quando dovevamo voltarci di spalle. E non basta una vita per dimenticare, né per ricordare.
E' notte fonda, la vista e la sintassi mi tradiscono, non vorrei sembrare patetico... Cià!!!


assettàt 'mmenz a strata,
u riggipètt 'e 'Ntonetta
chidda di minni rossi
è spannùt' aru ferrufulàtu
sutt u mur da ferruvìa
duj vìpiri para ca liticàn
invèc si vàsin
com i cristiàn, quas quasi
ca para ca s'ammàzzin
e 'mmeci, si strìncin,
cchiù o men,
ma semp aru cannaròzzu

'a cimentàta vudda sutt' i pedi
'nta finèsta nèscia 'Ntonètta
abbampàta

penzca mò cògghjia u riggipèttu
ma aspètta, aspètta... ppè piacìr!

i mani, l'òcchji
u' ppìjn rigèttu
'nu fil 'e vava
paròli muzzicàti
i jinòcchj ca s'ammùscin...

e 'Ntonètta ca chiùda a finèsta,
u zzitu s'appìccia 'na sicarètta
è beddu cuntentu, u capìddu alliffàtu
- 'e sicùr un za spusa:
'nta casa di pòvir
sul i muschi unn arròbbin
sinn stan muti,
su' punti nìvuri sub u filu da lùcia

'Ntonètta, citta citta l'astùta
po' a gùccia a gùccia sinni scinna
sub a cannila sulu, longu longu
u chjiàntu.


seduti in mezzo alla strada,
il reggiseno di Antonietta
quella dai seni grossi
è steso al fil di ferro
sotto il muro della ferrovia
due serpi sembra che litighino
invece si baciano
come le persone, quasi quasi
che sembra che si ammazzino
invece si stringono
più o meno
ma sempre alla gola

il cemento bolle sotto i piedi
nella finestra appare Antonietta

avvampata

forse ora ritira il reggiseno,
ma aspetta, aspetta... per piacere!

le mani, gli occhi
non trovano pace
un filo di saliva
parole morse
e le ginocchia che non reggono

Antonietta che chiude la finestra
il fidanzato si accende una sigaretta
è tutto contento e dai capelli curati
di sicuro non la sposa:
- nella casa dei poveri
solo le mosche non rubano
stanno mute
sono punti neri sul filo della luce

Antonietta in silenzio la spegne
poi, a goccia a goccia se ne scende
sulla candela solo, interminabile
il pianto.

venerdì 14 giugno 2013

parole scomposte, 4

martedì, 29 marzo 2011
Perché ''parole scomposte''? Microfratture senza controllo né ritegno, buttate lì, quasi a volermi fare del male... In fondo, scomposte o meno, sono solo parole; anche se qualcuno le paragona alle pietre...

la pioggia d'un bacio
in minuscoli affondi
allontana le labbra
si rituffano gli occhi

a ricordare,
attraverso le labbra

sono piccole stanze e chiuse
con cura
lascia che cada
la chiave di là dalla grata

del tuo stelo trattengo
un disegno di rami
e mandorli al suolo

solo le mani sanno del tuo sapore.

giovedì 13 giugno 2013

Enza, Enza, Enza!!!

   ...E poi un giorno ho tagliato per quel di (corté camino por aquel de, he tagghjàtu nta chiru 'e) Tassone, dove sostava da tempo immemorabile una mietitrebbia, al centro di uno spiazzo adibito a campetto di calcio, in terra battuta a forza di randellate e spiticchj (svarioni, lisci), e con Carminuzzu, fratello di canàtima Nicudemu (mio cognato Nicodemo), me ne andai, quasi esplorando un nuovo mondo, a giocare a pallone a Piazza Rossa (così ridenominata causa covo di comunisti: si chiama in effetti Piazza Cremissa), tutti scàuzi e sudatìzzi (scalzi e sudaticci) già prima di cominciare, e subito pronti a bestemmiare. Alla Stazione non giocavamo a pallone a quel modo... al confronto avevamo un atteggiamento, un aplomb, quasi british... cioè, qualche pallone lo perdevamo senza sgambettare (fare u crocconcinu) a nessuno, e senza bestemmiare Iddìo e lor parenti, a coloro che avessero osato depredarci della sfera. Non solo, come se non bastasse, con Carminuzzu andai a giocare a pallone sulla spiaggia... io che odio la sabbia tra le dita dei piedi! La porta era costituita da due canne un po' infisse nella sabbia, un po' sostenute da sassi... la porta era ad altezza variabile... era solidale col portiere, più questi era basso, più in basso bisognava segnare, e se era alto, erano affari suoi, peggio per lui. Ad ogni modo le dispute sul conteggio delle reti erano interminabili, e spesso venivano attribuite ricorrendo ad una legge infallibile: quella del più forte, che spesso era applicata dal proprietario del pallone, ma questo è solo un particolare.

   Di quella partita ricordo due cose: che tutti urlavano, in autoradiocronaca 'Mazzola, Mazzola, Mazzola...', poi passavano 'la parola' al successivo portatore di palla che cominciava con 'Rivera, Rivera, Rivera', e così via... A dire il vero il pallone me lo vedevo solo passare davanti, non ho avuto neanche il tempo di dire 'Fanello, Fanello, Fanello...', che tanto quei piccoli satanassi mi avrebbero detto 'e chi cazz' è'?... e come glielo avrei potuto dire che Fanello da Pizzo Calabro era l'unico calciatore calabrese che conoscevo, e che volevo essere come lui, piuttosto che 'nu cazz' 'e polentonu'? Tutto sommato fu meglio così, non prendere né palla, né parola, e nemmeno soprannomi. Ma infine qualcosa avvenne che ancora oggi non dimentico: le furie descamisade urlavano ogni due per tre un nome: Enza, Enza, Enza! Si fermavano, litigavano un po', e poi battevano un calcio di punizione ('pulizziòna) senza mai smettere di strillare... Non osai domandare chi o cosa fosse questa 'Enza' e quali poteri o funzioni avesse...
   Solo molti anni più tardi mi resi conto che non chiamavano 'Enza', quei maladetti, ma parlavano slang, non di Piazza Rossa, ma british... dicevano 'Hands, Hands, Hands', insomma reclamavano per un fallo di mani... E' tutto documentato: la parola 'hands' non ha avuto la stessa, inossidabile fortuna di 'corner', ma c'è stato un tempo in cui ha avuto i suoi momenti di gloria anche al di fuori della natìa Inghilterra.
   Il guaio è che questa storiella mi sovvenne in un pomeriggio d'agosto, all'ombra di un oleandro, con il Cirò, inteso come vino, che se ne andava bighellonando nella mia testa, accomiatandosi dalle mie trippe, e insomma, io non parlo mai nel sonno, solo qualche volta... ma quella volta devo aver parlato tanto, al punto che sentii qualcuno che mi domandava come stessi e cosa volessi... era mia cognata. 

   Come si chiama non ve lo dico, anzi, non lo ripeto,  neanche sotto tortura...

mercoledì 12 giugno 2013

84 anni, la corda/ a corda

sabato, 24 luglio 2010
La rimetto qui, per te che ora sei a letto, e non so quanta fatica occorre per mettere a letto 84 anni vissuti qui e così, e quanto costa tirarli giù dal letto, ogni mattina, quegli anni su quelle gambe che ormai tremano; la rimetto qui per tutte le volte che la stoltezza del momento avrebbe voluto avere ragione delle tue richieste inespresse. La metto qui per il tuo scialle blu di più di quarant'anni fa, quando più che il freddo mi gelava la paura.
a vesta nìvura e u sinàlu
tisa com s'ancòra iddu ti chiamàssa
per ogne bisognu

stasira cu cielu mi para chjù rannu
o purament mi parra
chjù 'e tann
quann' a luna mi špiava di pàmpini du grasòmulu

doppu ca tuttu avìjnu tagghjàtu, o quasi
e ni rimana sulu na cosa,
para na corda tisa
ma 'un sagghjia, né scinna
e na corda un fà na šcala

mò si vìdin i parm d'a staziòna
abbannunati
tutt' abbannunati
ca un zi càccin bigghjetti e chiù nessunu parta
un c'è nessuna arta 'e su jìr e benìr
rimànin sul grasomul 'nterra
du peru tagghjiatu
fràdici
ca mancu i furmiculi si c'accùcchjn

un c'è rimast nent
'ncun rumùru
'ncun canu
'ncuna gatta cu a cura tagghijàta
e lucèrtul, turturèdd, cicàl

minn volìssa ghjìr
...ma c'è chira cosa
para na corda ca mi tena
o penzca è na šcala
e ci si tu ca a teni
ccù i spadd au muru
nìvura e tisa, cur u luttu 'ncodd, e u sinàlu
e c'è papà c'ancora addimmùra a ni lassàr
sul ca mò, a casa sò è ntu palummàru.


La veste nera e il grembiule
tesa come se ancora lui ti potesse chiamare
per ogni motivo

questa sera che il cielo mi sembra più grande
e pure che mi parli
più di allora, quando la luna mi spiava dalle foglie dell'albicocco

dopo che tutto avevano tagliato o quasi
e ne rimane solo una cosa,
sembra una corda tesa
ma non sale né scende
e una corda non è una scala

ora si vedono le palme della stazione
abbandonate
tutto abbandonato
non si staccano più biglietti e più nessuno parte
non c'è nessuna arte in questo andare e venire
rimangono solo albicocche a terra
dell'albero tagliato
così marce che neanche le formiche si avvicinano

non c'è rimasto nulla
qualche rumore
qualche cane
qualche gatto dalla coda tagliata
e lucertole, tortorelle, cicale

vorrei andarmene
...ma c'è quella cosa
sembra una corda che mi trattiene
o forse è una scala
e poi ci sei tu che la sostieni
con le spalle al muro
nera e pronta con il lutto addosso, e il grembiule
e c'è papà che non si decide a lasciarci
solo che ora, la casa sua è nel camposanto.


Lirios, traduzioni personali

Lirios, por Andrés Augusto Vicente.

quiero irme
al lugar donde los muertos no ponen preguntas
sólo encogiéndose de hombros, entienden
ya son la mayoría, y lo saben
dejan a los sobrevivientes el milagro
impreso en la boca:
la palabra y alrededor
intacto su revés:
el silencio horizontal de los lirios
llevado por el viento.

voglio andarmene
nel luogo dove i morti non fanno domande
solo si stringono nelle spalle, capiscono
ormai sono in maggioranza, e lo sanno
lasciano ai sopravviventi il miracolo
impresso nella bocca:
la parola e intorno
intatto il suo contrario:
il silenzio orizzontale dei gigli
portati via dal vento. 13.5.12

martedì 11 giugno 2013

terza elementare

Sanno le notti d'ubbie
gradinare a panneggi
subbia gradina unghiello
resti d'impacci
e confinate carezze
segni che discendono
arrossa un rivolo
guarda
il cancello in ferro
deflagra nel ricordo
un pallone che si schianta
si potesse rabberciarne il cuoio!
come gli anni o i los alamos del lunedì
sera degli sceriffi

l'elettricista è ancora morto
dopo tant'anni
proprio dov'eravamo corsi a guardare
col grembiule e il muco
blu come una terza elementare
e il nastro tricolore
della foto, da sinistra accovacciati:
nomi no, svaniti
non li ricordo, desolato

aralìe sconfinate e occhi di fichi d'india
canne,
littorine in orgasmo sulla massicciata
rantola, su mischineddu
con i ramponi ancora ai piedi
del palo in legno
dove passava la luce
e solo per oggi, non richiesto
il lamento
in sua morte

oggi che il tempo classifica in ricordi gli sfregi

Santina viveva la sua terza elementare
bionda e minuta
tra lenoni e galline
pizzicava al cuore rischiare di sapere
faceva male
quel vecchio
l'unto
le coperte militari, i giacigli infami

a volte si ricompone
il quadro: Santina è salva
l'operaio si rialza
la littorina fischia
il tempo riparte
mi siedo e guardo
dentro i miei polpacci
dev'esserci un acido, dicono,
lattico:
che faccio?
22-1-2012

Forse il mio Sud, nella sua piccola vastità, rimane in parte a me oscuro; forse, molto similmente alla vita, non l'ho ben capito, o forse non sono riuscito, dell'uno e dell'altra, compiutamente a prendere possesso: peccato, potrei aggiungere, e poi domandarmi per chi o per che cosa, proprio come nell'analisi logica di un tempo, uno e basta, di tanti anni fa.
Quello sopra è un ricordo di ormai più di quarant'anni fa, la scuola erano due camere prese in affitto dal comune per ospitare -mi pare- un paio di classi, per noi che vivevamo lontano dal centro del paese; la scuola si trovava in un rione dove le dicerie di paese volevano che non si avvicinassero neanche i lupi, per paura degli abitanti...e pensare che ci andavo a scuola, in quella strada. Santina, purtroppo, non è inventata, non è la sola, e non sarà mai l'unica...ad avere una madre di quella fatta e di quella indigenza. Come sempre nella mia esistenza, davanti alla scuola, di là dalla strada sterrata, bordata di canne, correva - si fa per dire - la ferrovia, la mia eterna ferrovia sullo Jonio, con le sue automotrici a nafta - le littorine di ducesca memoria - che sembravano inseguire i pali della luce, sempre riuscendo sconfitte, nelle mie fantasie, da quei triplici, o più, fili sottesi ai pali di legno, da uno dei quali un brutto giorno si posò a terra un operaio, alla cui morte mai volli credere, ostinatamente imponendomi che fosse sempre e soltanto volato.
Ma i miei sono solo ricordi, nelle notti d'ubbie ometto gli sfregi, perché la memoria, in qualche modo si ricomponga, o perché non si faccia conoscere, come un invito sempre reiterato, tipico delle mie parti.
Ad ogni modo.
La storia della subbia, scalpello a punta, delle gradine, scalpello con dentini, degli unghielli, scalpelli per finitura, potevo risparmiarla ai miei tre -voglio esagerare- lettori: volevo dire tutt'altro, in effetti, con quell'inizio, ma quando butto giù qualcosa...non so mai dove vado a parare.
Ciao a tutti,
Cat.
Nota successiva: il post qui presentato faceva parte di 'Catablogario', il mio vecchio blog, poi dismesso insieme alla 'piattaforma' che lo ospitava, cioè Splinder. Il tono colloquiale è dovuto al fatto che all'epoca, non so perché, ricevevo molte visite e commenti; successivamente sono stato fatto oggetto -oggetto, non vittima - di un ferreo ostracismo, sul quale non ho nulla da ridire: sempre meglio che aderire ad una qualsiasi camarilla, per poetica - o sedicente tale - che sia.

domenica 9 giugno 2013

Una agenda smarrita. A railway tale.

Finirà, dunque, questo pomeriggio?
Quanti pomeriggi... trentuno anni di P/M/N, pomeriggio/ mattina/notte da trentuno anni, dal primo giorno 'di ferrovia', tranne quei quindici giorni in cui, essendo l'unico in possesso di una abilitazione che mi pare si chiamasse CCR - roba di carri e vetture da schedare - dovetti sostituire il capo dell'ufficio competente, dal momento che il collega più anziano di me, anche lui abilitato e al quale sarebbe spettato l'onore della sostituzione, era gravemente malato: quindici giorni di interminabile 'orario spezzato', una pena!
Trentuno anni, dicevo, in uno di quei pomeriggi in cui spesso sogno il mio scoglio greco, che avevo già battezzato Aghios Kathaldos, in cui sarei dovuto scappare con la mia pensione di ferroviere italiano, dopo diciannove anni sei mesi e un giorno, poche lire per mangiare e bere, tante dracme per comprarmi da leggere e scrivere, niente mogli, niente figli, una azzurrità immensa davanti agli occhi, solo, sul mio scoglio, con la cannetta da pesca, una asciugamani, due pomodori spaccati al sole, origano, qualche cipolla fresca...e invece eccomi qui, in piena 'padanìa', con treni che sfrecciano a centottanta all'ora, che se appena appena se ne ferma uno si fermano tutti quelli che più che seguirlo sembrano inseguirlo, con viaggiatori inferociti, tanto che anche i loro bagagli sembrano incazzati, con le mie carte miseramente cadute dal tavolo e mischiate irrimediabilmente... in pensione ci andrò, se il dio di questa parte del mondo lo vorrà, non prima dei sessanta, la moglie ce l'ho, di figli ne ho quattro, la lira e la dracma sono scomparse, e dovrebbe esserci l'euro, anche se spesso, diciamo così, latita.
Quindi addio Grecia, occorre cambiare i programmi in corsa.
Del resto, messa così, non posso tornare neanche in Calabria: non sarà come diceva mia madre, quando mi domandò dove fosse la Siberia, ché il figlio di non so chi lo avevano assunto nelle ferrovie e lo avevano destinato in Siberia, e hai voglia a cercare di convincerla che la Siberia è un pochino più in là di Udine, dove era destinato quel 'povareddu'... non sarà come diceva mia madre, ma da questa campagna di padania, proprio in pochi, del mio contingente, hanno fatto ritorno in patria... perché in fondo, cosa ci vuole a dirlo, che la mia patria (e ancor più 'matria') è la Calabria, che anche noi abbiamo avuto una diaspora, eccetera eccetera, e se poi vogliamo buttarla sulla globalizzazione, la massificazione, l'omologazione, vabbè, si può fare... tanto non gliene può fregare di meno a nessuno, di questi come di altri tempi...
Questi pensieri, ad ogni modo, non riescono a distrarmi dal servizio, e in fondo sono proprio pochi i momenti di possibile distrazione, in questi pomeriggi interminabili, giusto un'occhiata oltre i vetri della vedetta dell'ufficio, ma anche lì, l'occhio non si ferma mai, è troppo istruito ad inseguire la coda dei treni, a sentire qualche ostacolo sui binari, avvertire la presenza di viaggiatori oltre la fatidica 'linea gialla in attesa dei treni', 'non oltrepassare la linea gialla in attesa dei treni', 'non oltrepassare la..', tutti i santi giorni... anche nelle stazioncine deserte, ...'allontanarsi dal binario uno, treno in transito, è severamente vietato...': a trovarla una persona nei paraggi della stazione, anche pagando!
Un monito continuo, interminabili serie di rumori che mi lasciano tranquillo quando li sento e invece mi preoccupano quando mancano: qui dentro, ogni azione è contrassegnata da una suoneria, molto spesso non tacitabile, proprio come dicono i regolamenti, poiché qui tutto è regolamentato, forse anche i pensieri, e comunque dopo un po' di anni si comincia a pensare - e devi pensare - come un ferroviere, hai voglia di dire il contrario... e in fondo non c'è nulla di male, tutt'altro.
Qui si raccontano sempre gli stessi aneddoti, ad esempio quello del pastore che aveva legato la pecora alla sbarra del passaggio a livello (PL per gli amici), e che ovviamente la pecora, al sollevarsi delle barriere è rimasta appesa, con massimo sconforto del pastore medesimo, oppure quella del PL (un altro voglio sperare) che non si poteva chiudere perché era attraversato da un interminabile corteo funebre, e quindi il treno aveva 'maturato' (si dice proprio così, in gergo) del ritardo, attendendo al segnale... solo che erano circa le due di notte, un'ora un po' insolita per i funerali (ma ci sono i vampiri, in alternativa)... insomma storie di una ferrovia di altri tempi, dei tempi di cui quei poveruomini, tra loro molti ex reduci e combattenti, mi raccontavano, ad esempio di quando in questa stazione c'era stata la guerra, quella vera, e ogni tanto, nell'immediato dopoguerra, ci scappava ancora qualche fucilata, in mezzo allo scalo merci e tra le locomotive sgangherate, e di quando questa stessa stazione era molto più importante e c'erano addirittura tre macchine di manovra a vapore, e tutti i treni che dovevano deviare verso le linee diramate dovevano 'cambiare trazione', vale a dire sganciare una locomotiva a vapore e agganciarne una elettrica, oppure il contrario... ma anche questo è cambiato, e di molto!
Pensavo a cose del genere, quando, improvvisamente, irruppe una voce di donna, una bella voce di donna, che chiedeva aiuto, con toni quasi disperati...
I miei pensieri si interruppero immediatamente, già sfogliavo la rosa dei possibili motivi di quella disperazione... 1, dimenticato ombrello firmato sul treno, 2, dimenticati documenti, 3, portafogli con documenti, 4, portafogli con soldi e documenti (“ma non è per i soldi, non sono importanti, lo faccio per i documenti”), 5, telefonino, 6, notebook, 7-8-9-10, dimenticato sul treno parente in ordine decrescente di importanza.
“...Allora?”
Allora niente di tutto questo...
“Dimenticato agenda.”
“Si calmi signora... mi dica... si calmi, cosa ha dimenticato?”
“Agenda!”
“Dimenticato agenda, non sul treno, a Castel San Giovanni, nel bar tabacchi di fronte stazione.”
Ma perché parla come se fosse straniera, pensavo, di noi due è lei quella più italiana, mah...
“Aiutatemi, aiutatemi, vi prego!”
Ma cosa avrà questa agenda di così importante...
“Devo essere a Ravenna entro le sette di stasera, devo prendere i bambini all'istituto, quelle là non aspettano... come faccio... se prendo adesso la coincidenza, non posso tornare indietro a cercare l'agenda e se prendo il treno successivo... faccio tardi... vi prego, vi prego...”
Ma tu guarda...
(...E adesso entro in scena io!)
Questa qui, tanto a posto non deve essere, ma insomma...
E poi è pure una bella ragazza, devo ammetterlo, e quella camicetta leggera, diciamo che depone a suo favore, và...
Allora io:
1-Sguaino il telefono fisso, compongo il numero, a questo punto ai di lei occhi sto già salendo di qualche gradino, chiedo al collega se conosce il bar tabacchi e se può andare a chiedere dell'agenda (risposta affermativa: “do' il consenso per il locale - ma questo sarebbe lungo da spiegare- e appena transita vado, ti richiamo subito dopo”. )
Grazie, gentilissimo.”, - questo sono io che parlo.
2-Mi armo di telefono GSM-R, cioè prendo il telefonino di servizio, dài!, chiamo il capotreno dell'altro regionale che dovrà passare da Castel San Giovanni e gli chiedo se può prendere in consegna alla stazione di Castel San Giovanni (Castello per gli amici) una agenda che una viaggiatrice ha smarrito e che il CS (il capostazione) di Castello gli consegnerà: “grazie capo, gentilissimo!”.
La biondina sta prendendo un po' di colore: non capisco, ma mi adeguo...
3- Scatto a rispondere al collega di Castello che mi dice: “sì, l'agenda ce l'ho qui, è nera, copertina in pelle”, “bene, bene”, (a dopo lo spumante),” ho già parlato col CT (capotreno): nessun problema; ti ringrazio...
Penso: Ah, ti tratti bene, chi te l'ha regalata la Moleskine, eh? Il tuo maritino, voglio sperare...
La biondina che aveva cominciato a prendere colore, improvvisamente mi ricomincia a stingere...
”...e ora che altro c'è?!”
“...Ma i bambini, i bambini all'istituto! Non farò mai in tempo!”
Mentalmente mi accendo un sigaro, lei praticamente sviene, sparse le chiome, chiede di potersi sedere, non ce la fa più...
E questa dovrebbe crescere dei figli?...
Mi staglio in tutta la mia imponenza di coso di circa centosettanta centimetri in altezza (ometto, in pratica, pur omettendo la misura in larghezza), e in tutta la mia statuarietà dico alla giovane signora due punti: “tranquilla! stia tranquilla!“ (ma volevo dire: “tranquilla, pupa, ci penso io!”... ) “...capotreno dell'eurostar?, salve, capo, qui è la stazione di... (posso dirlo Piacenza ?), abbiamo un problema, c'è qui una signora in stato confusionale (in fondo è vero), ha perso il regionale per Ravenna e deve arrivare entro le sette di stasera, io non so come fare, puoi darmi una mano? la polizia ferroviaria no, non c'è, sono di scorta su un treno... va bene, grazie, allora la mando in testa al treno, gentilissimo, capo!”
Finalmente arriva l'agenda, portata dal capotreno del treno regionale di prima: ringraziamenti di rito.
“Ma ce la farò? Ce la farò?”
“Sine! Sì che ce la farà...”
Finalmente si siede, è spossata... e fortuna che ha fatto solo domande!
I miei colleghi nel frattempo si sono prodigati fino allo stremo per raggiungere il buffet della stazione per i meritati quindici minuti di insindacabile pausa caffè legalmente riconosciuta...
Ora è tutto a posto, abbiamo controllato anche gli orari di arrivo a Ravenna e la differenza, considerati i cambi a Bologna e Faenza, prendendo l'eurostar anziché il regionale si è annullata: arriverà alla stessa ora, con la sua agenda magari stretta al petto, con la sua giovinezza un po' impacciata, e abbraccerà i suoi bambini, rilassata...
Ma improvvisamente si alza e chiede arrossendo se può chiedermi una cosa, una sola...
“Posso baciarla?... La prego!”
Cade l'ultimo diaframma, le maestranze abbandonano per un attimo i picconi, l'immane mostro che aveva scavato la galleria tace per un momento, e la bella signora mi bacia, due soffi leggerissimi sulle guance...
Proprio mentre quei tre lì, sì, i miei colleghi, proprio loro, stanno rientrando con in mano la schedina del superenalotto appena giocata e mi guardano con la bocca semiaperta...
Ma per questa volta ho vinto io, anche se non ho capito subito che quella agenda era zeppa di poesie e appunti di una vita...
E allora buon viaggio, ragazza!
13 marzo 2010

venerdì 7 giugno 2013

questo cielo

Questo cielo
questa estate
intera tenerti per mano

Ci saranno in altri luoghi
così tante stelle che sembra
bastare alla vita
questa scia delle Orse
questo sciame di silenzi innumeri
cui non so dare un nome
nei miei pensieri che sanno d’anime e pane

Il minimo suono
sarebbe la fine che esplode

Mi nascondo e ti adoro
notte senza fine
cielo senza rotte
Dio di rovine e vite
di città insepolte

Resto nudo ai richiami

Sono in fine
il tuo immenso il tuo misero
amante
fisso a questa notte di luglio e a questa riva
d’oscuro Ionio e di sussurri
d’eucalipto
neri, null’altro.

31 luglio 2007

mercoledì 5 giugno 2013

Bergerac, Cyrano de

Il poeta vero dice quello che gli passa per la testa, e non sbaglia, al massimo deborda leggermente; anche quando si trova per qualsiasi motivo sprovvisto dei ferri del mestiere, egli è artefice, hacedor, risolve con parole, visioni, illuminazioni... Chi poeta vorrebbe esserlo si arrabatta, si arrampica, sfiora la poesia, lascia qualche graffio in superficie, non oltre, se non per caso o accidente o buona sorte; il poeta dice e non ha bisogno di spiegare, il dilettante vorrebbe spiegare e non dice, solo a volte si avvicina alla meta; fortunatamente non mi tocca nessuna delle due condizioni... se fossi stato un poeta e mi avessero chiesto di spiegare? Non avrei saputo farlo, ne sono convinto, non sarebbe stato facile governare ''il mezzo'', da dilettante invece posso muovermi, essere ''compatito'' e libero di non spiegare, poi che va da sé che si fa quel che si può... ma allora ci faccio o ci sono? La domanda è talmente sciocca che non ho avuto neanche il tempo di cercarla, si è presentata da sè... sottolineo che parlo di me e che chiunque può partecipare a quanto dico, purchè non si senta additato od offeso...
allora scrivo qualche parola per liberare ciò che ho dentro, ammesso che ciò che ho dentro sia ancora disponibile, se quel quid interiore non ha trovato altre bocche per esprimersi, o palati più consapevoli e fini... chissà!
Ho presente Cyrano, figura che amo, al di là degli eccessi e degli scatti d'ira, Cyrano mi ispira, sì, in questa cosetta effimera che è questo blog avevo aggiunto due parole che ho infine rimosso trovandole patetiche, in uno di quei giorni in cui vorrei cancellare tutto o tanto, e non parlo solo di parole... le due parole erano ''mon panache'', in italiano ''il mio pennacchio'', sono le ultime parole che Cyrano, il signore di Bergerac, forse dice all'amata che infine lo ha riconosciuto, nel momento in cui egli muore in un'aura di ricomposizione, quando lei finalmente ha capito... ma è tardi, Cyrano non può che morire, sparire, assentarsi, Cyrano è assenza, al massimo compresenza, deuteragonista;
dimenticavo che in effetti Cyrano non pronuncia quelle due parole, sono solo intuite in una traduzione italiana che è poi quella che possiedo e che nel complesso ho dimenticato; è Rossana che chiede, solo lei che chiede, e la risposta non arriva, è forse contenuta in un gesto, in una mano che vorrebbe ricevere il pennacchio... Cyrano, ferito, deve essere impresentabile, quel ''cappello'' serve a ricomporlo, è rotto in quella sua testa, colpito da una trave, a tradimento, proprio in quella testa che ha sognato l'amore e la luna; già, perchè del vero Cyrano, Savinien eccetera di Bergerac, ci rimane una piccola opera che parla degli stati della luna... e chi altri poteva cingersi di ampolle piene di rugiada per sollevarsi dalla terra fino alla luna, per cercare i dirimpettai dei terrestri impegnati a farsi beffe degli abitanti di questa piccola parte della galassia?
giudiziosamente, ho cancellato, ma non dimenticato, quelle due parole: ''mon panache'', ed ora vado a stendermi qui fuori, a guardare il cielo, senza sapere... per la prima volta ho individuato qualcosa che dovrebbe ricordarmi un grande carro, ma siccome non sono un poeta... ecco, direi che quel carro mi sembra più una grossa carriola, con due belle erre, e spero che fino al mattino si riempia di rugiada; qualche ampolla la trovo, è appena mezzanotte...

lunedì 3 giugno 2013

due pagine di diario (da 'catablogario')

domenica, 14 novembre 2010


diario, pagina 091110
oggi scriverò a te, pagina di diario che non sei riuscita a crescere, ad aver luogo, che non sei probabilmente mai nata.
Tu conosci da tempo i miei moti, e sai quando rimanere bianca. Come i pensieri, come a volte i miei cieli, i cieli in cui mi perdo, forse gli stessi dove, non vergata, mi abbandoni.
A volte sogno di possedere una rondine meravigliosa per scriverti o inciderti... ma la rondine non è strumento facile da usare, la rondine usata in maniera inadeguata lascia l'amaro in bocca e il cielo vuoto.
Tu lo sai, io non credo ai poeti, non ora, è stato un tempo per me interminabile, quello che mi ha condotto finalmente ad esaurire le parole...le presenti mi servono a mala pena per accomiatarmi da te, per dirti che nonostante tutto ci sei sempre stata e sempre ci sarai, mia pagina che scivoli verso il bianco definitivo...ma ora il nostro rapporto, come credo sia giusto, cambia, in maniera forse definitiva...
Mi sei stata compagna da sempre, da quella prima volta, dietro la chiesa matrice: tu -portavi ancora fogli a righe da seconda elementare- e lo Ionio di fronte, mite in quel giorno di primavera, benché il vento ti suggerisse movimenti che a fatica cercavo di controllare, pregandoti di accogliere le mie prime parole, i primi baci, le poche, faticosissime rime...Poi il tempo è passato, ne è passato abbastanza, ma tu no, sei rimasta... la poesia, l'ispirazione -se mai ci sono state- hanno scelto altre vie, altre bocche, altre carte intestate, a volte quelle dei veri poeti, altre volte quelle
di miseri teatranti finti tarantolati sulla via di Damasco... invece tu non hai dato retta, tu sapevi che in quanto pagina di diario avevi, come un angelo custode -a crederci!- un solo destinatario...anche se col tempo ha smesso di piacerti; conosco i tuoi silenzi, l'attesa di me, inevasa...e so che non puoi accettare le piccole cose, i compromessi, i miseri segni che a fatica ti lascio...
E allora il mio diario finisce qui, ora...forse meritavi di meglio, magari un miglior offerente...con te sono stato per quanto ho potuto, a modo mio, sincero...solo tu potevi capirlo, saperlo, e non hai parlato: io, per tuo tramite, non ho parlato, e te ne sono grato, delle tue righe immacolate, segnate solo e solo a volte da splendidi, fantasmagorici silenzi...
Lo so, ti parrà di sentirmi ancora, sarà più o meno come un leggero sfioramento, un attimo, ma la memoria non basta più, mi abbandona, non mi concede il tempo, quand'anche volessi, di scrivere ancora...i miei pensieri svaniscono, rapidi, in un piacere che si dissolve contestualmente (va bene se ti dico così?) al loro stesso realizzarsi...forse è il piacere di pensare, o del sogno ad occhi aperti, della visione cosciente...non so cosa sia, ma non riesco ad andare oltre me stesso, peccato, e tu sai che è anche per questo motivo se infine rinuncio a imprimerti altri segni: ho perso, il tempo mi ha vinto, la coazione a dimenticare ha preso il sopravvento sull'intenzione di non ricordare volutamente... è triste, è triste ammettere di essere finito in questo circolo vizioso che cancella la mia storia e la tua di quaderno negato ai versi...
Quel ragazzo che ti ha tenuto tra le mani tremanti tanto tempo fa non c'è più, anche tu lo hai confuso con questo tizio che cerca le lettere sulla tastiera, questo tale che in qualche modo ricorda di voi e che ha deciso di smettere di farsi carico delle vostre presenze...neanche per fastidio, forse semplicemente per un senso di vuoto, di estraniamento, di deserto che avanza...e che si tratti di pagina bianca o finestra vuota poco importa, è un altro il deserto, è di dentro, a mano a mano accartoccia fogli e chiude pagine di videoscrittura... Ti scrivo quel che segue, infine, come a dirti che non invento nulla:

Pagina in bianco.
Quale poesia, fra tutte le poesie,
pagina in bianco?
Un gesto che si allontani e si distacchi tanto
da captare l'impatto del sole alle finestre.

In questa pagina c'è solamente ansia che distrugge
un desiderio di cosa piana e bianca
un arco che si incurvi- sino che il pianto
di tutte le parole riesca a liberarmi.

(Sophia de Mello Breyner Andresen)

Ecco, una parvenza di poesia è stato, qualche rara volta anche per me, l'attimo, una sospensione, un essere ''altro'', ma sempre un attimo, di questo si è trattato...tu, mia pagina, credi pure agli altri, ai poeti: passato l'attimo essi tornano illusione e tu, come me per sempre e per un solo istante, bianca finzione.
Ciao.

diario, pagina 131110
… probabilmente quella che segue non era l'ultima pagina che avevo previsto. La memoria mi gioca scherzi né brutti né strani, semplici scherzi...imparare a non ricordare non è come dimenticare, credo, e mi ha recato qualche danno, ho finito col non ricordare davvero...come una certa memoria di computer, anche la mia è diventata una memoria volatile...pure, la definizione mi piace, mi piace pensare ad una memoria capace di volare, anche sulle miserie di cui io in quanto persona sono stato, mio malgrado o no, partecipe o testimone, o quello che sia...
Nello scriverti, cara pagina, nel negarti il candore del tuo meritato inutilizzo, vorrei parlarti di tante altre cose, anche di questa esperienza nel mondo dei blog, di cui non sapevo nulla fino a pochi mesi fa, e di cui torno a non sapere nulla da questo preciso momento, stessa sorte per quelle cose che ho tirato fuori dai cassetti, senza preoccuparmi neanche di liberarle dalla polvere, quelle cose che mi era parso di poter scrivere o di avere scritto, alle quali come allora non credo e da questo momento definitivamente; diciamo che è stata una esperienza particolare... una pietra sopra non si nega a nessuno, neanche al sottoscritto, spero, e spero sia una pietra di mare... almeno per il piacere sottile di sentire il sale sulle labbra, lo stesso della mia pelle, mi illudo di credere.
Mi ritraggo in te, nel tuo bianco, e quando vorrai ti parlerò ancora, so che mi risponderai perché mi capisci e non sai negarti e per me accetti il sacrificio delle tue righe...lo so, ti piegherai, ti poserai delicatamente dove vorrà l'aria, dove vorrà la forza con cui ti lancerò verso il tuo destino... troverai pace in uno di quei cestini verdi, di plastica a buon mercato, quelli trascurati in un qualsiasi angolo tra scrivanie di formica e porte dai cardini male oliati...i nostri uffici dove ti ho abbandonata tra un treno e l'altro, tra un ruggito di dentro e un fischio di locomotiva, troppe volte da tanto tempo, e per sempre da questo momento: non tornerai più a casa con me...ti lascio dove e come nasci, e se sarai poesia mi resterai nell'anima, tornerai con la memoria, nelle lacrime e nei sorrisi...e se non sarai poesia rimarrai sola nei cestini, e me dorrò, di non averti saputo dar vita...ma non ti lascerò per altre pagine.
Ora, se permetti, saluto quanti hanno avuto la pazienza di leggerti, di leggere te, io non c'entro nel tuo apparire in forma di righe, sono stato solo tuo strumento... quindi mi raccomando, saluta tutti, e nei modi dovuti: essi meritano, io no, e non perché ti lascio qui da sola, non so bene il motivo, ma sento che è ora di smettere.
La poesia ha chiuso i conti con me
Non sono io che metto fine a nulla
quanto a questo non mi faccio illusioni
volevo seguitare a poetare
ma è finita tutta l'ispirazione.
La poesia si è comportata bene
io mi son comportato molto male.
Cosa guadagno a dire
mi son portato bene
la poesia s'è comportata male
quando sapete che son io il colpevole.
Mi sta bene, sono stato un imbecille!

La poesia s'è comportata bene
io mi son comportato molto male
la poesia ha chiuso i conti con me.
(Nicanor Parra)

Me ne vado da me*
dalla pelle
ecco il rovescio, l'interno
i cassetti dove intesso
parole che al vento
stormiscono di amanti

me ne torno da me
a ricamare in canti
oscuri, angoli dove non entra mai
sola la luna

la accompagnano satelliti
i versi, l'accoglie
il mio abbandono

ma non entra più non entra
è ormai spenta
la mia luna di paglia non crede
non sa i nomi dei poeti
si è persa tra canne
la mia luna di paglia
fa il conto delle punte
sulle dita,
rimane poco,
qualche volto, qualche ferita.

*non ricordo nemmeno se e quando l'ho scritta... mah!

Anche quella sopra è senza titolo, non ne necessita o non lo merita...
Ancora un pensiero, piccolo piccolo a quanti, magari umanamente golosi di premi e riconoscimenti, volessero andare a leggere un raccontino di poche pagine, un nonnulla: ''I passi sulle impronte'', da ''Ottaedro'', di un certo J. Cortázar, del quale Neruda ebbe a dire qualcosa come ''chi non legge Cortázar è perduto''... io mi sono dimenticato di farlo, e va bene così. Del resto: io, cosa c'entro?
Ciao,
C.

e tu qui, da 'catablogario'

giovedì, 16 settembre 2010
Se dovessi ricordare di me parole mai dette, direi che mi piacerebbe vivere di solo sogno, di solo volo, di eternità tenute strette, ma io ''faccio'' solo parole. La differenza tra interessi e desideri è sempre più netta, ed io sono stato sempre dalla parte dei desideri. Diversamente, qui non ci sarei nemmeno, e neanche queste parole.
E tu qui,
dove c'è stato un tempo

entra per questa via
di toponomastica confusa
di periferie
di borghi annessi e in fretta sciolti
guarda i nomi
forse qualcuno ne ricordi
sono strani
sono vie e piazze
di colori di frutta di cose
sono gli ultimi viali
quelli che a voltarsi ci si sente soli
perduti, a fine corsa
o volo
entra per questi spini
passa per queste vene
è caldo il sangue
è di strada d'agosto
blu
o rossa
come da legenda
come da istruzioni annesse
lascia che ti parli la radice del cuore
importuno
vorrei farmi di soli vorrei
passarti come un dito sulle labbra,
disegnare un volto
ché il mio era finito
e non poteva sapere
che ogni linea tracciata
era un altro un unico confine.

Oggi provi a spezzarlo questo profilo di non luogo
ché già è stato quel tempo
che alberava viali sotto la linea dello sguardo
a fiori nuovi
e proiettava segni di avvenire
a ruota libera
sotto l'ala.

Ora che serri il tempo di un sorriso
e sussulti forse nello scatto dell'astuccio
con poca cura lo hai chiuso tra le dita
pensando a un'ossessione
l'amore che non s'attenua
oggi che sei lontana.

Rimangono le mie periferie
dagli ingressi inviolabili
a dare su strade senza nome
o innominabili.

Da queste porte non si alzano voli.
Si entra o si esce
ma indubitabilmente.

Poco fa, 15 settembre 2010.

a tempo debito

a tempo debito
segno
un'altra tacca
mi guardi
e con altri occhi mi segno
eccola
questa era la bocca
non può essere

sono stato solo solo un attimo

e tutto ciò che ho
ti è dovuto
è il tempo a tempo  a te debito

ché anche chiamarti vita, anche questo ti devo


ora che di squilibri mi trapassa

impareggiabile nel lato d'un trapezio obliquo
il filo sordo ad istoriare i giorni
quello che nella spola ormai mi segna a dito.

venerdi 30 luglio 2010