...E poi un giorno ho tagliato per quel di (corté camino por aquel de, he tagghjàtu nta chiru 'e)
Tassone, dove sostava da tempo immemorabile una mietitrebbia, al centro
di uno spiazzo adibito a campetto di calcio, in terra battuta a forza di
randellate e spiticchj (svarioni, lisci), e con Carminuzzu, fratello di
canàtima Nicudemu (mio cognato Nicodemo), me ne andai, quasi
esplorando un nuovo mondo, a giocare a
pallone a Piazza Rossa (così ridenominata causa covo di comunisti: si chiama in effetti
Piazza Cremissa), tutti scàuzi e sudatìzzi (scalzi e sudaticci) già
prima di cominciare, e subito pronti a bestemmiare. Alla Stazione non
giocavamo a pallone a quel modo... al confronto avevamo un
atteggiamento, un aplomb, quasi british... cioè, qualche pallone lo
perdevamo senza sgambettare (fare u crocconcinu) a nessuno, e senza
bestemmiare Iddìo e lor parenti, a coloro che avessero osato depredarci
della sfera. Non solo, come se non bastasse, con Carminuzzu andai a giocare a pallone sulla spiaggia... io che odio la sabbia tra le dita dei piedi! La porta era costituita da due
canne un po' infisse nella sabbia, un po' sostenute da sassi... la porta
era ad altezza variabile... era solidale col portiere, più questi era
basso, più in basso bisognava segnare, e se era alto, erano affari suoi, peggio per lui.
Ad ogni modo le dispute sul conteggio delle reti erano interminabili, e
spesso venivano attribuite ricorrendo ad una legge infallibile: quella
del più forte, che spesso era applicata dal proprietario del pallone, ma
questo è solo un particolare.
Di quella partita ricordo due cose:
che tutti urlavano, in autoradiocronaca 'Mazzola, Mazzola, Mazzola...',
poi passavano 'la parola' al successivo portatore di palla che
cominciava con 'Rivera, Rivera, Rivera', e così via... A dire il vero il
pallone me lo vedevo solo passare davanti, non ho avuto neanche il
tempo di dire 'Fanello, Fanello, Fanello...', che tanto quei piccoli
satanassi mi avrebbero detto 'e chi cazz' è'?... e come glielo avrei
potuto dire che Fanello da Pizzo Calabro era l'unico calciatore
calabrese che conoscevo, e che volevo essere come lui, piuttosto che 'nu
cazz' 'e polentonu'? Tutto sommato fu meglio così, non prendere né palla,
né parola, e nemmeno soprannomi. Ma infine qualcosa avvenne che ancora
oggi non dimentico: le furie descamisade urlavano ogni due per tre un
nome: Enza, Enza, Enza! Si fermavano, litigavano un po', e poi battevano
un calcio di punizione ('pulizziòna) senza mai smettere di strillare... Non osai
domandare chi o cosa fosse questa 'Enza' e quali poteri o funzioni
avesse...
Solo molti anni più tardi mi resi conto che non chiamavano
'Enza', quei maladetti, ma parlavano slang, non di Piazza Rossa, ma
british... dicevano 'Hands, Hands, Hands', insomma reclamavano per un
fallo di mani... E' tutto documentato: la parola 'hands' non ha avuto la stessa, inossidabile fortuna di 'corner', ma c'è stato un tempo in cui ha avuto i suoi momenti di gloria anche al di fuori della natìa Inghilterra.
Il guaio è che questa storiella mi sovvenne in un
pomeriggio d'agosto, all'ombra di un oleandro, con il Cirò, inteso come vino, che se ne andava bighellonando nella mia testa, accomiatandosi dalle mie trippe, e
insomma, io non parlo mai nel sonno, solo qualche volta... ma quella
volta devo aver parlato tanto, al punto che sentii qualcuno che mi domandava come
stessi e cosa volessi... era mia cognata.
Come si chiama non ve lo dico, anzi, non lo ripeto, neanche sotto tortura...
Caro Cataldo, il racconto è bellissimo ma il sogno con tua cognata Enza te lo sei inventato di sicuro. Per questa ragione è ancora più bello!
RispondiEliminaFrancesco Vizza
Forse il sogno è inventato... o quel Cirò era talmente dispettoso che mi ha fatto intendere come vere delle cose soltanto verosimili. Ma poi, per Enza sono un fratello minore e non mi meraviglierei se fosse successo veramente, che si fosse preoccupata per me e quello che dicevo nel sonno... quasi quasi glielo domando.
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