mercoledì 4 maggio 2022

A Vittorio Imbriani, y también al Ingeniero.

 

Sono passati quattro anni dall'ultimo post... potevo lasciarne passare tanti altri, tutti.
C. A. V. 

A Vittorio Imbriani, y también al Ingeniero.

 

    Cuando pisaba la tierra del corral, yo lo sabía bien, ya sabìa lo que aconteció, como se acabó, e tuttu u restu; sapìva ca sutta, non so a quale profondità, era, indistinta e infinita, una residenza de lo' mmuettos; il palazzo, la casa palazziata, il castello, quel che era, non distava molto, ne deducevo che con molta probabilità i suoi percettori di decime, i birri nelle loro monture, la canea asservita, potesse avere trovato riparo e fine al di sotto della superficie -sempre dura- che ero uso calpestare, di corsa, spesso, come se tra gli aghi di pino e le ancor tenere piante dei piedi nessuna frattura fosse possibile: provavo felicità e paura, forse ero già capace di pensare: pure, non riuscivo a smettere di pensare, né di star fermo: un ovunque di pace, desiderato o no, rimaneva irrealizzato.

    Los caballeros murieron allí, allí se quedaban, con sus boquitas de muertos antiguos, boquiabiertos, entreabiertos, spalancate...

    Acaso, pènzica, a pugnermi ca un fossero gli aghi dei pini, nel loro destino di stufa a legna, bensì le punte arruggiàte e arraggiatìzze dei loro puntali vari, speroni e stili, di vario genere e misura: allì estaban, le pantàsime che mi mozzicavano i carcagni, e también las plantas.

    A lungo ho combattuto contro le pantàsime, sempre il rumore delle catene mi ha accompagnato, preceduto, sopravanzato, camminato a lato, insediandosi qui, en el cerebro, en las sienes...

    Per combattere con il sonno dei fantasmi necesse est che la testa e il corpo sappiano vivere di una doppia vita, come fanno lo' mmuettos, del lado de acà e del lado de allá, come due emisferi di una stessa solitudine: es lo mimmo!

    Muchos agnos (sic) deppué, cuando ya los hilos se iban despilfarrando, otra casa, lejana, ajena... nuevos muertos, novi pantàsimi... A mulher, la mujer, a mugghjera, aveva un'aria compiaciuta, o algo parecido... ella ya vivò en aquella casa, casa muito grande, con àrboles, flores, plantas, e pavimenti con riggiòle, e fughe tra una riggiòla e l'altra.

    Ellas, las dos, la madre y su hija, sonreìan, nunca reían... Sapevano, certamente sapevano, lo dicevano i loro cenni d'intesa.

    El hombre y su cansancio, n'ata vota di fronte al bivio: la lotta o l'abbandono, entrambe attitudini naturali, resistere perché la mente resiste o finire perché il corpo finisce.

    Dalle fughe tra le riggiòle mi sembrava che qualcosa nascesse, che venisse fuori, qualcosa di vegetale, nella forma, come di stelo o pericàlu, cauliforme... ma di nessuna consistenza. Sant'Elmo, sì, domestici fuochi di Sant'Elmo.

    Afuera, rapaces, ciàule, cornacchie dallo stridore insostenibile, huecos perdidos, hondos, si inoltravano nei tufi della antica cattedrale, ora passati alla superstite torre vittima di tanti stili sovrapposti... In quel buio, le ombre, tante ombre, e paure, o asombro, stupore di paure antiche, quasi l'uomo, quello stanco di oggi, potesse comunicare col ragazzo stanco di futuro, quello di ieri, quello che in qualche modo, da qualche parte, devo essere stato.

Intanto mi godevo questo rinnovato, terrifico rumore di catene, nella notte, consapevole che sì, sotto i miei piedi, sotto il letto che mi ospitava, pacifici e forse assonnati nelle loro salme, gli antenati degli indigeni si godevano il loro riposo... dopo secoli, what else?

   Las mujeres, las dos, sonrieron... quizás... Fingevo di non intendere quella intesa, di non cogliere la fuga tra le riggiòle, i versi delle ciàule che aumentavano d'intensità, che diventavano vocìo, parole che si infrangevano dietro i vetri... e chissà se bastava aver chiuso a chiave le porte quando ancora era giorno, e se quella clausura sarebbe bastata fino all'alba, quando ogni cosa sarebbe tornata al suo posto.

    Ci alzeremo come se nulla fosse, o almeno lo spero.

 

Se avete letto fin qui, assumetevene la responsabilità... scherzavo.



domenica 18 marzo 2018

Un mese se ne è andato.

Un mese se ne è andato... E allora ti rinnovo un nostro ricordo. Tanto, ovunque tu sia, ti penso così forte che non puoi non sentirmi.
Tu facevi la quinta D, ed io la seconda, quel tuo ultimo anno di liceo.
Il liceo scientifico di Crotone, che allora non aveva nemmeno un nome –era ‘statale’ e basta: anche troppo, forse– era allocato in alcuni appartamenti di uno stabile preso in affitto, e distava circa un chilometro dalla stazione ferroviaria. Lungo quel percorso c’erano poche case, pochissime, e molte officine meccaniche o simili, come ancora oggi.
Le ragazze che tornavano alla stazione avevano sempre bisogno di camminare almeno a coppia, perché temevano i ragazzi che lavoravano in quelle officine, carrozzerie, o quello che erano... temevano gli sberleffi, gli sfottò, i lazzi, le intemperanze, o peggio, qualche avance o mano che si allungava, qualche pantalone che si abbassava...
Di solito tu tornavi con quella ragazza di Botricello, Cristina, serissima, che per un po’ aveva abitato nel nostro paese, anche lei figlia di ferroviere, zzu Peppinu Spina.
Ma quel giorno sapevo che lei non ci sarebbe stata al ritorno, sarebbe dovuta uscire prima, per cui saresti dovuta tornare con me...
Quel giorno cominciò a piovere, a piovere sempre più forte, a dirotto, e figurati se potevo avere un ombrello, non li uso nemmeno ora gli ombrelli...
All’uscita non ti ho vista, ho aspettato e aspettato, niente, niente di niente... e allora mi sono avviato verso la stazione, di corsa. Ho domandato a quelli che potevano conoscerti, nessuno ti aveva vista. Il tempo di rifiatare... e via di nuovo, sotto una pioggia come Dio la mandava, di corsa, fino al liceo... e poi un altro chilometro circa, con la milza che mi scoppiava, fino a Piazza Pitagora... niente, non c’era più nessuno sotto i portici dove gli studenti dei tanti paesi senza scuole superiori passeggiavamo in attesa dell’orario del pullman o del treno... niente di niente, e di nuovo di corsa fino alla stazione, con la lingua penzoloni e il cuore che non sapeva dove sbattere.
Giusto il tempo di stringere i denti di fronte agli sguardi divertiti dei temuti ‘discìpuli’ (apprendisti) delle officine che mi avevano visto fare avanti e indietro sotto il diluvio, e prendere il treno delle due, trafelato, fradicio di pioggia e arrivare a casa e trovarti già cambiata d’abiti (perché noi, al ritorno da scuola, dovevamo cambiarceli i vestiti, ché non si dovevano sporcare per tutta la settimana). 
- Anciulì???
- Sono tornata prima, col treno delle 11.30, mancava un professore, c’era anche Cristina...
- Meno male, a quell’ora non pioveva ancora, così non ti sei bagnata, per fortuna.
Lo avrei rifatto mille volte quell’avanti e indietro, senza fiatare, pur di saperti serena, pur di proteggerti.
Oggi no, oggi posso solo pensarti forte forte, più forte che posso, non posso altro. Non posso nulla che serva.
Anche ieri a Prato pioveva, nel tuo trigesimo e sulla tua tomba sommersa di fiori. Ha smesso giusto il tempo di salutarci, poi ha ripreso, senza dire nulla.
Nel 16 di marzo 2018.

Angela mia.
Da qualche parte nel tempo non avremo mai smesso di giocare alla bicicletta, piedi contro piedi sopra il letto, e a ridere, e ad essere gelosi di una carezza in più o in meno della mamma, o del tazzone di latte che a me sembrava sempre meno pieno di quello che toccava a te.
Vengo a trovarti, e hai sempre quegli occhi, di passerotto infinitamente rispettoso di tutto e di tutti, incapace di chiedere, di domandare, timorosa di fare rumore, infinitamente delicata, e dolce, sempre, come tu sai essere nei tuoi silenzi fatti di luce.
Era il 25 dicembre 2017.

giovedì 1 marzo 2018

e se penso a quella terra che ti avvolge

e se penso a quella terra che ti avvolge
chiudo gli occhi verso il cielo
e non sento che la neve sotto i piedi
e un rumore di tempo che si frange
vorrei immaginare dove sei ora
e mi devo fermare al ricordo di quelle tue
meravigliose mani
così strette nel loro intreccio
come una immagine di un giorno lontano delle Palme
che tu bambina mi aspettavi
con il sole negli occhi sul sagrato
della nostra piccola chiesa
troppo prossima alla strada
perché non ti partissi

poi tornano a premere i pensieri
verso quel punto di cui tu dicevi
ecco, qui mi hanno operata
non ce la farò
mi fa troppo male
e serenamente restavamo mano nella mano
senza dire altro

solo oggi, è così dolerci
di questo muro così profondo
da terra a cielo
da non veder più altro
che una trenodia di non ritorni
ed è così saperti
di là appena
da quel velo ostinato
a denudarci di speranza.


martedì 20 febbraio 2018

le così piccole mani

le così piccole mani
e oltre la madre e la donna
indovinarti bambina
e così bianca saperti
anche nel freddo che ormai avanzava
e di te ridisegnava i lineamenti seri
ma avulsi, anche ora, dal rigore che tendeva
a te l'agguato
e accarezzarti in tempo
tenerti negli occhi
per non lasciarti mai andar via
e scacciare i canapi che scendono
nella terra di un giorno di pioggia
-ché non potevano mancare
i fili silenziosi e amati
a salutarti, lenti, quasi carezze-

pure, mai ti sei allontanata
e quel tuo filo di voce ancora
m'avvolge al tuo pensiero
all'idea di te
che serri le labbra
e non cedi al lamento
mentre te ne vai delicatamente
e rimani
in quel luogo più profondo dell'anima
dove non urgono parole
e non occorre altro
che rivederti da dentro
come in un silenzio senza fine
bianca delle tue dita sempre più fredde
che carezzo ancora
ma senza disperare più
poiché oltre l'amore
noi
di più non possiamo.
5 marzo 1956-16 febbraio 2018.

giovedì 25 gennaio 2018

già non servono più

non hai più paura
solo sosti dinnanzi a una speranza senza porte
mi sveglio a tenerti la mano
e sei bambina
davanti a un sogno dove tu non hai occhi
ed io non so guidarti
e non si sente altro
che un fruscio forse
ma dolente
o ti lacera un silenzio che annuncia
il boato che segue al buio

già non servono più
le parole
tra noi sì intime
non hanno più luogo dove attendersi
e incontrarsi
rimaneva qualche raro cenno
portato via dall'amaro di essere
anima ingabbiata in una forma
che ha smesso di lottare.

lunedì 15 gennaio 2018

Vorrei che piovesse, tutto qui

Vorrei che piovesse, tutto qui
e che piovesse di una pioggia con cui poter parlare
del più o del meno
dei fili che non sanno più dove andare
e con quei fili poter camminare
per un tratto non troppo lungo da non saper tornare
né troppo breve al punto
che non valga la pena di provare.
Ma le cose passeranno
andranno via occhieggiando
lasciando il fastidio di tracce che indagare
ormai non val la pena.
Restano i silenzi, in fila disordinata
come bottiglie di quella rara volta
che nella vita forse licet insanire
oppure no
bisogna sempre seguire i propri piedi
anche quando si fermano
e nessuna pioggia viene a bagnarli
di quella meraviglia che saprebbe avvolgere
foglie, e rami
e indicare la via
del passo breve dal cielo alle latebre
quelle fatte di fenditure
e suolo che sembra dormire
invece duole
e pesa
sotto le scarpe chiodate al sole.

sabato 13 gennaio 2018

di quel nostro tempo così finito

di quel nostro tempo così finito
cui tanto i tuoi occhi appartengono
appaiono
isolati
quasi lampi, ma lenti
questi tuoi sguardi estremi
uguali a tutti gli altri
in cui muti ci riconoscemmo

è stato un ulteriore dono
questo tuo riconoscermi
e dal letto di dolore
pronunciare il mio nome
e indirizzarmi un bacio
facendo forza
tra le dita che ormai tremano

solo un attimo, di infinitamente triste gioia
poi ti sei adagiata di nuovo
su quel fondale avido di tua luce, tra le perle

Non ho che carezze, nessuna arma
che non sia il miracolo
o la speranza
Solo questo
rimanere a guardarti
imprigionando in me tutto ciò che posso
di questo tuo essere
angelo
così dolce che non ti servivano ali.