Sono andato a rovistare nella memoria e su qualche ripiano. Ho scelto
questo canto popolare del gruppo ‘Cantannu
Cuntu’, che mi ritrovo per casa quale frutto del fortunato acquisto di un
cd (‘Canzoni di campagna, di mare e
d’amore’) allegato ad un numero della rimpianta rivista ‘Avvenimenti’ di qualche (…eufemismo)
anno fa. Il nome del gruppo, ‘Cantannu Cuntu’ significa ‘Cantando Racconto’ e
mi sembra che renda abbastanza bene la funzione del canto di estrazione
popolare, che è sempre partecipativo e corale ed in certe realtà uno dei
pochissimi mezzi di aggregazione concessi al popolo da parte dell’organizzazione padronale, chiamiamola
così.
Il gruppo ‘Cantannu Cuntu’ è nato ed opera ad Acri, quello che si può
comunemente definire un ‘popoloso centro silano in provincia di Cosenza’. Io
sottolineerei, invece, che Acri è il paese natale di Vincenzo Padula (1819-1893),
prete, patriota e rivoluzionario, e che, nonostante tutto, questo paese è
abbastanza popoloso, forse perché ha avuto miglior sorte rispetto a comuni
vicini e che trovo ad esso assimilabili come San Giovanni in Fiore o Petilia
Policastro. Sono luohi d’emigrazione ai quali il tempo ha concesso poche
opportunità, fatti salvi i natali o la presenza di qualche personaggio
illustre, vedi il Padula stesso e Gioacchino da Fiore, e la bellezza e
salubrità dei luoghi. Non mi soffermerei sull’etichetta che qualifica
l’altopiano della Sila come ‘Svizzera d’Italia’, piuttosto ribadisco che questi
sono luoghi d’emigrazione ai quali ‘i padroni’ vicini e lontani hanno tolto tantissime vite e possibilità di
crescita: le gallerie autostradali italiane mormorano ancora, almeno per chi ne
è a conoscenza, il dialetto delle maestranze petiline cadute sul lavoro, come
le miniere di tutto il mondo rilasciano, per chi non vuole dimenticarli, i
richiami dei minatori sangiovannesi periti ovunque ci fosse da scavare, in
Belgio come a Monongah. Cantare tutto questo e fare in modo che questo patrimonio
intimamente culturale non vada smarrito è compito precipuo dei ‘ricercatori
musicali’, con ciò non sminuendo la componente ludica del canto, specie quando
associato al ballo popolare.
Trovo normalissimo, concludendo, che i canti di Calabria in buona parte
vertano sugli aspetti disperanti che derivano dalla separazione e dalla
lontananza, vale a dire emigrazione, brigantaggio, guerre e conseguenti
ostacoli alla realizzazione di quelli che si chiamano, senza dubbio né
vergogna, ‘amori’, quali che siano, in questa terra indurita dai millenni ma
che riesce sempre a sorprendere, anche in positivo. Una terra chiusa in sé
stessa, pensierosa, che nel proprio dialetto non contempla un equivalente
dell’italiano ‘ti amo’, un dialetto che ha scientemente omesso un tempo che in
altre lingue si chiama ‘futuro’: in calabrese non c’è, non cercatelo questo
‘tempo’.
Ho ricopiato il testo della canzone dal sito dei ‘Cantannu Cuntu’ e l’ho tradotto e annotato per quanti volessero
leggerlo.
BELLA CA A PARTENZA E’ CERTA E CHIARAbella che[1] la partenza è certa e
chiara
E NI PARTIRI NUA E' VENUTA
D’URAe[2] di andar via è venuta
l’ora
NA NEAVA MMIENZU U MEARI SI PRIPARAuna
nave[3] in mezzo al mare si
prepara
PENSA A SU CORI MIA NA DOLURUpensa
al cuore mio che si addolora[4]
PENSA A SU CORI MIA NA DOLURUpensa
al cuore mio che si addolora E VUA STAVITI BUONI AMICI E FREATI CARIe voi statemi bene amici e fratelli[5] cari
CA PARTU DUVU VO’ LA MIA
SVENTURAché vado dove
vuole la mia sventura[6]
CA PU MI VUATU E DICU MAMMA CARA ché poi ritorno e dico (6bis)mamma cara
BENEDICEMI I MUMENTI E L′URAbenedicimi
i momenti e l’ora (6ter)
BENEDICEMI I MUMENTI E L′URAbenedicimi
i momenti e l’ora
CA PARTU SUPRA MEARU E JACCU DUNNAché
parto sopra mare e fendo l’onda[7]
CA FAZZU A MIA PARTENZA DACRIMANNUe
affronto[8] la partenza lacrimando[9]
CA APPENA ARRIVU A CHILLU MEARU FUNNU e appena arrivo a quel mare profondo
SUBITU SCRIVU E DITTARA TI MANNUsubito
scrivo e nuove mie ti mando
SUBITU SCRIVU E DITTARA TI MANNUsubito
scrivo e nuove mie ti mando
SI VIU A ′NCUNU DE LU TUA PAISUse
vedo qualcuno del paese tuo[10]
CU LLI LACRIMI ALL′UOCCHI L′ADDIMMANNUcon le lacrime agli occhi gli domando[11]
SI UNN′E′ AMICU MI LU FAZZU AMICUse
non è un amico me lo faccio amico
GIOIA PPE TI MANNARI SALUTANNU o gioia, per mandarlo a salutarti[12]
SI GIUVANI TU VIDI CUMI E MMIAse
giovani tu vedi come me[13]
TU VASCIA L’UOCCHI E U LLU GUARDARItu
abbassa gli occhi e non guardarli
CA SI GESÙ CRISTU MI NNI FA VENIRIche
se gesù cristo mi fa tornare UGNE GUSTU CHI VU TE AJU E CACCIARIogni
tuo piacere ti devo soddisfare.[14]
[1]
L’incipit ‘bella che…’ sembra la ripresa di un discorso che ‘l’anima poetante’
sta intrattenendo con l’amata, una attitudine normalissima nel nostro modo di 'pensare calabro'.
[2]
Nel testo ‘’E’’, secondo me andrebbe preceduto da un apostrofo, poiché ritengo
che significhi ‘di’, che si pronuncia esattamente come ‘’e’’ congiunzione, ché,
se tale fosse, necessiterebbe di un ‘de’ che completerebbe il significato che
ho appena espresso.
[3]
L’esito linguistico ‘neava’ da nave, ‘meari’ da mare, mi ha stupito, credo che
farebbe (e magari l’ha fatta) la felicità di Gerhard Rohlfs, il grandissimo
filologo e glottologostudioso dei
dialetti italiani, calabresi e salentini in particolare
[4]
Traduco a senso, perché la costruzione non mi è chiara, o è diversa da quella
che mi aspettavo: presumevo di trovarmi di fronte un ‘pensa a su cori mia ca
n’ha doluru’, ma trovo senz’altro stimolanti queste differenze tra dialetti
(Cirò, il mio paese, è un po’ distante da Acri).
[5]
Per ‘freati’, fratelli, vale quanto detto sopra, ma al di là di questo dato,
siamo ad una svolta, nel testo: nella prima strofa è stata espressa quella
inevitabile ‘condanna’ alla partenza, ora è il momento di raccomandare a chi
rimane, fratelli ed amici, le cure verso l’amata.
[6]
Sventura, sua accettazione, e un filo di speranza, un empito fugace: parto
verso l’ignoto, ma poi torno; tu intanto benedicimi, mamma. (6bis) Forse c'è una separazione, ineliminabile per motivi ritmici, tra 'dicu' e 'mamma cara', nel senso che 'dicu' significa 'vi racconto', 'vi informo', al mio ritorno, ma quel 'dicu' si lega al vocativo seguente 'mamma cara': se fosse in fine di verso si potrebbe leggere come un enjambement, almeno credo. Diversamente avrebbe poco senso chiedere la benedizione dopo il ritorno, dal momento che quella benedizione deve il viatico per la partenza. (6ter)Qui e nel verso seguente, nel testo calabrese si riporta 'l'ura', a differenza di 'd'ura' come nel 2° verso della 1a strofa; non so se sia casuale o dovuto al fatto che la 'l' è preceduta da una 'e' che le impedisce di trasformarsi in 'd'.
[7]
‘E benedicimi per ogni istante, per ogni ora’, perché il mio viaggio è fitto di
insidie: parto ‘sopra mare’ (che Acri si trovi parecchio all’interno ha un suo
significato: il mare fa ancor più paura), e ‘jaccu’, cioè letteralmente
‘spacco’ (come direbbe esattamente e giustamente un boscaiolo silano; questo mi
ricorda il moto di speranza richiamato alla nota precedente) l’onda. Credo che
‘dunna’ potrebbe scriversi pure staccato, anche se mi piace leggere questa
fusione dell’articolo col sostantivo: la ‘elle ’ di ‘la’ con l’elisione è
diventata una ‘d’: ‘l’onda’ diventa ‘d’unna’; questo fenomeno della trasformazione
della ‘l’ in d è molto diffuso in provincia di Cosenza, come pure la
trasformazione di ‘l’, ‘ll’, in ‘u’, ad esempio in Rogliano (lampadina,
uampadina; gallina, gauina, con una ‘u’ più marcata).
[9]
E infatti, ‘lacrimando’diventa ‘dacrimannu’ e poco oltre ‘lettere’ produce
‘dìttara’.
[10]
L’innamorato si rivolge all’amata promettendole che appena arriva, manderà
notizie di sé, e appena incontrerà qualcuno del paese di lei, evidentemente
diverso, se lo renderà amico, se già non lo fosse, per farne un messaggero
d’amore e latore di saluti… altro che sms!
[11]
‘L’addimmannu’ è costrutto tipico: lo domando, nel senso di ‘gli domando’, con
una soluzione semplicissima: in questo dialetto ‘addimmannar’, in questa
accezione, è un verbo transitivo, tutto qui, con buona pace di chi storce il
naso di fronte a un ‘t’u ‘mparu iju’, ‘te lo insegno io’ , dove basterebbe dire
che ‘insegnare’ si traduce ‘mparare’… i false friends esistono anche tra
italiano e dialetti…
[12]
Anche questa è una costruzione idiomatica: ‘ti mannar a salutar’, che
letteralmente sarebbe ‘mandare te a salutare’…
[13]
Qui il discorso si fa per così dire più intimo, sanguigno: finora si è parlato
di distanza, solitudine, amore materno, tentativi di stabilire un contatto
‘alto’, ma poi la carne, la gelosia e il desiderio intervengono: se vedi
qualche (bel) giovane come me, abbassa gli occhi e non guardarlo, che se Dio mi
concede la grazia, torno e… ogni tua voglia la soddisfo io. La traduzione letterale
sarebbe ‘che se Gesù Cristo me ne fa venire a casa, ogni desiderio che vuoi te
lo devo cacciare’.
[14]
Nel testo in dialetto aggiungerei l’apostrofo dopo vu (vu’) e prima di e
(‘e cacciari).
Nota successiva: questo post ha raccolto migliaia di visite, diversamente dalle altre cose che annoto su questo blog, e questo mi fa piacere, non per visibilità personale, ma perché, evidentemente, ci sono parecchi appassionati che vogliono saperne di più a proposito di questo testo poetico (di musica non so nulla, e infatti non ne parlo, tutto sommato). Anch'io vorrei saperne di più, e se mi lascerete dei segni dei vostri graditi passaggi e dei vostri pensieri in merito, mi farete cosa graditissima...
'Riturnella' è un canto
popolare calabrese, molto meno noto di 'Calabrisella mia', riscoperto sul
finire degli anni '70 (del '900) dall'etnomusicologo cirotano Antonello Ricci (vedi video), di cui, nella mia poca conoscenza della materia musicale, segnalo 'La capra che
suona', libro scritto con Roberta Tucci. Successivamente questo 'canto popolare' è
stato reso relativamente famoso da Eugenio Bennato, con l'album 'Musicanova'.
Credo di poter dire che 'Riturnella' è un canto di estrazione popolare, ma non
'popolaresco' come 'Calabrisella mia', considerando tra l'altro che
'Riturnella' è stato riscoperto dal Ricci grazie alla memoria di una anziana
donna di Cirò, la signora Manciulina Pirito, che ne ricordava le parole, mentre 'Calabrisella mia', ad
esempio, io la conoscevo perché alle elementari me la fecero imparare a
memoria. E fecero bene, tra l'altro. AGGIUNTA NOTA IN CALCE AL POST.
Cliccando in alto, vicino alla barra del nome del blog, alcuni collegamenti a video di 'Riturnella' su Youtube.
Mi permetto di riproporre una traduzione annotata del
testo,cercando di spiegare il perché di talune
interpretazioni. Segnalo inoltre questo ottimo sito web: http://www.antiwarsongs.org
Tu rìnnina chi
vai
Tu rondine che vai
Tu rìnnina chi
vai
Tu rondine che vai
Lu maru
maru Per mari e mari[1]
Oi
riturnella O[2]
rondinella
Tu rìnnina chi vai lu maru
maru
Tu rondine che vai per mari e mari
Ferma quannu ti dicu
Ferma quanto[3] ti
dico
Ferma quannu ti dicu
Ferma quanto ti dico
Dui
paroli Due
parole
Oi
riturnella
Oh rondinella
Ferma quannu ti dicu dui paroli
Ferma quanto ti dico due parole
Corri a jettari
lu
Corri a gettare il
Corri a jettari
lu
Corri
a gettare il
Suspiru a mari Sospiro a mare
Oi
riturnella
Ohi rondinella
Corri a jettari lu suspiru a
mari
Corri a gettare il sospiro a mare[4]
Pe' vìdiri se mi
rišpunna E
guarda[5] se mi
risponde
Pe' vìdiri se mi rišpunna
E guarda se mi risponde
Lu mio
beni
Il bene mio[6]
Oi
riturnella
O
rondinella
Pe' vìdiri se mi rišpunna lu mio
beni E guarda[7] se mi
risponde il bene mio
Non mi rišpunna
annò,
Non mi
risponde, no[8]
Non mi rišpunna,
annò
Non mi risponde, no
È troppu
luntanu,
E’ troppo lontano
Oi
riturnella
Ohi rondinella
Non mi rišpunna, annò, è troppu luntanu Non mi risponde, no,
è troppo lontano
È sutt' a na
frišcura
E’ sotto una frescura[9]
È sutt'a na
frišcura
E’ sotto una frescura
Chi sta
durmennu,
Che
sta dormendo
Oi
riturnella
O rondinella
È sutt'a na frišcura chi sta
durmennu E’ sotto
una frescura che sta dormendo[10]
Poi si rivigghja
cu
Poi si
risveglia con
Poi si rivigghja
cu
Poi si
risveglia con
lu chjantu
all'occhi
Il
pianto agli occhi
Oi
riturnella
Oh
rondinella
Poi si rivigghja cu lu chjantu all'occhi
Poi si risveglia con il pianto agli occhi[11]
Si stuja l'occhi e
li
Si asciuga gli occhi e gli
Si stuja l'occhi e
li
Si asciuga gli occhi e gli
Passa lu
chjantu
Passa il pianto
Oi
riturnella
Oh rondinella
Si stuja l'occhi e li passa lu chjantu
Si
asciuga gli occhi e gli passa il pianto[12]
Piglia lu
muccaturu Prendi(gli)[13]
il fazzoletto
Piglia lu
muccaturu
Prendi(gli)[14] il fazzoletto
Lu vaju a
llavu Vado a lavarlo
Oi
riturnella Oh rondinella
Piglia lu muccaturu, lu vaju a llavu Prendi(gli) il fazzoletto, vado a
lavarlo
Poi ti lu špannu a nu Poi te lo stendo[15] ad
una
Poi ti lu špannu a
nu Poi te lo stendo ad una
Peru de
rosa
Pianta[16] di
rosa
Oi
riturnella Oh
rondinella
Poi ti lu špannu a nu peru de rosa Poi te lo stendo ad una pianta di
rosa
Poi ti lu mannu a
Na Poi te lo mando a Na
Poi ti lu mannu a
Na Poi te
lo mando a Na
puli a
stirare
Poli a stirare
Oi riturnella
Oh rondinella
Poi ti lu mannu a Napuli a stirare Poi te lo mando a Napoli a
stirare
Poi ti lu cogliu a
la
Poi te lo piego alla (16 bis)
Poi ti lu cogliu a
la Poi te lo piego alla
Napulitana
Napoletana
Oi
riturnella
Oh rondinella
Poi ti lu cogliu a la napulitana Poi te lo piego alla napoletana
[ Poi ti lu mannu
cu
[Poi te lo mando col[17]
Poi ti lu mannu
cu
Poi te lo mando col
Ventu a
purtari
Vento a
portare
Oi
riturnella
Oh
rondinella
Poi ti lu mannu cu ventu a purtari Poi te lo mando a portare col
vento[18]
Ventu va' portacellu Vai
vento e portaglielo
Ventu va' portacellu
Vai vento e portaglielo
A lu mio beni Al mio bene
Oi
riturnella Oh
rondinella
Ventu va' portacellu a lu mio beni ] Vai vento e portaglielo al mio bene[19]]
Mera pe' nun ti
cara Attenta[20] che non ti cada
Mera pe' nun ti
cara
Attenta che non ti cada
Pe' supra
mari
Di sopra al mare
Oi riturnella
Oh rondinella
Mera che nun ti cara pe' supra
mari Attenta
che non ti cada di sopra al mare
Ca perda li
sigilli
Ché perdi i sigilli[21]
Ca perda li
sigilli
Ché perdi i sigilli
De chistu
cori
Di questo cuore
Oi
riturnella
Oh rondinella
Ca perda li sigilli de chistu
cori. Ché
perdi i sigilli di questo cuore.
[1] Il raddoppiamento
lessicale è di uso comune e naturalissimo nei dialetti calabresi, sia nella
formazione di superlativi di aggettivi, come in italiano, ma anche,
diversamente da questo, nella formazione di complementi di moto per luogo, del
tipo ‘u maru mar’, lungo il mare, ‘a riva riva’, lungo la riva, ‘a rasa rasa’,
'camminare seguendo una linea radente i muri delle case, con circospezione, ‘a ruva ruva’,
per le strade del rione...
[2] Nel testo in calabrese
appare solo l’interiezione ‘Oi’: ritengo che ‘Oi’ si disponga a diverse
interpretazioni, relativamente alla diversa intonazione delle richieste rivolte
alla rondine; questo ho creduto di fare traducendo talvolta con ‘O’, talaltra
con ‘Ohi’, e ancora con ‘Oh’, a segnalare passaggi più o meno dolenti.
[3] La lezione ‘quannu’ non
mi trova d’accordo, nel senso che ritengo ‘quantu’ molto più coerente col testo
e con la parlata calabrese: quel ‘quantu’
significa ‘giusto il tempo di’, ‘solo il tempo che mi serve per…’ e collima
secondo me perfettamente con il tono invocativo del testo.
[4] Nel ‘gettare il sospiro a
mare’ trovo non del tutto peregrino un richiamo alla disperazione; del resto la
rondine non ha bisogno del mare per farsi portatrice del sospiro della voce
della amante che parla, ma è il mare nella sua immensità anche paurosa e distanziatrice che deve farsi ‘mezzo’ di quel sospiro. Annoto che mi sarei aspettato, in luogo di 'lu suspiru', ('il sospiro'), un 'su suspiru', ('questo sospiro'); tra l'altro l'uso di 'su', dimostrativo, è talmente diffuso che si preferisce e sovrappone all'articolo determinativo 'il', 'lo'.
[5] ‘Pe' vìdiri’, in realtà il
raddoppiamento fonosintattico è inevitabile, raddoppiandosi la ‘p’ iniziale, e
trasformandosi la ‘v’ in una ‘b’ (ppe' bìdir), altrimenti l’accento si sposta
sulla seconda ‘i’ con raddoppiamento della ‘v’: pe' vvidìr, fenomeno che posso
attestare senza ombra di dubbio nel dialetto di Cirò/Cirò Marina. Il
significato di ‘vidir ca’ è ‘vedi che’, ‘stai attento, bada, guarda, controlla che…’
[6] ‘Lu mio beni’ è forma ‘culturale’,
dal momento che la dizione comune è ‘u benu meju’, ‘u benu mè’. Come dire: ‘mio’,
in calabrese, non credo esista.
[7] Ritorno un attimo sul
dialetto in uso nel testo: date per scontate contaminazioni tra varie parlate
di Calabria, quel verbo all’infinito retto da un ‘ppe'’ restringe alquanto l’areale
dialettale, escludendo tutta la
Calabria a sud di Crotone, dove, come già attestato nella
grammatica di D’Ovidio e Meyer-Lubke, inizi '900, si dovrebbe leggere un ‘ppe' mu’ oppure 'ppe' ma', quindi ‘ppe' mu/ma vidi’, ‘ppe' nu mu vidi’.
[8] ‘Annò’ non mi trova
assolutamente d’accordo, è solo il legamento, la continuità fonica, tra ‘rišpunna’ e ‘no’, che essendo
raddoppiato inizialmente suona come un annò: ‘non mi rišpunna, nnò’ (oppure: ‘umm’
arrišpunna,
nnò).
[9] La traduco con ‘frescura’,
questa ombra riposante, magari prodotta da un albero o una pergola, dove l’amato
lontano è colto dal sonno per le fatiche del corpo e dell’anima, e magari anche
per lenire le pene d’amore, considerando il risveglio.
[10] Qui voglio immaginare che
la rondinella sia arrivata sul luogo dell’amato e che la voce parlante sia
quasi trattenuta, frenata da quel sonno di cui ‘il mio bene’ ha bisogno, anche
se costa una nota di malinconia nell’invocazione…
[11]E infatti il sogno dell’amato era animato e
percorso dal ricordo della donna ‘poetante’, sicché egli si sveglia e asciuga le
lacrime dagli occhi: è stato solo un attimo quel timore avvertito nelle strofe
precedenti, quella paura che la voce non potesse essere udita per la troppa
distanza.
[12] ‘Passare il pianto’ è
costruzione simile all’italiano ‘Passare l’appetito’, ad esempio.
[13]Il desiderio si sta compiendo: ora la rondine
dovrà prendere il fazzoletto che trattiene le lacrime dell’amato e portarlo
alla innamorata perché possa lavarlo, stirarlo e ripiegarlo secondo un preciso rituale,
addirittura inclusivo di un viaggio di andata e ritorno fino ad una Napoli
lontanissima, a quei tempi irraggiungibile ai più, capitale del Regno.
[14] Non escluderei una
lettura di quell’articolo ‘lu’ con un dimostrativo ‘ddu’, quello.
[15] Nel senso specifico di ‘sciorinare’. Quel 'te' di 'te lo stendo' è un dativo etico.
[16]In dialetto calabrese ‘peru’ è propriamente
piede, in tutte le comuni accezioni, e albero, pianta: ‘per(u) ‘e rosa’ quindi significherebbe
più precisamente ‘albero di rosa’, ma in questo contesto indica la pianta della rosa, il rosaio. (16 bis) Còglir,
cògghir, cogghjìr, ha vari significati: qui è senza dubbio piegare,
come dicesi dei panni asciutti, anche se non è del tutto peregrina una
traduzione che preveda il significato di 'raccogliere', nel senso di
'ritirare' il fazzoletto dal rosaio dove è stato steso (spannùtu).
[17] E’ quasi superfluo
annotare che i due ‘cu’ corrispondenti, nell’originale, sono sottoposti a
raddoppiamento: ‘ccu’, ‘con’.
[18] Altra tipica costruzione
idiomatica, dove nell'uso di 'mando' seguito dal verbo all'infinito si potrebbe anche avvertire qualcosa di pleonastico: te lo mando a portare con il vento (complemento di mezzo, ma, volendo modificare la costruzione, si potrebbe leggere come un complemento di causa efficiente, anche).
[19] Le strofe in rosso non
sono presenti nella versione musicata dall’ottimo Eugenio Bennato; aggiungo un ‘purtroppo’,
in quanto queste due strofe sono altamente esplicative dell’azione: al vento e
al viaggio in senso inverso della rondinella viene affidato quel fazzoletto
affinché torni dall’amato proprietario, dopo aver provato le cure amorose della
donna.
[20] ‘Merar’ è ‘guardare’, nelle
sue varie accezioni, come in spagnolo e nel latino da cui deriva con l’italiano
‘mirare’. Ma significa anche ‘guardare’ nel senso di ‘fare attenzione che/a…’.
Altra costruzione sintattica richiederebbe un ‘mera ca un ti cada…’
[21] E quindi l’invocazione
finale alla rondine risulta essere che la stessa faccia attenzione, in quel
viaggio di ritorno, che non cada in mare quel fazzoletto che è il depositario
di quei sigilli del cuore della donna. ‘Sigillare’ è un termine di grande
portata in dialetto calabrese, come un sinonimo di chiusura totale ad una ‘alterità’
alla quale non è permesso in alcun modo di intromettersi nella vita dei ‘custodi/depositari’
di quei sigilli. Nota finale, un po' a sorpresa...
Insomma, io non volevo dirlo, facevo finta di non capirlo, ma 'Riturnella' non mi pare proprio che in 'calabrese' significhi 'Rondinella'. 'Rondine' si dice 'rìnnina' (i giovani dicono semplicemente 'ròndina'), rondinella si dice 'rinninèdda', e 'rinninùnu' è un grosso maschio di rondine. 'Riturnella', secondo me, si deve intendere 'A riturnella', dove 'A' non è l'articolo determinativo calabrese per 'la', ma indica una 'maniera di', un particolare tipo di canto, incentrato sulla presenza di ritornelli. Mi sbaglierò, ma credo proprio che sia così. Anche se la crasi, nel senso di fusione, rondinella-riturnella è accattivante, oltre che sapientemente dosata.