giovedì 12 luglio 2012

i latrati tutta notte

i latrati tutta notte sentivo
e più forte
una mano stretta
invincibile, come di madre eterna

la canea non si è sciolta
a tutt'oggi la sento
ma come attutita
o mi disinteresso al nero di viuzza
quasi meschino
alle code che si trascinano
alle lingue che in polvere schiamazzano

la mano, invece
quella mi intesse
mi parla di un'origine
di una forza
mi nega all'abbandono

e pure, tra la mano e i latrati
la memoria si scompone
la mano si fa velo, d'acqua sugli occhi
chini.

    Ecco, un altro minuto per un ricordo che si innesta su una paura infantile, cioè quella dei randagi che spadroneggiavano quasi ululando per le vie della notte...erano proprio tanti, i cani, li immagino quasi organizzati in bande; la mano ovviamente era quella materna; il resto è forse una riflessione, o paragone, senza scomodare l'allegoria che richiede maggiore preparazione poetico-formale, o la metafora.  Minuto scaduto.

tempie alle mani

tempie alle mani
ti rileggo quasi
dalle tue pendici
dove la luce si fa strada
alle sette camere d'oro

ho gli occhi sporchi e le mani
'a vòcula non scende
e in volto mi s'apprende
fissa
una spera di sole

un disegno di gonne e scarpe
bianche
e denti che brillano di risa
occhi di gioia e piccoli scatti di furbizia

la pianta turgida d'olive
e 'a vocula che sale e scende
un ometto paziente che spinge e aiuta
nel salire e scendere
non sembra vero
nè una rampogna, una bestemmia

e 'a vòcula che sale, sale
fino a notte
al sonno sotto il tetto incannicciato

lo rileggo, quel giorno,
solo la luce non cambia
e le sette camere, d'oro pieno.

   Madonna d'Itria è un santuario che ho sempre visto da casa dei miei, e salutato, mattina e sera, mormorando qualcosa che mia madre mi aveva insegnato... ancora oggi: è più forte di me.
   E' il ricordo di una bella giornata, di quando ero bambino. Secondo tradizione si ascendeva a piedi, tra rovi e cespugli, in forte acclività, fino alla sommità del colle, dove era situata una chiesetta diruta, sul luogo dell'attuale santuario. All'epoca tale chiesetta presentava un tetto pericolante, fatto di canne e argilla, e lì, incuranti dei rischi, i paesani pernottavano dopo aver trascorso la giornata tra gli ulivi circostanti. Tra i giochi 'a vòcula (oppure vòcula abbàsc), ovvero l'altalena approntata legando una corda ad un ramo di ulivo eletto allo scopo.
   Le sette camere d'oro ricorrono spesso nella favolistica, non solo del mio paese.
   Aggiungo che Madonna d'Itria è sempre stato per me un problema per così dire linguistico, tanto essendo corrotta la voce nell'idioma locale da diventare 'Madonna Rita'...e se poi si aggiunge la devozione a Santa Rita, che in qualche modo era anche legata allo stesso santuario...una confusione! Ma tant'è...oggi tutto questo non esiste più, quanto a riti religiosi, e la collina del santuario, manco a dirlo, sta franando...ulivi compresi!

mercoledì 11 luglio 2012

dove sono

dove sono
le cose finite
hanno appigli rivoltati
all'interno, ad evitare graffi

o le mani, quelle
si possono carezzare
e dire ancora che son belle
forse solo qualche macchia
ma non è nulla
se nulla invecchia a pelle
sul dorso della mano
solo s'attarda un guardo
lieve
poi riprende la carezza
o il ricordo

perché abbiamo vissuto

perché abbiamo vissuto soli
al centro del canneto, prigionieri
di bisce ed acque, e limi
e vivere non era solo vivere
ma stringere forte gli occhi
e non vedere, speranza di non essere
né visti
o sfiorati

l'abitudine ci sradica, prevista
dall'immobilità del tempo

ricresce la palude
e gli occhi, svogliati
studiano altri modi
per non vedere, o annuire

a mia madre

a mia madre
che mi raccontava gigli
a lei che porta
con la precisione del battito
i ricordi nel cuore
a mia madre che trasporto
come un pacco
per autostrade e punti di sosta
ché quello finale
è dopo la svolta
dove cresce, sola
la ginestra bianca*
lì, e in nessun altro luogo
a lei lèsino carezze
ché un'abitudine poi a mancare
è più amara legge che un caso raro


* la ginestra bianca, della quale risparmio il nome scientifico, cresce in una precisa località- quasi un punto- del mio paese (l'unico che potrei sentire come tale)

martedì 10 luglio 2012

m'illude il luogo

m'illude il luogo dove tocca
l'ancora, le marre silenziose
non tradiscono segreti
il fondo ne trattiene i fili
in polvere,
ordinati
muovono i calcoli
di un abaco bonario
ne risultano conchiglie
valve dove sussurra il mare
e segni di chiglia sulla pelle

tocca

tocca
sulla spalla, piccola
una paura
sveglia
attende vasto
lo specchio irriverente
tocca
qui o più in basso
dove non ricordi o forse
o chissà se c'era
o e se fosse?

e già a giorno

e già a giorno
tu a fiori
sul fondale rosa
una piccola sirena
oggi va sposa
all'attracco catene

un bicchiere, una rosa, una sposa sirena, catene
e le chiavi inchiodate alle porte
rigirano a vuoto le dita
le nocche, il nocchiere

domenica 8 luglio 2012

altra stagione

altra stagione
segue un vaporare d'orizzonte
lo contemplo nel tempo
il filo di fumo
nero che s'avvita
-è un bastimento, o era
e l'unghia del gabbiano
stride
sul coccio di granito
su questa spiaggia tra fitte di mille volti
dove nulla è scritto
e solo aria sale e non si stacca
dai corpi che in agone si rinnovano
nel rito antico di sabbie e sguardi
agili di ferite.


mi ami negli occhi

mi ami negli occhi
ché adori tra i colori
questo mio verde
sempre più indeciso
o, come più a fondo
opaco che non so dire

mi domandi un colore
ma quello che amo
è nei tuoi sogni
sono i tuoi segni che mi portano
lontano dove
ci teniamo le mani

le mani tenute

le mani tenute
in linea sul cuore
             gli occhi
dicono, lenti
di quel chiarore che anima
ogni tuo sorriso

ti dico, a volte
della fortuna d'esserti
padre
del tuo essere piccola e sogno
che ostinato tento
o indovino

è il tempo

è il tempo
o la patina innocente
la levità in pendio
i tratti acclivi han lasciato i segni
si colgono rughette
e in fondo a pelle
cos'era,
una guaina, un mondo
una tendenza  a unire
paure con timide speranze
i tentoni di un oscuro andare
e gli anditi, rigidi, più fondi sempre
e verdi, fondi di bottiglia
in un dolore, parietale
un posto dove stare
che biancheggia, asciuga
gli occhi che non cedono alle viste

sono pochi chicchi d'uva e spine
una mano che si vuota
una riva che decanta
i suoni e l'alba non cercano un senso
sono solo gli inizi
del danno, la pena

nessuna lingua

nessuna lingua
che l'oscura
questa che si dibatte
come in gabbia
che ripone artigli, che passa
tra gli avanzi d'ali

nessuna lingua
che non sia madre e inganno

le gabbie parlano
perfette
palizzate adamantine verso l'alto
verso un cielo senza tetti
dove svettano nubi
come acritiche
o solo inarrivabili
nessuna lingua per dirle
forse un anelito si svuota o un viatico
gli avanzi, un viaggio a rovesciare
tavolo e gabbia

esige un punto

esige un punto
esatto il tempo
dove posa il volo della rosa
 nel suo vestito di fiore e sposa
un tempo antico
di crepe a intenerire
pareti che l'edera ricopre
con tenacia il giorno
ricompone quadri
e tessere è di filo che dipana
le labbra nel vento increspano il profilo
e il ventre ancora agita
passioni che i fondali attraggono,
sono mari di cartapesta e rapresentazioni
o realtà lontane
di paralleli obbliati
ne rimane
un filo d'erba, uno stelo spezzato
un orlo di bicchiere
poche gocce salate

venerdì 6 luglio 2012

m'arricord ca

O calabro migrante, consacrato pel lavoro...
   Azz, questo è il primo rigo che ho scritto in vita mia, in prima media, guardando il mare alle spalle della chiesa madre, dove oggi hanno costruito il porto turistico di IV categoria, sotto lo sguardo un po' sconsolato del busto del glottologo Giuseppe Gangale, manco a dirlo esule da tanta postuma gloria locale; è il primo rigo che la memoria non si è peritata di cancellare, il solo superstite fortunatamente, di quella cosa che l'insegnante di inglese -la chiamavamo 'maga maghella', nel suo mascherarsi da Raffaella Carrà- mi fece leggere davanti ai compagni di classe, con mio sommo imbarazzo, moltiplicato per il numero dei presenti. E non solo, con tanto trasporto la povera donna propalò la notizia di quella apparizione poetica- quanto fulgida!- al resto del corpo insegnante... Per fortuna il professore di italiano, Domenico Avenoso da Cittanova, proprietario di Alfa Romeo Giulia 1300- un vero spettacolo!- smorzò gli entusiasmi, sentenziando con santissima ragione trattarsi non già di poesia quanto di prosa poetica... Azz! E qui lo viene a dire, questo? In mezzo a queste cape di ciuccio? E aggiunge pure che Cesare Pavese- l'amato!- era un esempio mirabile di prosa poetica o ritmata... mmeh! e mo'?!
   Il professore aveva ragione, anzi era stato molto generoso, forse come quella volta che mi disse che il compito in classe su Don Chisciotte voleva tenerlo per sé, che ne era rimasto colpito, che il voto che mi dava non aveva importanza alcuna, tanto più di dieci non poteva mettermi... proprio come il professore Don Ciccio Milano, che dopo tanto guardarci in cagnesco- sono stato anch'io un liceale, molto periferico in vero, degli anni settanta, figurarsi...- mi confessò, a denti stretti, che quando decideva le tracce dei compiti di italiano... beh sì, lo faceva pensando a me- a me!...
   La mia gloria letteraria è tutta qui.
   No, ora che ci penso, mi ricordo di una frase, qualcosa come 'ma no, non ci starà male, lui ha la poesia...'
   A ben guardare, cosa aggiungere? Sono solo ricordi, pinzellacchere diceva Totò!

solo transiti

solo transiti
realizzavo un tempo di itinerari
d'arrivo per i sogni
oggi è un verde che non ferma,
dai se si districa,
dai viluppi dirimenti
il binario, la corsa silenziosa che non parla
che ha il freddo di rotaia e dentro
il taglio, il bordo ferreo
l'occhieggiare in dirittura di un arrivo
pauroso che non concede nulla alla platea
quel rumore che fanno dentro
i pensieri
quando si sfascia l'ovatta e la ragione

un tempo diagonale di soli transiti
e volti oscuri
è la carezza tetra, l'incubo
nella notte che si parte
per altre lune
fredde, improvvise
come il rovescio di medaglia
che ruota e ruota
che non posa
che in esergo è abrasa.

giovedì 5 luglio 2012

nel noleggio di voli

nel noleggio di voli
stride
il rigore dei capoversi
i finali che si rabberciano da sé,
gli abbandoni, per delusione manifesta

scrivo queste poche righe
e che siano ultimative
senza scrima al mezzo
o consonanze sfoglie
tirate a stento
a limitare un universo o un rigo

il taglio dei giorni che in declino
negano gli accessi
con rigide chiusure
con l'ermetismo delle note micro
scopi che a corredo
reca
un topolino carico
di bastimenti
carichi
di fiori e frutta o quanto
quel tutto che rimane
ora che dimenticato è il resto



martedì 3 luglio 2012

si fa stelo il ricordo

si fa stelo il ricordo
precisa l'unghia cura
il mezzo della schiena
sussulti e affiorare
di fianchi e onde.

io non sono

io non sono
nel nome del padre
si sovvertono
legami che a stento mi tenevano
terra nel vento
e case dilapidate
ad arte si scompiglia l'esattezza dell'ordito
è pari al vicolo, sordo e cieco
la propina di vivere abbandona
quasi elegante il cerchio
è anello che si stringe
e rosa è nella polvere la gola...

dove sei

dove sei
ti muovi ancora
o per immagini
ti risospingo con affetto
e la memoria è protesi
ti aiuto a vivere e ancora
ad esserci
nel ricordo di parole
nel ripetersi di gesti
nelle somiglianze manifeste

m'importava il tuo modello
a volte furente
altre silenzioso
comunque mai spiegato
forse pensavi che non occorresse
che bastasse essere il padre

ma ti sussurro che sbagliavi
che non mi piegano le tue ragioni
nemmeno oggi
che le cose mi vivono di poca importanza
che mi concentro sulle scritte dorate
sui caratteri capitali,
sul ritocco che mi delude della tua foto

dov'eri
quando ancora ti muovevi
e la memoria preparava già il suo armamentario
di ricordi migliori e di momenti edificati ad arte
dov'eri quando smettesti racconti e interessi
dov'eri, ormai meraviglioso e già modello...



nel folto dei marmi


Nel folto dei marmi
un nuovo volto si accoda
lo fissa in un sorriso
un ritocco amaro, forse
di mano ferma
a imprimere la smorfia dell'addio

il cugino, invece
è in vetrina
fresco di preci
nel suo vestito, buono e inaspettato
altri
li mostra  un secondo piano
di requie consolidata
o forse di parentela più lontana

non disputano sulla fine
quale che sia, se più dura o più grande
ormai è fatta
anche i fiori
e i lutti
si lasciano andare
in plastica impolverata
-ma solo un velo
-e messe cantate

i marmi no, essi imperterriti
espongono le sorti
reggono l'altare di una curiosità assorta
come se sapere importasse,
come se ricordare non fosse anche un tempo
ozioso di risultanze astratte.

Dell'uso di esporre immagini a ricordo
3.7.12