giovedì 28 marzo 2013

dov'erravate

dove erravate parole
che tenere era lusso
e spreco un'energia
di rinnovato
interesse che a perdere solevo
solo
a giocare innumeri plessi
di nuvole e scomposte
aeree, azzurriformi
e tese dissonanze

già sconfinano
parole in foglie comode
di pratiche
confezioni che a dividere
oh, che semplici porzioni!
e fresche, come d'acqua-qua
le chesì a un senso, o non

se un foro, e puff!
mi attendo
che un calo sia
dovuto: è la natura delle cose
e poi altro?
non importa,
che l'etichetta
una parola
un detto
ma che stampigli
o meglio, purché sia
un fondo, un appiglio.

di piovere

di piovere non si finisce mai
solo l'attesa, a volte
penetra le radici
e scalza

martedì 19 marzo 2013

Esercizio dialettale.

quannu si rumpa u coru dì nnammuràti
u rèstin ca filazzòli spaturnàti
i petri petri trìchin sul paroli
ma un fan cimèntu
ch'i vasi, i muzzicùni
i carni muzzulàti si l'ha mpesàti u ventu
ccu l'animi ntà bùggia, riddùtt a pizzulùni.

quando si rompe il cuore degli innamorati
non restano che sfilacci senza padrone
tra pietra e pietra si attardano solo parole
che più non si cementano
poi che i baci, i morsi
le carni frementi se li è portati il vento
con le anime nella tasca, ridotte a un pizzicotto.

In dialetto rima, non me ne ero reso conto...AA BC DCD. 

venerdì 15 marzo 2013

benvenuta come la prima di maggio

m'attraversano luoghi di sole
parole in carta di rumori azzurre
cravatta interminabile, eleganza
che non s'apprende al cuore
una spilla appunto
come un passo da ricordo
a perpendicolo di strade
e intersezioni a fiori
e quadri
e sopravventi di silenzi;
una tasca indicibile
come una mano senza fine
una vite
accoglie i segni che il destino
altrimenti
mandava sottaciuti;
ma ora gli occhi
si aprono a un tempo
di grancassa nella primavera:
possa tu essere benvenuta
solitudine a festa
come la prima
a maggio*.

*'benvenuta come la prima di maggio' è, anzi era, un magnifico modo di dire del mio paese; risale ai tempi del feudalesimo, quando nel primo di maggio si dava l'avvio allo 'sbarro'. 



aria di marzo

e sento che arrivi, aria di marzo
come un cielo di nuovo, terso
in un abbraccio a metà di stelo

come di terra turgida
millesimale è il moto delle labbra
smuovono fibre
di rugiade e suoni, lire lievi e incanti
silenziosi chiamano
a raccolta gli spiragli che di luce
si fanno desiderio e pelle
di spina acuta e d'acanto


lunedì 11 marzo 2013

Sao ko kelle terre...

E allùra papà è sagghjùtu subba na cerza e ha fattu l'arrùcculu ari lupi, a Santu Jennàru. Tutti i lupi sun arrancàti, e papà e zzu Turuzzu si sù misi a ciànciri e a si disperàre. Santa Domìnica, ca si trovàva a passàr, ha ditt ari lupi: scavàti a cerza e facitili tummàre. Ma papà e zzu Turùzzu cchjù fort si sù mis a ciàncir e suppricàre. Santa Domìnica, allùra, ha ditt ari lupi dì lassare stare, e papà e u frati dopp 'e tannu, l'arrùcculu u'll'han cchjù volutu fare. Sulu Giulia canàtima è gghjùta ancòra a Santu Jennàru, a guvernàre a ciuccia, ma po' ha cessàtu, dopp ca na matìna ari quattru avìa sentutu u lupu e sinn'era abissàta d'a paura.

E allora mio padre è salito su una quercia e ha fatto il verso ai lupi, a S. Gennaro. Tutti i lupi sono accorsi, e papà e zio Salvatore si sono messi a piangere e a disperare. Santa Domenica, che si trovava a passare, ha detto ai lupi di scalzare le radici della quercia per farli cadere giù. Ma papà e zio Salvatore più forte si sono messi a piangere e supplicare. Santa Domenica, allora, ha detto ai lupi di lasciarli stare, e papà e suo fratello, da allora, non hanno più voluto fare il verso ai lupi. Solo Giulia mia cognata è andata ancora a S. Gennaro, ad accudire l'asina, ma poi ha smesso, dopo che una mattina alle quattro aveva udito il lupo ed era scappata via impaurita.

Sono passati quasi cinquant'anni, e mia madre mi ripete la storia, la sua storia, esattamente come la prima volta: e da ciò capisco che è tutto vero.

sabato 9 marzo 2013

le ultime due carrozze restano a crotone

(a mo' di note)

   Il primo bacio non si scorda mai... Ma giuro, sapeva d'aglio, e non ne avevo alcuna voglia, di concedermi a quell'alito; del resto, prima o poi da qualche parte bisognava pur cominciare, senza stare troppo a sottilizzare... qualcosa del genere mirassegnai pensare, risolvendomi a farlo, appena prima di scendere dal treno delle tre meno venti. Giusto il tempo di recriminare (ma quel bacio proprio d'aglio doveva sapere?!), e di sedermi per finire la pasta aglio e olio che mia madre mi aveva riservato, coperta da un piatto fondo perché non si freddasse troppo... <Tuttu bonu?> < E come, no, ci mancàssa àtru, ma'!!!>
   Il treno delle sette 'a matina' era un accelerato da Taranto, oggi potrei dire 'trainato da una 341 (locomotiva) prima serie, un carro Vir (serviva ad erogare il riscaldamento) e tre-quattro carrozze 'cento porte', di quelle i cui sportelli si aprivano controvento, coi sedili di legno e le luci interne che erano come dei piccoli lampioni; immancabile, tra le altre cose, la pubblicità che recitava 'il dolore è una catena, Veramon la spezza': una pubblicità al posto giusto, direi, a giudicare dal frastuono degli assali; l'erogazione del riscaldamento produceva delle nubi che invadevano i passaggi d'intercomunicazione delle vetture, al punto che ci voleva del coraggio per passare da una carrozza all'altra, quasi alla cieca; diversamente, quando il riscaldamento era spento e quindi non si era avvolti dalle nubi di vapore acqueo, attraverso le pedane si potevano vedere le traverse, le rotaie, i sassi della massicciata.... Molti ne erano impauriti, soprattutto le studentesse; almeno così, tra i risolini, dicevano, e costava poco sforzo prestarsi eroicamente ad aiutarle a passare da una carrozza all'altra. A volte, lo sforzo eroico si protraeva, sconfinando nei sogni di gloria e di conquista.
   I mari malati erano dovuti alle diverse colorazioni assunte dallo Jonio, a mano a mano che ci si avvicinava a Crotone, poiché l'inquinamento delle fabbriche si annunciava sin da Gabella Grande, che era la fermata prima della 'Città Pitagorica', secondo la definizione di tanta retorica locale.
   Quel mare tragicamente cangiante lo osservavamo con meraviglia, noi che provenendo da altri paesi di mare eravamo abituati ad un suo solo colore prevalente, azzurro, verde, grigio che fosse...
   Per molti anni le fabbriche di Crotone sono state le uniche in Calabria, ed il segno dell'alambicco era quello usato su atlanti e libri di geografia per indicare le industrie chimiche, sicché Crotone, con quello che all'epoca si chiamava 'Marchesato', - non esisteva ancora la sua provincia-, era diventata una enclave di comunisti in una regione democristiana. Qualcuno dice che in queste condizioni le industrie erano destinate a sparire, come è puntualmente avvenuto.
   E insomma, se torno a quei tempi, e penso a quelli attuali, in cui riaffiorano le scorie sulle quali sono state costruite scuole e strade, cosa potrei dire di più? Non saprei, troppi dati si elidono l'uno con l'altro, e non mi rimane molto, oltre ai ricordi e alla visione che di se stesso offre il deserto. Però penso e parlo in dialetto, e mangio la sardella, la mangerò sempre. E ho fatto pure proseliti, tra l'altro.
   Anche se ogni tanto mi risuona in testa quell'annuncio 'le ultime due vetture restano a Crotone', relativo al treno del ritorno, e non saprei dirlo, ma mi sembra che laggiù, tra le stoppie e i rovi che bordeggiavano i binari, qualcosa d'altro, di non solo mio, sia rimasto. E forse dovrei andare non dico a riprenderlo, ma a razionalizzarlo.

il primo bacio non lo scordo mai
perché sapeva d'aglio,
e di vapore acqueo,
di nubi incontrollate
tra vagoni delle sette per crotone
da valicare in fretta

ché si vedevano, dalle pedane
i legni attraversati in corsa
e fuori
gli occhi persi in mari malati
di tutti i colori dell'industria
che abominevole da Gabella
già annunciava zolfo e giallo
e ciminiere digrignate al cielo
ne risultava, scarno
un segno d'alambicco sull'atlante


qui produce, signori, decretava con orgoglio
a noi illusi di didascalie
la massima industria di calabria
in terra rossa da dentro alla balena bianca


se torno
quel primo segno di labbra
mi riga come un filo perso
in un inciampo di rovine estreme
a rinvenire scorie
e radiazioni in terra e mare
una moria di sogni
una festa che muore
tra ciminiere e campi,
come i sorrisi e le speranze, 
come lo zolfo mai riacceso, spenti.







parole trovate in tasca, capita...



Il vento tra i passi unisce
Valli
A sapere cosa spinge
Nelle corolle il fiore
Fatto
Attende nuove
Linfe che segnavano
Di reticoli e volti
Radi di giogaie negli occhi.

Nell’alto dei piani
L’acrocoro segnala il suo
Distare al cielo
Dove tumida di speranza preme
La nuvola nell’ultimo
Suo suolo.

domenica 3 marzo 2013

tanti auguri

citti citt, i paròl
van verz u campusànt
si pòsin
com lenzòl o sinn càdin
com mazz 'e chjòv

oj t'avìssa chjamàt
ppè rìdir 'e l'ann ammucciàt
com na crista cusùta stritta nti cosciàl
e di cunt fatt scus da zza Làura
a cannarùta tinta semp a sciùnnir u gghjòmmiru di jurn

t'he vist, ma un ti sacc
ccù su rosàr nti man
e manch nu zzapparèdd ppè ti spurijàr 'e su lignu ncuttu

tant'agurji, addùv tu si
a tutti i part, pur arrèt a nu màrmir e nu rosàr.

silenziose, lente, le parole
vanno verso il camposanto
si posano
come lenzuola o cadono
come mazzi di chiodi*

oggi ti avrei chiamato
per ridere degli anni nascosti
come una cresta* cucita fitta nelle tasche
e dei conti fatti di nascosto da zia Laura*
la golosa tinta a disfare il gomitolo dei giorni

ti ho visto, ma non ti so
con quel rosario in mano
e neanche una zappetta per distrarti da quel legno stretto

tanti auguri, dove tu sei
ovunque, anche dietro un marmo e un rosario.

* 'cadere come un mazzo di chiodi' significa caduta improvvisa, inarrestabile, tonfo;
* la cresta, tradotto, è la differenza tra il quanto si vorrebbe pagare e quello che si dovrebbe pagare; la differenza tra il conto degli anni effettivi e quelli che immancabilmente mio padre diceva, per scherzo, di avere;
* 'A zza Laura cannarùta' è la personificazione della morte.