mercoledì 29 aprile 2015

Due poesie di Matteo.

Due poesie di Matteo, Matteuccio, Matteone... sono cose di cui non parliamo quasi mai, le poesie e la poesia; quello che lui fa, quello che io non faccio.
I   
Piove.

Piove tra i sassi abbandonati
l'acqua corrode ma non smuove
la pigrizia della pietra
piove anche nei giorni assolati
gocce invisibili che il cuore non muove
a volte, è una bufera
quando nel cuore cala la sera.
II
Binari.

Riposano alla stazione
due binari, svuotati
dalla forza che prima
li traversava ruggente
sulle vie degli uomini.
Condividono l'attimo eterno,
scheletrici serpenti di ferro,
in attesa del treno
che scomparso
come il tempo
non torna.
Resta soltanto
l'eco che ancora gelida
risuona, vibra,
nelle ossa di queste
lunghe ombre
Senza vita.

mercoledì 22 aprile 2015

U maru mpannu.

U maru mpannu.
S’è fatt mpannu u maru
Du caminàre i pedi
Subba a tanta morta

S’accàla l’anima
A šcalijàre nta si sacchi du maru
E si pripàra, l’òcchju
A nu temp’ e dišperàre
A nu sulu ca avìssa de corijàre
E mmece nceca
Fin aru coru a tanta genta
Ca si dìcini cristiàni
Ma s’ammùccini
Afferricàti aru salatu
Cchjù di cani.

A terra nosta, su pianetu
Sa sta mpesann’ u maru appennìnu
E duve na vota l’ànima lucìa di gènti strani
Sulu timpèsta va siminànnu u ventu.

Fora da via, a filèra
Si mmìjnu si šcuntènti
E ogne e òcchju si sbacànta
Ogne e ànima si šculuriscia
Ca troppu fortu pper i pòviri è chissu sulu
E a galla sàgghja ar’ammalappèna
Ncun’ata màcchia
E nìvuri nìvura ‘e tanta pena.


Si è fatto basso il fondale
Dal camminare i piedi
Sopra a tanta morte.
L’anima si abbassa
A ricercare nelle tasche del mare
Mentre si prepara, l’occhio
A un tempo di disperare
A un sole che dovrebbe scaldare
E invece acceca
Fino al cuore tanta gente
Che si spacciano per cristiani
E si nascondono stretti agli interessi
Peggio dei cani.

La nostra terra, questo pianeta
La sta portando via il mare
E dove un tempo luceva l’anima di genti straniere
Solo tempesta oggi va seminando il vento.

Lontani dalle strade, come a filari
Si avviano questi disgraziati
E ogni sguardo si svuota
Ogni anima scolora
Ché troppo forte è per i poveri anche il sole
E a galla non risale a malapena
Che qualche altra macchia

Di negri, nera di tanta pena.

martedì 21 aprile 2015

si figghj 'e mamma mpunn u maru

si figghj 'e mamma mpunn u maru
mi vrigògnu pur a tu dire, ohi ma'
a tì ca mo' tuttu vidi e tuttu po' sapìre
chisà com ti senti merànn a si quatràri
ccu l'occhj mpinti ari funni du maru
si si potìssa sciuddàre sa nnaca chjìna
'e morta ca subb u giùvinu si cumpòrta
com s'a carne 'e si cristiàni
fossa rigàlata pèju ca chidda di cani
mi vrigògnu, ma', mi vrigògnu com nu latru
'e su maru c'un si po' acquètare
e cittu cittu vena
speranzùsu 'e spùnnire
all'urmu si criatùri 'e du culùru malidìttu
si pòviri figghj
s'occhj citti
si mani senza nenti
si facci semp' affrìtti
mi vrigògnu, ma'
mi vrigògn 'e sa marètta
ca s'ùnchja e abbùffa,
naca scuntènta 'e tanta morta ca ni fa tavùtu.

questi figli di mamma in fondo al mare
mi vergogno anche a dirtelo, ma'
a te che ora tutto vedi e tutto puoi sapere
chissà come ti senti scrutando questi bimbi
con gli occhi incollati al fondo del mare
se si potesse stappare questa culla piena
di morte che addosso ai giovani si comporta
come se la carne di queste persone
non avesse un prezzo, nemmeno fossero dei cani
mi vergogno, ma', mi vergogno come un ladro
per questo mare che non trova pace
e zitto zitto viene
con la speranza di posare
sulla battigia questi bimbi dal colore maledetto
questi poveri figli
questi occhi zitti
queste mani senza niente
questi volti sempre afflitti
mi vergogno, ma'
mi vergogno di questa breve onda
che si gonfia e sbuffa,
culla dolente di tanta morte che la (ci) rende bara.

domenica 19 aprile 2015

Cosa fare?

Forse è giunto veramente il momento di smettere. Mi riesce difficile 'scrivere', se di questo si tratta, di qualsiasi cosa. La memoria è stata forse la prima 'ispiratrice' a vendicarsi delle mie attese troppo protratte, delle mie indecisioni, e, forse, se risponde a verità quello che spesso mi è stato detto, del mio riposare su fortune, che ritengo però troppo rare ed eventuali, e della fortunata spontaneità del dire. Tutte le cose finiscono come sono cominciate, in un punto preciso ma spesso difficilmente individuabile. Credo che anche il mio abbandono alle parole, l'attesa del loro arrivo, siano arrivati al loro capolinea, magari un po' anticipato. Nulla mi usa più per il suo dire. E rimango nella mia afasia, che è la differenza tra il detto e pensato dentro e il detto e pensato fuori: una risultante che si chiama silenzio, inutile, se non è supportato dalla memoria. Cosa fare? Nulla.

sabato 11 aprile 2015

A Bonura.

mi chiama ancora
il freddo variegato delle argille
come fine a se stesso si sente nell'aria
il richiamo dei caprai, echeggia
nel vuoto di fiumara, gli oleandri
solitari si offrono alle anse
ché grama la vita non scuote più i fondali
e le sabbie non dànno sul limitare
più che rifugi miseri agli armenti 

risalgo negli sguardi perduti sui crinali
li infestano ai pendìi assidue le festuche
le stoppie crepitanti, le pagliuche
color dell'oro prima che a sera brucino

anche le strade si sono fermate
per tempo han rinunciato a questa quota di Bonura

che tu solo, padre, con rabbia carezzavi

ne rimane l'incanto
di quello sprazzo a mare
un labbro gonfio tra due seni verdi
di desiderio d'infanzia e afrori

mi alberga sempre un greto di ricordi e di pensieri
dove inseguo per labirinti le mie formiche a vela.

Nel medio evo, anni '50 del '900- so di parlare di un'altra era- ai latifondisti vennero confiscati, nel Sud d'Italia, molti terreni, che vennero distribuiti, quotizzati, ai contadini... (vedere legge Gullo e Opera Valorizzazione Sila, o Ente Sila, per quel che riguarda la Calabria); ovviamente i rapporti di potere nella società non cambiarono, credo di poter dire, ma ormai questi sono argomenti che non fanno testo, in un paese dove la storia si può scrivere quasi sempre con la 'esse' minuscola. A mio padre toccò in sorte (nel vero senso della parola: fu sorteggiata) una 'quota' di terreno che sarebbe risultata difficile da raggiungere anche alle capre... e certamente non avrebbe mai dato di che sfamare una famiglia. Non a caso quel sito si chiama 'Bonura', la buon'ora... almeno un po' di ironia!

ci sono vuoti che riempiono

ci sono vuoti che riempiono
e disperate attese
quando sento svanire le parole
striandosi pareti verso il fondo
sperduto e grave
di pozzo avido di fine

sono radici tormentose
alte nella sera
e si continuano
in stoloni  incontrollati
i margini irrigiditi dei silenzi

sono di là
le isole di cielo
e graffiano con fili
acidi enfie le piogge
oggi non aprono porte i sorrisi
e vanno con le code sottobraccio
uomini
nuvole
cani
solo il vuoto di oggi non ha attese
o segni, radi,  che lo mutino.

polvere


...non potevamo altro, il nostro ruolo ufficiale ci impediva di aggiungere parole, anche le nostre note erano scarne, ridotte all'essenziale. Il resto, di voi, di come eravate, di cosa sentivate, andava intuito e interpretato, con grandissimi margini di errore. Vi abbiamo osservati in silenzio, spesso ci siamo dovuti sottomettere alla segnalazione impietosa delle vostre scene mute, non abbiamo potuto sottrarci a quei vostri sguardi smarriti, a quelle lacrime sul limitare degli occhi.
Tanto tempo è passato; la polvere, dapprima, ha avuto la meglio, poi questa informatica avventizia, rabberciata, è sopraggiunta a limitare ulteriormente ogni nostra possibilità di intervento in vostro favore.
Avevamo facciate color carta da zucchero, o di cielo denso, come di nuvole rapprese su una sinopia azzurrognola. Chissà cosa pensavate, nell'osservarci...
Io ricordo di uno sempre attento, dallo sguardo perso quasi sempre dietro a quella del primo banco, sempre pettinato male e vestito alla meno peggio... veniva da un qualche paesino, e si vedeva, si capiva subito, da come guardava tutto quello che le finestre gli lasciavano intravedere o sognare.
Siamo stati bene con la maggior parte di voi, sì, non abbiamo vissuto grandi traumi... eravate quasi tutti di buona famiglia, spesso portatori di sicurezze che andavano anche oltre le aspettative... certo, in questi casi la bellezza dei sogni ne risente, ma tant'è... vi hanno fatto accontentare di sogni al risparmio spacciandoli come piccole fortune.
Oggi qualcuno di voi, di sicuro, ci utilizzerà ancora, la nostra funzione ufficiale non si è ancora esaurita, e durerà ancora a lungo, probabilmente, ma ricordare come eravate un tempo, quello è altro.
Tra di voi ce n'era sempre qualcuno più lesto a carpirci informazioni, segreti che custodivamo con non troppo accanimento... vi ricordate quel morettone con le labbra grosse, perennemente impreparato, ma un vero maestro nel cogliere i movimenti delle mani, e il gesto che veniva a segnalarci una manchevolezza, una insufficienza, o una piccola conquista?
Altri tempi, sì, oggi per noi registri di classe la vita si è fatta difficile, non sono più quei giorni in cui godevamo del frusciare della copertina contro i seni ansanti delle giovani supplenti, né più è tempo di quelle ore trepidanti di interrogazioni in cui quello più vispo cercava di cogliere sbirciando il voto, suo e dei compagni.... era bello per noi, nasconderci ma non troppo, dietro il vezzo di un puntino o di un segno personalizzato, criptico, del docente.... 
Il nostro tempo è già stato, si sono aperti dapprima gli armadi polverosi degli archivi, poi l'abisso della defoliante digitalizzazione... non c'è più nulla da istoriare, basta digitare, digitare, digitare, senza voltarsi a riguardare: a chi importa, se non a voi, quello che eravate? Presenze, assenze, serie infinite, bodleiane, di uno e di zero, tutto qui... 'Tutto qui', aggiunse, ripensando a quei registri impolverati, muti custodi di una adolescenza, di una giovinezza abbandonata da qualche parte di una stagione preda di sogni e di ricordi. 
- Troppa malinconia fuori luogo, troppo pretenzioso volere far parlare un registro - pensò: 'fine, con iniziale minuscola'.

venerdì 10 aprile 2015

La passeggiata, di Tommaso Landolfi, traduzione annotata.

Della passeggiata landolfiana ho biascicato qualcosa anche nei due scritti ai quali rimandano i collegamenti che seguono:
Non avendo trovato, in rete o su carta, una 'traduzione' che sia una di quel pezzo, invertudiandomi, di buon grado mi ci sono provato, benché spesso io sia un murcido, e anche un po' gordo... del risultato, invero, non mi cale, imperciocché, come dire... s'ei piace, ei lice!
Non volendo tediare il malcapitato lettore, a tal uopo espongo costà solo la prima delle cinque pagine, conscio che, ad onor del vero, le loro signorie non si perderanno, nel non leggere, alcunché.
Nel domandar venia, mi dichiaro passibile di accuse le più truci di lesa maestà.

giovedì 9 aprile 2015

...e veramente non so!

...e veramente non so! 

venerdì, 25 novembre 2011
Mi ricordo di questa idea che risaliva a non so quale piacere sensuale e insieme spirituale: come il cervo inseguito cerca l'acqua in cui precipitarsi, così bramavo di vivere in questi corpi nudi, lucidi, in queste figure di Narciso e Proteo, di Perseo e Atteone: desideravo scomparire in essi ed esprimermi con le loro parole.
                             Hugo von Hofmannsthal (1874-1929)

Ho fortunatamente incontrato questa frase posta a premessa de ''Gli dèi e gli eroi della Grecia'', di K. Kerényi, opera fondamentale per chiunque voglia conoscere, e dico solo conoscere, in senso assoluto.
Questa frase ristava in uno dei tanti, forse troppi, libri che attendo di leggere, prima o poi, o mai più: sono libri che ho sempre amato, ancorché li frequenti di rado: so dove sono situati, dove mi aspettano, sono parte di me: foglie...
Non ho avuto la fortuna né il piacere di conoscere il greco, e a volte confondo i tanti Automedonte, Antinoo, Aiace, Ares, Ermes... non è questo che importa: è il numero di vite che mi sono negato ad interessarmi. Ecco, questa, tutta contenuta nel mito, è un'altra vita, un segreto celeste e interiore, ineffabile, inspiegabile, senza appello.
Vivo quella frase di apertura come un compendio: l'iscrizione di una vita che tutte le altre comprende, la scoperta di non essere - con le dovute proporzioni - ''solo''.
Non la sto ''prendendo alla larga'', no, il fatto è che mi risulta difficile dire quello che provo, quello che sento, quello che vivo.
Non è facile concordare col gommista l'appuntamento per il montaggio degli pneumatici da neve e nello stesso tempo pensare a quella ''Aurora dalle dita di rosa'', ad esempio, o a Priamo che bacia le mani di chi gli ha da poco portato via l'amato figlio...
Domandarsi cos'è l'eroe, cos'è il mito, cos'è la poesia, se bisogna ''vivere per raccontarla'' o ''raccontare per viverla'', e se ne valga la pena... vai a sapere!
Mi sono anche risposto, in verità, e il risultato è stato pessimo: ho lasciato perdere troppe cose e ne ho vissuto altre di cui sarebbe, oggi, troppo scontato pentirsi: bisogna credere subito, o mai più, come fanno forse gli eroi, come fa Achille, ben conoscendo, peraltro, il suo destino.
Torniamo, o passiamo, alla poesia... Pascoli, Borges, Laforgue: scelgo questi tre.
Giovanni Pascoli tanto copiato quanto denigrato, spinto sotto lo zerbino dopo averne approfittato a piene mani: pochi sono stati poeti quanto Giovanni Pascoli, lobotomizzato da critici ottusamente di parte, affannati a ridurre il tutto a complesso di Edipo, impotenza, ''fanciullaggini'' varie: una pena! ''Giovannino'' conosceva i classici come pochi, li insegnava nelle università, scriveva in latino ed era semplicemente un grande poeta, puntuale anche, e documentato, anche nel ricorso alle onomatopee o alla botanica: non gli mancavano le certificazioni scientifiche nei suoi ricorsi ad animali o piante, che si tratti di chiù o tamerici...
Borges, l'Omero del 900, il cieco che riesce a dire ''la cecità mi protegge'', parlando di fotografia: chi più poeta di lui? Forse mi sto avvicinando a dire cosa penso del mito, chissà...la vita sognata, il sogno della vita, vita che è altro, l'adesione ai miti, che è presenza del poeta in quei fervori di Baires o nelle imprese di Evaristo Carriego che oserei definire adesione totale e staccata, poi che la mente, e il sogno, tutto possono vivere e provare, e descrivere.
Laforgue: la poesia e l'amore, una delicatezza, fisica e intellettuale, rara...il matrimonio con Leah e la morte, l'anno seguente. Come diceva? Più o meno che ''i treni migliori sono quelli che ho perso''.
Ma perché ho scritto queste cose, ammesso che siano esatte, veritiere, incontestabili? A pensarci bene non importa, sono solo cose che mi passavano per la testa nell'attesa che il gommista mi restituisse le chiavi della macchina, con le scarpette da neve nuove fiammanti: io non penso a queste cose, e mai ci crederei, ecco, mai!...
Ciao.

nel mattino

nel mattino
derivo da te
così lontana
donna che mai di più ho potuto
amare le cose
tue
nascoste
sotto il lavatoio
per buona creanza


mi sveglio nella tua mano
che si è fatta secca e quasi
emerge minuscolo dal dito
l'anello inspiegato
in tanta penuria


scavavo, dopo la notte
e il tuo volto
era sempre più chiaro
il tuo dire
''li passiamo a trovare''
tanto


che ora che non ci sono più
non ne ho quasi più paura


dei morti, alcuni
si sono ricomposti
come le mie paure cui non basta
più
una luce accesa, l'immagine di un santo. 



Mi sveglio, e sento che derivo da te, madre che vivi lontano ormai da tantissimi anni, fatta salva l'eccezione estiva delle ferie, donna alla quale promettevo -tu ne sorridevi- amore insuperato, un amore tra le cose di un tempo amaro; mi sovviene, questo non lo hai mai saputo, di quando bambino mi portavi a casa di una mia zia, indigente, e mi attirava e bloccava l'odore di misteriose cose di donna nascoste alla vista sotto un lavatoio di cemento, questo per un po' di buona creanza, troppo povera essendo quella casa;
mi sveglio, finalmente, verrebbe da dire, e mi accorgo che nella notte di paura la tua mano ormai ossuta era la sola certezza, sicché quasi mi afferro a quel piccolo anello, di poco valore -ricordo di tua madre morta, lei giovane e tu allora appena adolescente; in tanta povertà, ti fa onore averlo conservato per sempre (da quel tempo di guerra, e oltre...);
ho continuato a scavare in cerca di certezze, dopo la notte che quasi mi ha sconvolto, e mi viene in mente quel tuo dire, ''li passiamo a trovare'', quando mi portavi con te a far visita a quelli che stavano per lasciarci: oggi ho avvertito quel tuo dire così chiaro che quasi diminuisce la paura: si ricompongono, morti e paure, anche se non basta la luce accesa tutta notte e il santino stretto sotto il cuscino.
Una parafrasi, più o meno.


martedì, 20 dicembre 2011

venerdì 3 aprile 2015

Minimo sogno.

mercoledì, 13 aprile 2011
Nota previa.

Per sentire un ''mito'' credo occorra un attimo e tanto, tanto tempo 'precedente'. Per interpretarlo forse basta lo studio, non saprei, lo ignoro, non sono del mestiere. Credo di avere avuto, purtroppo raramente, la fortuna di sentire la forza penetrante - a volte devastante - di questi ''miti''. Che qualcuno potrebbe semplicemente definire ''fatterelli'' o forse argomenti da ''cartoons''.
Quelli che seguono sono pensieri casuali, a vanvera anche, di uno che ritiene di aver trovato un piccolo tesoro - o di essere stato baciato dalla dea bendata - nel leggere ''La casa di Asterione'', e di aver potuto sentire quella ''cosa'' indescrivibile, quello stato irripetibile che la poesia, quella vera, riesce a trasmettere... sicché quella che segue è solo una ignobile contaminazione, la memoria che mi rimane di quella preziosa lettura.
La commistione dei personaggi è chiara, come le mie e le loro colpe.

Mi sono sognato. E' successo una di queste notti, in una di queste stanze, vicino a una cisterna... avevo camminato e corso tutto il giorno, o forse tutta la notte, qui non conosco questa distinzione del tempo, si tratta, per me, all'incirca di una variazione del colore che entra dalle porte, benché non vi siano, non credo almeno, vani che io possa assimilare alle porte... ad ogni modo, avverto qualcosa che varia, nel tempo o nel suo colore.

Mi sono sognato, e lui, l'altro, quello, era in tutto simile a me, oserei dire uguale, non fosse per gli occhi che non riuscivo a individuare, fermare, isolare... in fondo gli occhi sono come i pensieri: inarrestabili, lame di luce, capaci di insinuarsi ovunque, anche nell'oscurità. Credo che i suoi occhi, i suoi pensieri, si siano quindi insinuati in me, siano scivolati nella mia oscurità. Nella parte di oscurità che mi è stata assegnata, o che ho creduto di individuare come a me appartenente, non saprei... forse per questo ho deciso di essermi sognato.

O di essere stato il suo sogno, temo.

Il mio braccio destro rimane disteso, perpendicolare al corpo, la mano, della cui appartenenza non sono certo, in tutto il suo essere estremo tenta il contatto dell'interruttore dell'abat-jour sul comodino... ciò è strano, l'illuminazione non cambierebbe nulla, il buio non si scosterebbe di un attimo, questo lo so bene, per certo...

La mia mano sinistra è nel punto esatto in cui lui, morto, la teneva, alla stessa altezza del costato... e non c'è modo di muoverla, anche il più piccolo movimento mi è negato, ne presento il dolore insopportabile, ma non è il dolore a fermare la volontà di assumere una postura differente... no, è la mancanza di qualsiasi altro luogo possibile, disposto ad accogliere una mia posizione differente da quella che lui, l'altro, colui che sogno o che mi sogna ha assunto, morto.

Non possiamo muoverci, tuttavia non provo terrore.

Forse perché gli occhi, i miei, sono ancora accesi, i soli accesi, e questo sogno reciproco esiste in quanto necessario scambio di linfa, oppure non siamo pronti per andarcene, almeno uno dei due, probabilmente il più debole, quello che non sa staccarsi dal computo dei giorni e perciò siamo obbligati a questa simbiosi.

Sognerò anche per lui, l'altro, ad occhi aperti: questo mi atterrisce, sapere con dolore delle palpebre bloccate in alto, neanche una lacrima a dare sollievo, gli occhi messi a tacere, nell'arsura del verbo non detto, della visione arrestata nell'iride.

Sento che mi ha sognato, che per un tempo che non saprei definire, in un luogo cui non saprei assegnare confini, sono stato nei suoi occhi, negli occhi di lui, dell'altro, nella loro ferrea chiusura a morte.
Al di là di quelle palpebre, un artista, un demiurgo, forse lui stesso, l'altro, ha costruito un palazzo meraviglioso, alla cui magnificenza non sono occorse mura, porte, cisterne, maniglie, tetti.
Al di là di quelle palpebre sono stato sognato, lì ci siamo perdutamente vissuti, in un esplosivo silenzio di labirinto.

Fino a quando, solo velatamente abbandonate, in un riposto, ha fatto in modo - così credo - che mi trovassi davanti alle ali, e all'obbligo di scegliere.

Ali azzurre, assolutamente indistinguibili dal colore del mare che porterà il nome di Egeo.

Alle volte avessi deciso di lasciarti, Arianna, e di lasciare questa dimensione meravigliosa, fatta di labile cera. Solo, stavolta non ci saranno vele di ricambio.

Da quelle ali è scivolato via il sapore di una luce quasi indistinta.

Ci crederesti? Quando ho lasciato i suoi occhi non ha nemmeno tentato di aprirli, i miei.

E' stato solo, come un ultimo battito d'ali.


giovedì 2 aprile 2015

7. Dove sei? (da 'Lotte dei dolori').


Dove sei, dove te ne sei andato... ti sento, al di là dello schermo, ti sento respirare...c'è sempre un diaframma che si interpone tra noi, ineludibile e necessario, sia esso schermo o respiro.
Mi sono ribellato perchè la mia capacità di credere ha vacillato, non so se si rivelerà essere stato un attimo, o se si protrarrà, questa condizione che avrebbe dovuto imporre ad entrambi, a noi due dico, un silenzio quasi assoluto, e un rispetto reciproco che ho sentito venir meno. Perché ho avvertito che mi usavi, ancora una volta, come paradigma o metafora, e non sentivi più, e ancor meno tenevi in considerazione, questa mia richiesta di attenzione; da qui l'urlo che voleva eromperne e che sempre più le righe che mi hai imposto faticavano a contenere. Stai pensando a un 'esame di coscienza', lo so, e mi viene quasi da sorriderne, ma ti premetto che un abbozzo di sorriso è solo un moto istintivo, una abitudine da trattenere, e non è la via per un tentativo di ricomposizione, quella via è più lunga, è così lunga che magari non basta una vita intera a percorrerla, ad averne ragione; te lo dico sapendo di rischiare di essere patetico.
Rimango qui, in attesa. Oggi il mio dio è assente. Forse ti avrei parlato.

13. Lotte. (dall'inconcluso 'Lotte dei Dolori')

Lotte...ed io che ci ero quasi cascato. Non è elegante dirti semplicemente...no, meglio non dirlo, non avrò uno stile, ma di certo delle maniere, e queste non contemplano l'uso di improperii, ma è quello che meriteresti.
Lotte...
Riesci a farti detestare, e perdonare. Perché lo sai bene, che questa di Lotte potevi risparmiartela.
Ma ad ogni modo, se serve a distrarmi, anche un sano dolore riesce ammissibile. E' per me che lo fai, vero? E dovrei crederti?
Sento il fruscìo di un'altra notte che si prepara, attenta ai rumori, e non ho nulla da dirti.
Il mio dio già dorme. Si è addormentato presto e, a ben guardare, non aveva consigli da darmi.
Per cui non ho bisogno di tossire.
Dormi, ora.