mercoledì, 13 aprile 2011
Nota previa.
Per
sentire un ''mito'' credo occorra un attimo e tanto, tanto tempo 'precedente'. Per
interpretarlo forse basta lo studio, non saprei, lo ignoro, non sono
del mestiere. Credo di avere avuto, purtroppo raramente, la fortuna
di sentire la forza penetrante - a volte devastante - di questi
''miti''. Che qualcuno potrebbe semplicemente definire ''fatterelli''
o forse argomenti da ''cartoons''.
Quelli che seguono sono pensieri casuali, a vanvera anche, di uno
che ritiene di aver trovato un piccolo tesoro - o di essere stato
baciato dalla dea bendata - nel leggere ''La casa di Asterione'', e
di aver potuto sentire quella ''cosa'' indescrivibile, quello stato
irripetibile che la poesia, quella vera, riesce a trasmettere...
sicché quella che segue è solo una ignobile contaminazione, la
memoria che mi rimane di quella preziosa lettura.
La
commistione dei personaggi è chiara, come le mie e le loro colpe.
Mi sono sognato. E'
successo una di queste notti, in una di queste stanze, vicino a una
cisterna... avevo camminato e corso tutto il giorno, o forse tutta la
notte, qui non conosco questa distinzione del tempo, si tratta, per
me, all'incirca di una variazione del colore che entra dalle porte,
benché non vi siano, non credo almeno, vani che io possa assimilare
alle porte... ad ogni modo, avverto qualcosa che varia, nel tempo o
nel suo colore.
Mi sono sognato, e
lui, l'altro, quello, era in tutto simile a me, oserei dire uguale,
non fosse per gli occhi che non riuscivo a individuare, fermare,
isolare... in fondo gli occhi sono come i pensieri: inarrestabili,
lame di luce, capaci di insinuarsi ovunque, anche nell'oscurità.
Credo che i suoi occhi, i suoi pensieri, si siano quindi insinuati in
me, siano scivolati nella mia oscurità. Nella parte di oscurità che
mi è stata assegnata, o che ho creduto di individuare come a me
appartenente, non saprei... forse per questo ho deciso di essermi
sognato.
O di essere stato il
suo sogno, temo.
Il mio braccio destro
rimane disteso, perpendicolare al corpo, la mano, della cui
appartenenza non sono certo, in tutto il suo essere estremo tenta il
contatto dell'interruttore dell'abat-jour sul comodino... ciò è
strano, l'illuminazione non cambierebbe nulla, il buio non si
scosterebbe di un attimo, questo lo so bene, per certo...
La mia mano sinistra
è nel punto esatto in cui lui, morto, la teneva, alla stessa altezza
del costato... e non c'è modo di muoverla, anche il più piccolo
movimento mi è negato, ne presento il dolore insopportabile, ma non
è il dolore a fermare la volontà di assumere una postura
differente... no, è la mancanza di qualsiasi altro luogo possibile,
disposto ad accogliere una mia posizione differente da quella che
lui, l'altro, colui che sogno o che mi sogna ha assunto, morto.
Non possiamo
muoverci, tuttavia non provo terrore.
Forse perché gli
occhi, i miei, sono ancora accesi, i soli accesi, e questo sogno
reciproco esiste in quanto necessario scambio di linfa, oppure non
siamo pronti per andarcene, almeno uno dei due, probabilmente il più
debole, quello che non sa staccarsi dal computo dei giorni e perciò
siamo obbligati a questa simbiosi.
Sognerò anche per
lui, l'altro, ad occhi aperti: questo mi atterrisce, sapere con
dolore delle palpebre bloccate in alto, neanche una lacrima a dare
sollievo, gli occhi messi a tacere, nell'arsura del verbo non detto,
della visione arrestata nell'iride.
Sento che mi ha
sognato, che per un tempo che non saprei definire, in un luogo cui
non saprei assegnare confini, sono stato nei suoi occhi, negli occhi
di lui, dell'altro, nella loro ferrea chiusura a morte.
Al di là
di quelle palpebre, un artista, un demiurgo, forse lui stesso,
l'altro, ha costruito un palazzo meraviglioso, alla cui magnificenza
non sono occorse mura, porte, cisterne, maniglie, tetti.
Al di là
di quelle palpebre sono stato sognato, lì ci siamo perdutamente
vissuti, in un esplosivo silenzio di labirinto.
Fino a quando, solo
velatamente abbandonate, in un riposto, ha fatto in modo - così
credo - che mi trovassi davanti alle ali, e all'obbligo di scegliere.
Ali azzurre,
assolutamente indistinguibili dal colore del mare che porterà il
nome di Egeo.
Alle volte avessi deciso di lasciarti, Arianna, e di
lasciare questa dimensione meravigliosa, fatta di labile cera. Solo,
stavolta non ci saranno vele di ricambio.
Da quelle ali è
scivolato via il sapore di una luce quasi indistinta.
Ci crederesti? Quando
ho lasciato i suoi occhi non ha nemmeno tentato di aprirli, i miei.
E' stato solo, come
un ultimo battito d'ali.