giovedì 27 luglio 2017

C'era rabbia nella sua originalità.

C'era rabbia nella sua originalità.
-Anche nelle sue origini- si era ritrovato a pensare.
Pure, c'era stato un tempo in cui non lo avrebbe neppure sfiorato l'idea che certi punti così importanti da risultare esiziali, nella vita sua e di chi gli stava accanto, si sarebbero potuti scordare.
No, ora si era rassegnato ad accettare l'idea - la constatazione, per meglio dire - che tutto potesse essere dimenticato, che tutto potesse sfuggire, che quel castello di convinzioni, di certezze, di conoscenze meticolosamente acquisite e preservate, potesse sfaldarsi così, semplicemente, al solo tocco del tempo. 
Non ricordava più quando tutto questo era successo, ma in qualche modo questo processo doveva avere avuto un suo subdolo inizio, un inizio che silenziosamente aveva cominciato a togliere alla memoria ogni possibile appiglio. Non riusciva ad agganciare il tempo, ne veniva respinto con mano invisibile quanto irremovibile. 
Quella mano ergeva muri, muri tra lui e tutto ciò che era stato, quella mano gli sottraeva la certezza del punto di partenza.
- Non ci sono certezze senza un punto di partenza, è come se dovessi vivere a ritroso - pensò.
Ripensò a suo padre, a quella rabbia non priva di originalità che lo aveva sempre animato, esacerbato...
......
Quando sarà successo? Mi sembrava una cosa così grande, eppure, eppure io non ricordo quando è morto. Ricordo come è morto, perché c'ero, ero con lui, ma non ho visto la morte, è morto senza dirmi nulla, come se entrambi, da sempre, sapessimo cosa stava per succedere. 
Credevo si fosse morso così forte da farsi cadere un dente, un dente piccolissimo che recuperai dalla sua bocca... così credevo, no, non era un dente, non era nulla, era ancora vivo.
Non aveva la forza di dire nulla, non c'era più quella rabbia così originale nei suoi occhi, o così sembrava che fosse.
O forse la rabbia c'era ancora, dietro le palpebre così sottili, e forse mi guardava ancora, per vedere come stavo diventando bravo, puntuale, quasi perfetto, nel gestire quei suoi ultimi istanti.
Un teatro di morte. Tanto teatro è morte, tanta morte è teatro, se si ha tempo di fingere, se si è così vani al mondo da fingere.
- Ti dico che era lì, era lì, era bellissima, era lì, è lì, ti dico che è lì, non la vedi? Unn'a vidi? E' ddà! Vicino l'armadio...
- Càlmati ora, calmati, per piacere (Lo so che soffri, e non posso fare nulla, lo so... non ho mai nemmeno trovato il tempo di aggiustare quelle ante... non può essere un problema di ante o cassetti che chiudono male, non può essere!...)
- Ma come non la vedi? Dove guardi... Paravìsu come è bella, come sono belle!
- Ma dove vicino all'armadio, dove? Chi??
Dicono che prima di morire si possano vedere persone amate e trapassate da tempo, dicono, dicono, è tutto un dire...
Mi decisi a domandare cosa stesse vedendo...
- La mamma, mia madre, mia madre con la Madonna accanto, sono bellissime... che meraviglia! Non le vedi? Tu non le vedi, non vedi niente?... Oh, se tu solo potessi vederle... 
No, io non vedevo, non potevo vedere, non conoscevo quelle due donne che parlavano fitto accanto all'armadio accennando verso mio padre, mentre lui se ne andava: non potevo dire ciò che vedevo, capivo che era sua, tutta sua, quella scena, suo il tempo di morire e il privilegio di vivere un attimo ancora lo sguardo della madre, anche se non so in quale tempo tutto questo è successo; però c'ero, e non serve altro per capire che bisogna che sia breve il tempo che rimane perché si possa dire delle cose che esse non avranno mai fine... dum loquimur fugerit invida aetas, ed anche la memoria di ciò che crediamo incancellabile, fugge via. Rimane quella mancanza, fastidiosa, del punto da cui partire, l'appiglio da cui iniziare a ricordare, quella possibilità di vivere almeno a ritroso...

martedì 18 luglio 2017

AL PADRE, DURANTE LA LEUCEMIA.

Mi ricorda mio padre, questo titolo così duro e semplice, quando lui, per raccontare, iniziava col dire 'durante la prigionia'... sì, c'è qualcosa di simile, se non addirittura di uguale, e non è il numero di sillabe o l'accentazione della parola, no. Solo oggi me l'ha data da leggere, questa cosa, Matteo, e riconosco la sua scrittura, veloce e senza ripensamenti né correzioni. Non voglio ripensare a quello che Matteo ha passato, e con lui tutti noi, ma a volte certe immagini, certe scene si ripropongono, si riformano, con una forza che a stento riesco - e non ne sono nemmeno sicuro, di riuscirci - a contrastare. E allora mi domando il perché di quello che gli è successo, e anche di quello che poteva succedere di ancora peggio, e devo fermarmi, oppormi ai pensieri, li devo scacciare, arrestare... Io, figuriamoci lui, a diciassette anni. 
E' stato forte, Matteo, come un giglio di mare, il fiore che combatte contro tutti, 'pancrazio', come dice il nome greco. Forte, con l'aiuto di tutti quelli che gli abbiamo voluto bene, e di quelli che ci hanno voluto bene. Tutti quelli, cioè, che non riusciamo nemmeno a ringraziare, e che, come chi è in grado di donare, non chiedono nulla in cambio per quello che fanno. 


AL PADRE, DURANTE LA LEUCEMIA

Più volte ho pianto
soffrendo. Ero caduto di bici
non ero abbastanza bravo,
a volte bastava lo sfogo per spargere
una voce furiosa
e non ti trovavo.

Ho sempre visto soltanto
le tracce del mio grido sulle pareti
e tenace la mia solitudine mordeva
nel mio animo sanguinante.

Ma tu c'eri, c'eri quando
ho sanguinato paura dalle vene
bucate e vuote di sangue, c'eri
nel mio lento morire, seduto conserto in te
soffrendo della mia sofferenza.

Muto, parlavi.

Ho visto nella tua mascherina
tutte le parole del mondo,
tutto l'amore di un padre spaventato
defluire e scorrere negli occhi,
fissi nel vuoto della finestra,
nelle mani perse nelle mie piaghe.

Ora di quelle pareti d'ospedale
l'eco non è più di un ragazzo arrabbiato
ma di mille uomini, due
fattisi uno e tanti
nelle notti di silenzio.

Muti, parlavamo.