domenica 30 giugno 2013

Scrivete, leggete, traducete.

Scrivete, leggete, traducete.

Scrivete, è un vostro umano diritto, e non lasciate che chicchessia vi critichi, se non la vostra coscienza, l'arbitrio parallelo all'andatura del vostro vergare parole, il controllo necessario e silenzioso sotteso dal pensiero, lirico o narrante che sia... non lasciate che vi guardino dall'alto in basso per quello che avete scritto o pensato; chi vuole aiutarvi nel vostro anelito all'elevazione lo faccia guardandovi negli occhi, come il campione che guarda negli occhi l'avversario volonteroso ma forse meno fortunato o capace; non lasciate a nessuno l'agio di potervi degradare o cassare; prendete le parole per come sono, un frutto di tutti e per tutti, e fatene l'uso che più vi si addice, comunque il migliore che potrete consentirvi; rifuggite da soloni e dita levate brandendo matitine rosse e blu: la poesia, la narrazione, sono belle anche infarcite da errori, da titubanze; poi, se ricorrendone il caso, sarà il tempo ad affinare le vostre capacità, a farvi sentire, se non più profondamente, più sottilmente, e a guidarvi nei piaceri delle raffinatezze stilistiche, nel gusto della forma che va a combaciare quasi miracolosamente con il sentire. Scrivete, se volete, oppure no, ma non dimenticate che chi vi critica dovrebbe avere una sensibilità molto superiore alla vostra, da esprimere nel campo del difficilmente esprimibile come è quello della creazione poetica: bisognerebbe rispettare, del dire di un uomo, anche la parte inespressa, quel non detto che comincia dai margini della realizzazione poetica, e questo, che è poi la gran parte del 'sentito', nessuno e nessuna scuola o abilitazione o diploma può giudicarlo. E' la parte della visione che non sarete riusciti a tradurre, quella che produce la sorta di delusione derivante dalla consapevolezza di non essere riusciti ad esprimervi come avreste voluto, sono le parole che sul più bello vi hanno tradito, vi sono mancate, sono andate via, in cerca di altre anime, dita, bocche.
Leggete, non abbiate paura di leggere i versi di quelli che vi hanno preceduto nel comporre e nel donare: a volte si è trattato di un vantaggio casuale, temporale, di collocazione... non lasciatevi condizionare dall'idea di dire qualcosa di già detto o sentito: è inevitabile, la poesia la scrivono ancora gli uomini, grazie al cielo, e gli uomini sono tra loro simili, anche quando qualcuno tra di loro svetta per ingegno; ma anche qui, tutta questa ricerca di differenze e originalità... a cosa serve computare le 'occorrenze' in un testo o in un poeta? A cosa serve definire qualcuno il poeta delle 'elle', o delle allitterazioni, o di qualsiasi altra forma metrica, grammaticale, sintattica, lessicale? 
Esprimetevi, senza il timore di ripetere o di ripetervi... in fondo, saprete bene quanta parte della poesia, italiana e non, si può far risalire a Petrarca, quanta prosa a Boccaccio, quanta lirica a Pascoli, e mi limito a questi, che inconsciamente si cerca di dimenticare, forse per sentirsi più intatti e originali.
E traducete, se potete, traducete la vostra anima, e le anime che attraverso lingue, altre e diverse dalla vostra, vi cercano: senza domandarvi come e se è giusto farlo, provateci, e imparate parole e linfa nuove, attraverso le poesie di altri, non formalizzatevi e non lasciate che si venga a sindacare nel tradurre un termine: il conte Giacomo traduceva, in fondo, la lingua del suo sentire nella lingua degli italiani quando indugiava su un 'rammenti' o 'rimembri', ma lui, anzi Egli, poteva farlo, con buona pace di quanti lo hanno imitato fingendo di non conoscerlo, e magari anche di quegli incomprensibili Arbasino di turno che si sentono autorizzati a schernire alla radio il magistrale Giovanni Pascoli, paragonandolo ad un autore di canzonette da festival popolar-paesano.
PS: non ho la più pallida idea del perché mi sia passato per la testa di scrivere queste cose. Le leggerà qualcuno? Mah!... come sempre.
27-5-12

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