Scrivete, leggete, traducete.
Scrivete, è un vostro
umano diritto, e non lasciate che chicchessia vi critichi, se non la
vostra coscienza, l'arbitrio parallelo all'andatura del vostro
vergare parole, il controllo necessario e silenzioso sotteso dal
pensiero, lirico o narrante che sia... non lasciate che vi guardino
dall'alto in basso per quello che avete scritto o pensato; chi vuole
aiutarvi nel vostro anelito all'elevazione lo faccia guardandovi
negli occhi, come il campione che guarda negli occhi l'avversario
volonteroso ma forse meno fortunato o capace; non lasciate a nessuno
l'agio di potervi degradare o cassare; prendete le parole per come
sono, un frutto di tutti e per tutti, e fatene l'uso che più vi si
addice, comunque il migliore che potrete consentirvi; rifuggite da
soloni e dita levate brandendo matitine rosse e blu: la poesia, la
narrazione, sono belle anche infarcite da errori, da titubanze; poi,
se ricorrendone il caso, sarà il tempo ad affinare le vostre capacità, a farvi
sentire, se non più profondamente, più sottilmente, e a guidarvi nei
piaceri delle raffinatezze stilistiche, nel gusto della forma che va
a combaciare quasi miracolosamente con il sentire. Scrivete, se
volete, oppure no, ma non dimenticate che chi vi critica dovrebbe
avere una sensibilità molto superiore alla vostra, da esprimere nel
campo del difficilmente esprimibile come è quello della creazione
poetica: bisognerebbe rispettare, del dire di un uomo, anche la
parte inespressa, quel non detto che comincia dai margini della
realizzazione poetica, e questo, che è poi la gran parte del
'sentito', nessuno e nessuna scuola o abilitazione o diploma può
giudicarlo. E' la parte della visione che non sarete riusciti a
tradurre, quella che produce la sorta di delusione derivante dalla
consapevolezza di non essere riusciti ad esprimervi come avreste
voluto, sono le parole che sul più bello vi hanno tradito, vi sono
mancate, sono andate via, in cerca di altre anime, dita, bocche.
Leggete, non abbiate
paura di leggere i versi di quelli che vi hanno preceduto nel
comporre e nel donare: a volte si è trattato di un vantaggio
casuale, temporale, di collocazione... non lasciatevi condizionare
dall'idea di dire qualcosa di già detto o sentito: è inevitabile,
la poesia la scrivono ancora gli uomini, grazie al cielo, e gli
uomini sono tra loro simili, anche quando qualcuno tra di loro
svetta per ingegno; ma anche qui, tutta questa ricerca di differenze
e originalità... a cosa serve computare le 'occorrenze' in un testo
o in un poeta? A cosa serve definire qualcuno il poeta delle 'elle',
o delle allitterazioni, o di qualsiasi altra forma metrica,
grammaticale, sintattica, lessicale?
Esprimetevi, senza il
timore di ripetere o di ripetervi... in fondo, saprete bene quanta
parte della poesia, italiana e non, si può far risalire a Petrarca,
quanta prosa a Boccaccio, quanta lirica a Pascoli, e mi limito a
questi, che inconsciamente si cerca di dimenticare, forse per
sentirsi più intatti e originali.
E traducete, se potete,
traducete la vostra anima, e le anime che attraverso lingue, altre e
diverse dalla vostra, vi cercano: senza domandarvi come e se è
giusto farlo, provateci, e imparate parole e linfa nuove, attraverso
le poesie di altri, non formalizzatevi e non lasciate che si venga a
sindacare nel tradurre un termine: il conte Giacomo traduceva, in
fondo, la lingua del suo sentire nella lingua degli italiani quando
indugiava su un 'rammenti' o 'rimembri', ma lui, anzi Egli, poteva
farlo, con buona pace di quanti lo hanno imitato fingendo di non
conoscerlo, e magari anche di quegli incomprensibili Arbasino di turno
che si sentono autorizzati a schernire alla radio il magistrale
Giovanni Pascoli, paragonandolo ad un autore di canzonette da
festival popolar-paesano.
PS: non ho la più
pallida idea del perché mi sia passato per la testa di scrivere
queste cose. Le leggerà qualcuno? Mah!... come sempre.
27-5-12
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