mercoledì 21 novembre 2012

Qualche considerazione.

   Ho avuto l'ardire, nel post precedente a questo, di cimentarmi nella traduzione di un racconto di Julio Cortázar. Dico 'ardire' in quanto dovrei smetterla, forse, di nascondermi dietro il dilettantismo o il puro diletto e cominciare -o riprendere- a studiare e capire fino in fondo, e non solo la parte che mi interessa, che mi giova, o mi reca -appunto- diletto. Devo crescere? Chissà... Devo affermare quel che penso, fintanto che ne ho la possibilità? Questo, forse sì. Oppure lasciar perdere, e tenermi tutto per me... Ma in questo caso dovrei imparare a trattenere quegli 'sbocchi' di parole che si affollano, in maniera assolutamente incontrollata, quando mi si offre la possibilità di 'dire veramente' a proposito di argomenti che mi hanno interessato o che mi interessano. Per ora continuo a parlare da profano, da osservatore, o da viaggiatore 'non controllato'.
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   La scrittura di Julio Cortázar, scrittore che ho sommamente ammirato tra tutti quelli in cui ho avuto modo di imbattermi, mi ha sempre sorpreso, in tutti i sensi, vuoi per le trame, quasi sempre 'chiuse' -a volte solo apparentemente chiuse- da finali assolutamente sorprendenti, inusuali se non inusitati, e per il linguaggio utilizzato, che trovo straordinariamente affine a quello italiano. Solo in Jorge Luis Borges, 'l'Omero del novecento' ho trovato una struttura lessicale e sintattica paragonabile a quella di J. C.
   Ne consegue che per un lettore italiano è altamente possibile, soprattutto per chi non sia assolutamente a digiuno di conoscenza della lingua latina e dei meccanismi di formazione delle parole nei vari idiomi -dialetti compresi- che da quella derivano, leggere 'in lingua' le opere dei due autori che ho citato. Altri due autori che potrei citare, e indicare a dimostrazione di quanto dico, sono l'uruguaiano Mario Benedetti, nonché Gabriel García Márquez.
   Certo, le affinità tra l'italiano e lo spagnolo (di Castiglia), aiutano molto e sono sotto gli occhi di tutti, ma anche e proprio per questo, le differenze, i 'false friends', sono più perfidi e forieri di cantonate clamorose. Per non parlare delle pronunce da brivido formidabilmente rese dai commentatori sportivi che, bontà loro, riescono a superare qualsiasi problema di interpretazione 'fonetica', situandosi già oltre una conoscenza 'scolastica' ma accettabile, e già immersi nella pronuncia quasi gergale di nomi e cognomi ispanici di calciatori o di altri fenomeni connessi al calcio. Fa niente, anche se una informazione sbagliata, da qualsiasi parte provenga, è sempre e comunque qualcosa di negativo, anche nel mondo dello sport o della televisione.
   E' opinione diffusa, soprattutto tra i vacanzieri italiani, che per comprendere lo spagnolo basti aggiungere qualche esse in fine di parola e magari assumere una cadenza leggermente veneta. Ma non è con il ricorso a questi stratagemmi o accorgimenti che si può veramente comunicare e capirsi, ovvero trasmettere e recepire significati: al più ci si può spiegare o intendere; in questo caso, nel tentativo di dialogare pur non conoscendo la lingua, non si fa altro che ricorrere a qualcosa di succedaneo ad essa, ad un surrogato che non è neppure il linguaggio dei segni, ma l'utilizzo dei gesti, operazione di cui molti italiani si ritengono i migliori interpreti.
   Che significa: non sono gli utenti ad essere i proprietari, per così dire, di un codice linguistico, ma al contrario essi appartengono ad una lingua in quanto codice, ovvero i parlanti risultano essere dei decodificatori, non dei creatori di codici. Del resto la glossolalia di cui si parla già dal tempo della Babele delle lingue non sarebbe quel qualcosa di irraggiungibile che non sarà mai, in terra, ovvero il dono divino di trovarsi in un luogo quale che sia, e parlarne la lingua dell'uso. Chissà se mi spiego... o se il codice al quale appartengo mi si sta negando!
   Personalmente, mi capita di pensare di aver interpretato, magari senza grossi errori, pagine e pagine di letteratura, neanche di quelle più semplici, mentre all'improvviso mi trovo a considerare che mi sfugge il termine equivalente per indicare, che so, la forchetta o un altro oggetto d'uso quotidiano. In effetti, in quel momento, sto traducendo ciò che mi interessa, e questo esercita su di me un influsso che mi porta ad interpretare, a vedere dei termini che si materializzano dall'una all'altra lingua, in un processo di traduzione, appunto, che è portare qualcosa da qualcuno ad un altro: tradere ab aliquo ad aliquem, che poi sarebbe la 'zeppa' su cui poggia la tesi secondo la quale tradurre è in un certo senso 'tradire' (tradere). Tradere e trans-ducere sono due operazioni differenti: la prima deriva -oserei dire- dal 'sottrarre per consegnare', la seconda deriva dal 'prendere per offrire', quindi asportazione nel primo caso, riconsegna ed omaggio nel secondo. Per cui: bando alle piacevolezze delle assonanze lessicali e alla voglia di sorprendere con trovate che non hanno nulla di geniale.
   Tornando alla letteratura sudamericana, che in questi giorni celebra il cinquantesimo del suo 'boom', con ampio risalto sulle pagine dei giornali di lingua spagnola, si potrebbe interpretare questa sua esplosione come una transizione di una certa parte di umanità dall'infanzia ad una fase più adulta, attraverso quel realismo magico e quella interpretazione del 'fantastico'  che tanto doveva sorprendere la stanca, compassata società europea e nordamericana, la cui civiltà letteraria era comunque detentrice di una posizione di privilegio ormai ingiustificata. O forse dovrei posizione di privilegio ingiusta, più che ingiustificata, dal momento che essa derivava dall'essere gli scrittori sudamericani i rappresentanti dei 'conquistati' e dei discendenti dei 'conquistatori' ormai 'americani' gli uni e gli altri a tutti gli effetti, e contrapposti, in qualche modo, ai rappresentanti della cultura dominante, europea e nordamericana.
   Credo di poter dire, forse sunteggiando eccessivamente, che per la seconda volta, nella storia dell'America Latina, un movimento culturale autoctono supera le barriere della colonia e si afferma oltre l'Atlantico; l'altro fenomeno, ad inizi di novecento, era stato il movimento poetico conosciuto come 'Modernismo', frutto dell'opera del poeta nicaraguense Rubén Darío. Ma in quel caso l'affermazione era dovuta se non esclusivamente almeno in massima parte alla risonanza planetaria di Darío. L'opera di García Marquez, invece, si inserisce in un panorama letterario e politico mondiale notevolmente mutato, e con una forza e una novità di stili e temi dirompenti. Un mondo nuovo si affaccia sulla scena planetaria, rivendicando non solo dignità letteraria, ma umana per il 'Cono Sud'.
   Voglio aggiungegere che gli autori che ho citato fin qui hanno tutti più o meno, e spesso per motivi politici, vissuto in Europa e questo si 'legge' chiaramente dai loro testi, nel senso che essi differiscono da quelli elaborati da scrittori più legati alle proprie origini, o che hanno operato quasi esclusivamente nei paesi dei loro natali. Non per questo, però, ne risultano sminuiti: penso, ad esempio, ad Alejo Carpentier di 'Ecue-Yamba-O'.
   Il panorama letterario e le possibilità di fruizione concesse ai lettori di tutto il mondo sono fortemente cambiati negli ultimi anni: ancora all'epoca della pubblicazione di 'Cent'anni di solitudine' non era facile, per il lettore comune, accedere ai testi di autori sudamericani, per non parlare di quelli africani od asiatici; e devo dire che ancora negli anni ottanta solo la testardaggine mi ha consentito di acquisire molti di quei libri che oggi sfoglio, ingialliti dal tempo; del resto, fino agli anni novanta, non mi pare di ricordare altre opere storico-letterarie, in italiano, oltre a quella del benemerito professor Giuseppe Bellini, un pioniere per quanto riguarda la diffusione in Italia della letteratura ispano-americana. Del resto, a scanso di ossimori, nel provincialistico panorama europeo del tempo, anche la letteratura spagnola del novecento era alquanto 'negletta', escludendoParigi, tant'è che in Italia, almeno relativamente alla poesia, oltre ad Oreste Macrì, Francesco Tentori Montalto e pochi altri, da comune e profano lettore non saprei chi indicare.
   Allo stato attuale, invece, a sapersi destreggiare, bastano pochi clic del mouse perché si materializzino testi di autori di qualsiasi angolo del mondo.Questo lo dobbiamo ad Internet, ovvio, ma non solo: nella corografia dei paesi occidentali qualcosa è profondamente cambiato (vedi Francia, Gran Bretagna), o sta cambiando (Italia, Spagna, Grecia), e la presenza di tanti stranieri, tra i quali molti in possesso di titoli di studio 'equipollenti' a quelli degli 'indigeni' dei vari paesi ospitanti, non può che far bene al dialogo, alla conoscenza reciproca. Giocoforza, la nostra storia diventerà anche la loro storia, e la loro storia -attualmente forse troppo ingabbiata in tante personali microstorie di dolore- anche la nostra: questione di tempo e di preminenze culturali e sociali, o anche, se vogliamo, questione di censi e censimenti.
   Riassumendo: difendiamo, tutti, la storia, quale che sia l'appartenenza, la provenienza, il colore della pelle e, pur non prescindendo dal da dove veniamo, facciamo in modo che la destinazione, il dove andiamo, sia un unico fine comune, per tutti.
   Ero partito parlando di Cortázar, e mi ritrovo a parlare di integrazione tra popoli...mah!

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