La Cervara ripresa da Madonna di Mare , San Cataldo o '98'* (è la stessa cosa). |
…e se violenti e procellosi
spirano i venti da sud e da scilocco il sicuro ricovero è dalla parte contraria
che dicesi Cervara. (G.F.
Pugliese, Descrizione ed istorica narrazione dell’origine, ecc. Napoli 1849.)
In quel tempo rimaneva come sospeso nei pensieri un luogo molto spesso
irraggiungibile, per noi che eravamo i più giovani della compagnia.
'La Cervara': per questa parte di Ionio fatto di litorali perloppiù
sabbiosi, con lidi[1] quasi
sempre o almeno in parte abusivi e dune e sbocchi di fiumare deturpati dalla
presenza di macchinari arrugginiti per l'estrazione di inerti, per noi dicevo
'la Cervara' aveva qualcosa di mitico, già nel nome, con quel suono che
richiamava un animale, il cervo, decisamente fuori luogo.
Noi allora avevamo solo le mani, un costume da bagno e biciclette prese
in prestito, ascoltavamo ammirati i racconti di chissà quali lupi di mare che 'di
notte, alla Cervara…' riuscivano a risalire dalle profondità saline
riportando creature marine dalle dimensioni mostruose: moscardini che
diventavano piovre, saraghi che diventavano aggressivi palamiti, aguglie che
diventavano barracuda, e squali di ogni tipo... quei poveri 'caniceddi'[2]
da infarinare e friggere, un pesce che rassomiglia sì al pescecane, ma è come
accostare il gatto e il leone, più o meno le stesse proporzioni.
Naturalmente, nell'entroterra della Cervara, o più in là, verso Volvito,
dove un tempo c'era una deliziosa stazioncina ferroviaria, letteralmente
immersa tra gli eucalipti e la macchia mediterranea, senza una strada che la
collegasse al resto del mondo, bene, da quelle parti si favoleggiava che si
realizzassero gli incontri amorosi di questi giovani tritoni, allietati da
chissà quali naiadi discinte...che noi, minori di età, immaginavamo con
fervorosa immedesimazione.
C'è di buono che eravamo così disposti a credere alla nostra
immaginazione, che potevamo tranquillamente sorvolare su quanto ci veniva
propinato, al punto che chi raccontava, dopo un po' parlava solo a sé stesso,
mentre la nostra fantasia era già più avanti di qualche miglio.
Il caldo che ci siamo sorbiti in quei tempi era esagerato, faceva sempre
troppo caldo, anche al mare, sicché preferivamo rimanere sotto l'acacia davanti
al bar di Antonij, proprio dietro la stazione: ce ne stavamo sempre lì,
potevamo dare lezioni di portamento a ramarri e gechi per la nostra perfetta
immobilità; ad un certo punto ci siamo accorti che un ramo della nostra acacia più
ambita si era curvato ad immagine delle nostre collottole così affezionate a
quella posa.
Spesso ci domandavano cosa facessimo davanti a quel bar, perché non
andassimo al mare, o –almeno la sera- alla
marina[3]…Incredibile!!!
Noi barattare la lettura dei prezzi della Coppa Rica o il controllo visivo di
ogni minimo movimento d’anca o d’occhi con qualsiasi altra forma di movimento
che non fosse oculare o labiale -intellettivo mi sembra troppo, troppo faticoso,
volevo dire-…
E poi, vuoi mettere il fresco del cemento sotto i piedi con la sabbia
della spiaggia tra le dita, che vi si insinua a giugno e le abbandona non prima
di ottobre?
Alla chiusura delle scuole, le nostre vite si svolgevano davanti e
dentro quel bar, non ci davamo neanche appuntamento: ci sapevamo, e se qualche
volta abbiamo tardato, bene, si è trattato di un evento incontrollabile.
Davanti a quel bar abbiamo udito cose che voi
umani... delle stupidaggini assolute che, non so dire come, diventavano favole,
miti, certezze assolute, nel regno del sentito dire, dove tutto era ammesso, concedendoci
a vicenda di credere alle sciocchezze che ci inventavamo: sapevamo di
favoleggiare, di cercare di ammazzare il tempo, inutilmente provando ad
infilzarlo con fole e trovate: il nostro accordo, tacito ma inderogabile, era
di credere ognuno alle invenzioni dell’altro, ben sapendo quale fosse il limite
invalicabile, oltre il quale non avremmo dovuto osare, dove cioè cominciava il
pericolo dell’invenzione. Le nostre non erano menzogne, ma sogni tirati giù a
forza, in attesa di realizzazione.
Disponevamo di così poco da poter confidare solo nell'intelligenza, o la
sveltezza, la prontezza, l'intuito.
Eravamo molto benvoluti, devo ammettere, tipici liceali senza una lira
in tasca...ai quali prima o poi sarebbe toccato, a loro volta, inventarsi le storie
della Cervara o di Volvito...ma quando mai, già quelli più piccoli ci
sopravanzavano con una arroganza per nulla celata, con qualche motorino
fiammante, qualche paghetta in tasca...
E noi niente, indifferenti, immobili.
Quando era il momento, o meglio, quando non se ne poteva più, ci
incamminavamo fino in paese, proseguivamo alternandoci a piedi e in bicicletta,
a turno, fino a questa mitologica Cervara, e già maledicevo i lupi di mare e
-chissà perché- il Kalevala[4],
forse pensando a cervi di Finlandia (già nominare la Finlandia in Calabria, in
estate, è come fare una doccia gelata, ma insomma... anche se devo dire che
Ilmarinen, nei miei balbettìi, non mi suonava neanche tanto male).
Nicòl[5],
ogni tanto, se ne usciva con qualche scoperta mirabolante: questa sarebbe stata
la volta dell'inarrivabile 'Saetta B'!
In realtà ci eravamo già armati di manici di scopa con forchetta o lama
di coltello fissata ad una estremità, per le battute di pesca alla Cervara, per
la nostra pesca d'altura a donzelle e violini
che, mal che vada, si rimedia qualche patella o riccio!
Quel giorno, invece, Colìn arrivò entusiasmato da questa 'Saetta B', che aveva visto usare da un
suo cugino più grande, Rafèl, e che altro non era che un piccolo fucile ad aria
compressa (esageravo: una specie di
forchettone con tre o cinque punte, azionato da una molla) per la pesca
subacquea: un sogno... già ci vedevamo scendere negli abissi e stanare cernie
mostruose, risalire in superficie chiedendo assistenza per portare a riva l'animale
recalcitrante; sì, potrebbe essere una chiave di lettura, o un ricordo lasciato
riaffiorare con benevolenza...in realtà seguimmo Nicòl immergere a fatica la
testa sotto il pelo dell'acqua, con le spalle che ancora ne affioravano, quando
improvvisamente un urlo disumano ci fece sobbalzare e temere: Nicòl correva
sulle acque e, relicta sagitta[6],
indicava in preda al panico qualcosa in direzione del mare.
Giunto a riva, ci lasciò capire che aveva visto un pesce enorme, un vero
mostro, cercando intanto di calmarsi e invocando San Giorgio, non per il drago,
ma per una abitudine che gli conoscevamo
(Ahi a Santu Giorg!!![7])
Dopo un paio di minuti, sentimmo dalle labbra di uno sconosciuto
bagnante sgorgare due labiali, esplosive come non mai, due lettere bi che
annunciavano ‘’bbuono, iss è bbùon, ca' pummarola!”, e certamente avrà
avuto ragione, poiché il grongo che stava portando a riva non doveva essere
deceduto da tanto tempo, e non occorreva un patologo per capire che il pesce
era caduto da una barca e magari qualche pescatore se ne stava rammaricando in
quel preciso momento: il forestiero non si era neanche bagnato al di sopra
della cintola, quel maledetto reggeva la testa di Oloferne[8]
senza neanche sporcarsi le mani...
In effetti, anche Nicolèdd aveva commesso un errore, di valutazione, di
misura, per così dire, con l'acqua di mare che aveva riempito di paura la sua
maschera alterando le proporzioni del mostro, e meno male che lo sconosciuto
aveva recuperato e restituito anche la miracolosa 'Saetta B', tenendo per sé
solo la salma del grongo dagli occhi da pesce lesso.
Ci avviammo verso il paese, locchi locchi[9],
che vuol dire 'piano piano e con la testa bassa', rimandando il racconto delle
nostre gesta a tempi migliori, che in questo momento mi sfuggono.
marzo 2010
[1]
Per ‘lidi’
si intendono gli stabilimenti balneari, e null’altro.
[2]
‘Caniceddi’,
in italiano significherebbe ‘cagnolini’, e la traduzione sarebbe semplicemente
perfetta, da pesce-cane a pesce-cagnolino: si tratta di una varietà molto
diffusa e di prezzo non eccessivo, perloppiù destinata a larga padella
(‘fressùra ranna’) con abbondante olio.
Ad ogni modo, se non vado errato, dovrebbe trattarsi del pesce noto come 'canesca', 'galeorhinus galeo', appartenente all'ordine 'carcharhiniformes', cioè...pescecani!
Ad ogni modo, se non vado errato, dovrebbe trattarsi del pesce noto come 'canesca', 'galeorhinus galeo', appartenente all'ordine 'carcharhiniformes', cioè...pescecani!
[3]
Quello del ripopolamento dei litorali ionici della Calabria, con la formazione
delle ‘marine’, è un fenomeno per il quale rimanderei a ‘Formazione e sviluppo
di Cirò Marina’, della professoressa Maria Luisa Gentileschi, in ‘Studi
Meridionali’, Roma 1970.
[4]
Se ben ricordo, dovrebbe trattarsi del paradiso dei finlandesi: l’ho appreso
dalla ‘Clessidra’, la mia amata antologia delle medie.
[5]
Nicòl, Colìn, Colinèdd… vorrei tanto avere la preparazione -e sufficiente
intelligenza- per scrivere qualcosa a proposito dell’uso degli alterativi nella
onomastica dialettale; è, questo uso degli alterativi, da non sottovalutarsi:
con un semplice tocco, un passaggio da ‘Totònn’, ad esempio, a ‘Totonnèdd’, o a
‘Totonnùzz’ si dice tanto della condizione e della situazione affettiva e
sociale del nominato, ancor più se ad esempio si passa da ‘Totònn’ a ‘Tònij’ e
da ‘Totonnèdd’ a ‘Toninèdd’…sempre di un Antonio si tratta, ma dentro e dietro
all’uso dell’alterativo c’è tutta una concrezione secolare, che non impedisce
l’immediatezza della scelta del nome. Insomma: si tratta di una scala
classificatoria, per censo e affetti, molto estesa, che in italiano non mi è
dato di riscontrare. O di intendere.
[6]
Non so se qualcuno ha pronunciato prima di me queste due parole, ma mi
piacevano, come ‘rupto corpore’, quella
era la rana che era schiattata, qui è ‘abbandonata la saetta’…ma quasi
quasi vorrei dire ‘sparse le tracce’, tanto, sempre di accusativo alla greca si
tratta (o no?!)
[7]
Anche nelle imprecazioni vale un po’, ma solo un po’, quanto detto alla nota 5.
[8]
Mò, non andiamo troppo per il sottile che Giuditta era femmina e il bagnante
simil-napoletano era maschio…
[9] E’
uso corrente presso i ‘naturali’ di Cirò, e sua Marina, raddoppiare l’aggettivo
o il sostantivo, sia nella formazione del superlativo (‘rannu rannu’ per
‘grandissimo’) sia nella realizzazione, p. e., del complemento di moto
per luogo: ‘a ruva a ruva’, ‘per le strade del rione’, ‘a casa a casa’, ‘per
casa’, o nell’espressione del modo: ‘loccu loccu’, ‘quetu quetu’, ‘a rasa a
rasa’…eccetera (eccetera).
*98
significa km 198 (è abbreviato per gli amici...) della linea
ferroviaria Taranto-Reggio Calabria C.le, la favolosa 'jonica', che
tocca anche Medellìn, Cali, o forse Cartagena e Barranquilla, ma di sicuro,
e solo volendolo, sfiora e accarezza tutte le/i Macondo che non si staccano dall'anima...
**
nel testo ci sono degli errori e delle inesattezze, non darti pena, mio
unico lettore/passante: li lascio così, sono le cose che mi vengono
meno peggio, gli uni e le altre e poi... mi divertono!
Nessun commento:
Posta un commento