Tra quelle persone ritratte nella cartolina della stazione di Cirò ci sarà quasi sicuramente anche mio padre, col suo cappelluccio da dipendente della Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato, perlomeno mi sembra di riconoscerlo, al pari di tanti altri suoi colleghi i cui nomi e cognomi mi suonano ancora, seppure in forma attutita, familiari o quasi. Molti erano reduci e combattenti, e per questo motivo ebbero quella che per loro, negli anni '50, era una piccola fortuna: l'assunzione in ferrovia, in cambio della partecipazione 'nzarvamente' ad una guerra. Nei dintorni di quella stazione, al suo interno, nel suo ambito - come si è usi dire in gergo ferroviario - ho vissuto la parte della mia vita che doveva essere, e in parte lo è stata, quella più spensierata, o almeno quella più carica di speranze, comprese quelle che ho avuto la presunzione di non cogliere o sfruttare, a volte in cambio di un chisciottismo, di una malinconia, di tanti pensieri in fondo spropositati per quella mia età, che di certo non hanno fatto di me una persona migliore di quella che sono. Mi sono sbagliato.
di tutte le stazioni so il cuore[1]come una nenia, nell'anima il tocco
avvolge i pensieri, gli spettri[2]
hanno tutti i colori a striare la sera
e dimentichi, di catena in catena
hanno occluso i passaggi[3]
e presenziano, silenti
fatti foglie di una sola pagina
sollevata al vento
essi non hanno parole
hanno grembiuli neri[4]
e occhi bordati dalle veglie
sono alunni ferrovieri[5], occhi posati
su un futuro di soli ieri
e mani ancorate al suolo
i miei cuori[6] si scambiano a volte
con quei visi
per un binario di corsa
altre, con due file
asintotiche o parallele
verso un mistero per non morire
la mia anima è fatta di tanti caselli[7]
e tessere, e locali
e scritte che il tempo afferra
anche disegni, a volte, e sconci
di maldestri, estranei messaggeri
sono i muri infiniti le mie stazioni
e non smettono cose tra noi
che dicono il tempo e il sorriso ingrigito,
lento ad aprirsi nell'edera, crepa che si ostina,
campanella[8] quasi di un treno già passato.
[1]
‘Nel deviatoio si distinguono due parti principali: il cambiamento (telaio
degli aghi) e l’incrociamento (cuore).’ Così recitano le istruzioni
ferroviarie… che a volte accolgo come meno impoetiche di quanto si possa
pensare, purché ci si riesca a staccare dal significato immediato degli
enunciati, e farne paradigmi, o più semplicemente pietre di paragone o accenni
a situazioni ‘altre’.
[2]
Gli spettri: le immagini che si materializzano, i ricordi, gli attori che
ancora si agitano su piani solidali coi tempi che li trattengono e
ripropongono. E gli spettri che tutti i colori posseggono e compongono,
artefici delle strie della sera, quasi araldi della notte.
[3]
I passaggi occlusi sono paragonabili a quelle intersezioni tra strade e
ferrovie, i passaggi a livello, ‘presenziabili’, nei casi previsti, da parte di
quegli spettri-ferrovieri di un tempo, silenziosi, dalle parole a stento
leggibili, come se fossero scritte su foglie composte da una sola pagina,
pagina che è anche lato di una foglia, immaginata come sollevata da terra dal
transito del treno. Il ‘guardiano’ del passaggio a livello presenziava il
transito dei treni esponendo i previsti segnali a mano.
[4]
I grembiuli neri, o grigio scuro, erano in dotazione ai ferrovieri di tanti
anni fa.
[5]
Tanti, ma tanti anni fa, esistevano gli ‘alunni’ e gli ‘allievi’. Gli ‘allievi
li ho conosciuti, gli alunni no, o meglio: ho conosciuto ferrovieri che erano
stati assunti come ‘alunni’.
[6]
I ‘cuori’ rimangono immobili, ma fanno comunque parte di quel meccanismo più
complesso che si chiama deviatoio e che, col movimento della sua parte mobile,
il ‘cambiamento’, permette di istradare i rotabili, o le anime, i pensieri,
verso un binario per non morire. Qualcosa del genere sento accadermi, quando i miei cuori
si incrociano con quei visi, e deviano, a posarsi in cerca di un riparo. Il binario di corsa è quello di corretto tracciato.
[7]
I caselli dove ho vissuto, le tessere che le ferrovie concedono a dipendenti e
loro familiari, i locali delle stazioni e i treni locali che ho frequentato,
con le scritte e i disegni a volte sconci, indecifrabili, stranieri.
[8]
La campanella in realtà si chiama ‘suoneria Leopolder’, ‘non tacitabile’, e
suona fino a quando il segnale di protezione della stazione non si ridispone a
via impedita, dopo che il treno lo ha superato. Campanella che sento ancora insistere, anche se di altro mi parla e non dico…
Le stazioni, anche per me, e soprattutto le stazioncine, possiedono una poesia intrinseca; questa è la tua Poesia, che diviene estremamente bella nell'ultima strofa.
RispondiEliminafranca