La poesia,
ammesso che questa lo sia, non sempre è facile da trasmettere. Questo solo a
volte dipende dalla poca o nulla sintonia tra l'offerente e il ricevente. Nel
confondersi dei ruoli, chi scrive diventa un ricettore di impulsi che offre poi
al lettore, chiedendo a quest'ultimo di porsi come un ulteriore demodulatore di
impulsi sensoriali poetici. La poesia moderna è, come d'altronde il mezzo
utilizzato, cioè la parola, estremamente arbitraria. Questa mancanza di schemi non
significa anarchia, o l'arrogarsi, da parte del poeta-proponente, il diritto
di poter 'rifilare' al malcapitato, fiducioso o sprovveduto lettore, qualsiasi
stupidaggine, appellandosi ad una malintesa 'libertà poetica'. Ne deriva che
spesso il lettore 'non capisce ma si adegua', e qui sbaglia, perché egli,
investito da immagini della cui evocazione non è responsabile, avrebbe anche il
diritto ad avere delle spiegazioni. Del resto, se la poesia insegnata nelle
scuole non prevedesse una esegesi da parte del docente e del discente,
servirebbe a poco, ad impartire, al massimo, delle lezioni di metrica - quando
è presente nei testi - o ad un esercizio mnemonico senza altro fine formativo.
Che nel web qualcuno vi spieghi cosa voleva dire con una certa 'immagine
poetica' potete scordarvelo... prendiamolo come un atto di liberalità nei
confronti dei lettori, abbandonati a intendere fischi per fiaschi. Per quanto
mi riguarda, delle cose che mi passa per la testa di materializzare su
questa lavagnetta virtuale, posso anche parlarne, soprattutto degli errori
e delle intenzioni poco o punto realizzate... 'Poco o punto realizzate...' E
dài, Catà! Che significa 'sta cosa? S'ha parràr, parra... (Se devi
parlare, parla...).
Parlo.
E' morto zzu Luigi, il più piccolo dei fratelli di mio
padre. Quanti anni avesse non è importante. Le statistiche sanno essere più o
meno dolorose, ma in questo caso non pesano, come dato finale. L'immagine dei
miei zii e di mio padre si è materializzata, si è proposta, come quella dei passeri sul fil di
ferro d'inverno.
Mi hanno parlato nella maniera di sempre, con le
parole imparate con l'assunzione del latte materno e della zia che mi ha fatto
da nutrice.
Li ho visti come cardellini tremolanti, infreddoliti,
rassegnati, consci. E memori di un altro tempo in cui stringersi, sentirsi
vicini, e affrontare il mondo, le avversità, la terra dura della loro
provenienza bracciantile.
Ora che giunge la loro ora, cadono da soli, non
occorre che qualcuno li spinga. Di strano ci sono quelle mani sconosciute che
li sollevano per portarli via per sempre, passando per quella strada che era
per loro il mezzo per raggiungere quanto avessero di più caro: la casa.
Quelle parole mi dicono di farmi attento alle voci dei
cardellini, al rumore della pioggia che si agita nei pluviali, a quel filo che
ancora si muove, perché la dipartita è recente, e quello staccarsi si
ripercuote nel metallo che dondola come un dente, e non smette, ché ci sono
ancora altri cardellini su quel filo, spauriti, ma forse si tratta solo del vento che si agita tra le fronde,
che non vuole lasciare quegli ulivi, chissà..., forse zio Luigi è già un'ombra
che si attarda disperatamente, che inciampa per non andare via...
Tornando alla premessa, questo è quello che ho
sentito: se sono riuscito a trasmetterlo, forse si tratta di una immagine
poetica che attraverso le mie parole è scivolata nei sentimenti di altre
persone. Se così non è, questo messaggio ha un solo destinatario: me stesso, e
in questo caso non oserei parlare di poesia, ma solo di sfogo o esercizio
personale.
Ciao.
I CARDIDDI.
'ntrègula...[1]I CARDIDDI.
‘un[4]
ciàncin
sì e
no si motichìjn[5]
mo'
si tùmmin[8] sul
ccù
nessùn ca l'ammùtta
o
pènzca[9] sù si
man 'e stran
ca
s'i[10]
mpèsin ‘mmenz a vìa
'ntrègul[11] i
cardìdd, u rumùr di guttàl,
e u
fil c'ancòra si toculìa[12]
ascolta...
i
cardellini sul filo
non
pigolano
a
malapena si muovono
stavano
stretti, un tempo, e si tenevano...
ora
cadono da soli
senza
che nessuno li spinga
o
forse sono queste mani estranee
a
portarseli a spalle per la via
ascolta
i cardellini, questo rumore nei pluviali
e il
filo che si muove ancora e appena
o è
solo il vento che soffia di tra gli ulivi, chissà...
un'ombra
che inciampando indugia per la via.
[1]
‘ntregulàr è più precisamente ‘origliare’, ‘prestare orecchio con
attenzione’; l’espressione ‘ascolta’ è assolutamente rara nei dialetti
calabresi, a tutto vantaggio dell’uso di ‘sent’, ‘sent ccà’; infatti è una
delle rarissime volte che uso questa espressione: non mi piace dire ‘ascolta’,
tantomeno ‘ascoltami’, è più forte di me.
[2] Ricorro a questa forma grafica, ‘d’i’
cercando di rendere la preposizione articolata ‘dei’; il perché mi
riesce difficile da spiegare: si tratta di qualcosa che sento, come se nel mio
dialetto di origine le due componenti di + le non fossero accoppiabili. Ma
questo è solo un mio ghiribizzo.
[3]
L’immagine che mi si è presentata è quella dei cardellini, ma in realtà i
passeri sarebbero più compatibili con la scena.
[4]
Scrivo ‘un, ad indicare l’aferesi subita dalla negazione non.
[5]
Motichijàr indica un movimento lento e talora abbinato ad una
certa cautela; qui nella sua forma riflessiva.
[6]
‘ncutt indica stretta vicinanza fisica, congiunzione, aderenza, ma senza
alcun richiamo erotico, e questo, specie in un dialetto, è apprezzabile; la
forma superlativa, e probabilmente più usata, si forma ricorrendo al
raddoppiamento lessicale, come è norma nel cirotano: ‘ncutt ‘ncutt.
[7]
Come alla nota 4.
[8]
Tummàr, qui in forma riflessiva, si può tradurre ‘cadere’, ma con una
certa imprecisione: tummàr è come il dantesco cadere di ‘come corpo morto
cade’, insomma è un cadere ‘tragico’, accanto all’uso, pure previsto, di un
cadere più ‘quotidiano’.
[9]
Penzca corrisponderebbe a ‘penso che’, ma è generalmente sentito e usato
come avverbio ad indicare probabilità, e si pronuncia attaccato, a differenza
del sintagma penz ca, ‘credo che’.
[10]
Se scrivessi si ‘mpèsin, il significato sarebbe: ‘si prendono su, si
caricano del peso di… e se ne vanno’ (la relazione con ‘andare’ è sottintesa);
se scrivo s’i ‘mpèsin, voglio significare ‘se li prendono su… e vanno’. Potrei
scrivere sì, ma non uso questa forma per poter mantenere la distinzione
dal sì affermazione.
[11]
Il troncamento è dovuto ad un fenomeno di eufonia.
[12]
Toculijàr è un altro movimento lento, accorto, ma anche dolente, come
quello del dente nel suo alveolo; qui è usato n forma riflessiva, ma uno dei
significati nella forma transitiva è quello di toccare qualcuno o qualcosa per
vedere se si muove o se ‘ancora’ si muove.
[13]
L’espressione più comune di questo locativo non prevede il de che ho
usato.
[14]
Chisà non differisce molto da penzca.
[15]
Scommettiamo che ‘ntroppicàr e attroppicàr, sono l’equivalente
dello spagnolo ‘tropezar’?
Mi hai fatto pensare a Quasimodo. La trovo una bella poesia delicata e struggente; mi aveva colpito molto quella caduta dal filo, ma il tuo commento-spiegazione ha illuminato tutto il testo.
RispondiEliminaciao
franca