Le
bare sono accatastate, il magazzino è cadente, il portone è
sgangherato, una grossa catena stringe i due battenti, non lo
conoscevo questo deposito a una sola fila di case dal mare... ne
conoscevo un altro, in via Roma, un po' all'interno, con le porte
semiaperte, una volta mi ci sono nascosto per sbaglio, e per poco non
ne uscivo morto di paura...
La
bara la sceglie tuo nipote, porta il tuo nome, una bara intonata alla
tua età, decorosa, una bara, in fondo, è per sempre, è l'ultimo
vestito buono, quello che a nessuno si può o si dovrebbe negare,
almeno allo stato dell'arte, o delle cose, o di come, più
semplicemente, intendiamo la vita e la morte, almeno da questa parte
del mondo...
Il
ragazzo ti ha visto morire, sulle prime non capiva, ha pianto e
rimesso, ma ha anche eseguito quanto gli avevo detto di fare, e senza
sbagliare, come gli dicevo io, zio paterno, senza piangere, io piango
sempre dopo, quando sarà quasi fuori luogo quel nodo in gola che mi
taglia le parole.
E'
strano, ma non riesco mai a ricordare bene il giorno in cui hai
deciso che poteva bastare, la data dico, ma non dimentico mai l'ora
esatta, le 23.35, e so anche perchè hai aspettato quegli altri
cinque minuti, il tuo udito ti tradiva da tempo, e volevi essere
certo che quello che avevi sentito fosse il fischio del treno da
Milano, “del Milano”, come diciamo da queste parti, che non si
confondesse con il fischio dell'altro diretto, quello da Roma, volevi
essere certo che io fossi arrivato, nella tua casa di rimpetto alla
stazione, parallela ai binari, non potevi rischiare, non eri sicuro
di ricordare che ero lì da giorni, a guardare la bombola
dell'ossigeno, a bagnarti le labbra, a chiederti di provare a
mangiare qualcosa...
Francesco
cerca di ridere, mi dice “Cià zì, come sta u nonnu?”*,
manca ancora forse un minuto, nemmeno... il fischio del treno,
ripetuto, oggi mi sembra quasi un saluto, sento il rumore della
locomotiva, 'lo spunto alla trazione', ed io che, non so come, forse
reduce da qualche telefilm che non ricordo, dico a quel ragazzo “vai
a prendere uno specchio, per favore, piccolo”,
il sorriso gli si blocca sullo stomaco, piange, mi porta lo specchio,
non so se vuole capire, non ho tempo di capire, corre via dalla
nonna, dalla zia, dalla mamma, in cucina, le donne sono lì, stirano
un lenzuolo, deve essere perfetto, il lenzuolo più bello...
Lo
specchio non si è appannato, sento che era quello che volevi.
Il
tuo ultimo respiro, fino all'ultimo respiro.
Più
tardi mi domanderanno come è stato, questo più tardi.
Per
un attimo non si capisce nulla, qui non è previsto morire in
silenzio.
Giusto
o sbagliato, non lo voglio sapere.
Maria,
mia sorella, mi domanda perchè non l'ho chiamata... non rispondo,
forse sono stato egoista, forse quel tuo ultimo sguardo ho voluto
trattenerlo solo per me, non lo so, poi Maria che ha perso da poco un
figlio ci ripensa e mi ringrazia, mi dice che è stato meglio così.
Lo
spero.
Finalmente
ti stacco quel sondino dal naso, allontano la bombola dell'ossigeno,
sfilo il catetere, ti dico che fra un po' sarà ora di vestirsi, che
devi fare la tua bella figura, ci tenevi tanto, almeno fino a una
certa età, a essere un uomo piacente, fino a quando hai deciso che
per stare nel tuo orto, nei tuoi silenzi, nella tua sordità che
nessuno voleva accettare tranne te, anche una canottiera bucata
poteva bastare, e per me eri bello così, quando arrivavo e un poco
arrancando, tirandoti su la cintura, venivi ad accogliermi insieme
alla mia famiglia, scrollandoti di dosso un poco di terra, col tuo
collaudato “chi si dicia a Piacenza?”, “com è jutu u
viaggiu?”, “... 'sa Salernu Reggiocalabbria, n'han semp
abbannunati!”, e a mio figlio che porta il tuo nome il solito
“veni ccà, petto da bersagliere!..., fatti vasari!”**
Chiamo
la guardia medica, un giovane di un paese abbastanza distante, non
capisce, credo abbia sonno e poca voglia di fare la guardia di notte,
gli spiego la strada, gli vado incontro, tanto 'sto qui non capisce,
è inutile, poi finalmente arriva, mi chiede uno specchio,
all'incirca a che ora... si china su mio padre, accerta il decesso,
in qualche modo compila un certificato... e va beh, mi dico che era
necessario, basta che adesso se ne torni a dormire.
Biascica
un buonanotte, condoglianze, allunga una mano, quasi provo tenerezza
a guardarlo andar via.
Andremo
a prendere l'infermiera albanese, è notte e mia cognata la
tranquillizza, resterà lei a guardare i bambini.
L'infermiera
dice che sono stato bravo, che ho saputo prendermi cura di mio padre,
ma che ora è meglio se esco, che le lasci sole, lei e Maria.
Maria
esce dopo una decina di minuti, aspetto dietro la porta chiusa, ha
gli occhi troppo rossi per una che ne ha viste e passate così tante,
mi dice che non è giusto, che ho fatto bene a non insistere per
rimanere nella stanza, che nessuno merita quelle piaghe, che non
potrà mai dimenticarle...
Arrivano
in due, bisognerà spostarlo nell'altra stanza, è bastata
un'occhiata e sanno già dove andrà posizionata la bara, coi quattro
ceri enormi, i fiori, e tutte le altre cose che si materializzano dal
nulla, in verità un poco mi stordisce questa efficienza che neanche
immaginavo... lo avvolgono in un lenzuolo e in un attimo lo
sollevano, devo scansarmi in fretta per lasciarli passare in
corridoio, fino all'altra stanza da dove si vedono, attraverso le
foglie di un fico gigantesco, la collina di Madonna d'Itria, lo
stante del segnale di partenza per i treni (lato Crotone, diresti, da
ex ferroviere), e la stazione stessa, deserta da tempo, frequentata
ormai solo da qualche cane, i cani di Cirò, lenti, trasandati,
indolenti, con la lingua sempre fuori dai denti, e la coda che sfiora
il suolo, che poi risale, quasi con moto pendolare, e penso che
questi cani mi piacciono, che non sono cani da medaglia, che sempre
hanno ricevuto calci, ma forse sono proprio loro quanto di più
libero offre questa terra. O qualche matto.
Sarà
notte di veglia, non voglio lasciarti solo nella tua ultima notte in
questa casa per cui ti sei dannato l'anima e ti sei, a volte, negato
alla famiglia.
Voglio
starti accanto, in questa notte di marzo, di primavera inoltrata e di
domenica delle palme.
Sento
che il mio compito, se di compito si trattava, sta per esaurirsi...
ho staccato dal muro il rametto fiorito di percoco che
ti avevo raccolto, e che avevi riconosciuto in un sorriso quasi
estremo, l'ho affidato alle tue mani insieme all'asparago selvatico
che il giorno prima avevi guardato a lungo, e mi sono seduto accanto
al camino.
Tutt'al
più dopodomani partirò, un altro fischio di treno, prolungato,
lungo lo Ionio, l'Adriatico, la valle padana, fino al mio
appartamento fuori terra, fuori di casa.
Poi
torno, promesso.
12
aprile 2010
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