la foto riproduce un 'istrumento di blocco tipo fs' (immagine presa dal web).
Credo
che la stragrande maggioranza delle persone ignori, giustamente, il
significato e l'esistenza di una persona e di un personaggio
denominato "guardablocco".
Potrei cominciare questa presentazione - o quel che sarà
- di-cendo 'Salve, sono la figura professionale del guardablocco …'
Tagliando corto, potrei anche dire che sono un impiegato
delle ferrovie, un impiegato delle ferrovie con le lettere tutte
minuscole, destinato in una quasi stazione - in verità un posto di
blocco - del Nord Italia, di una linea che corre, o almeno dovrebbe,
da Piacenza a Voghera, che per me, con tutto il rispetto, è già
quanto dire...
Sono venuto quassù da un paesino della Calabria, anzi
"delle Calabrie", come qualcuno si ostina a dire,
certamente non per reminiscenze storiche, ma solo per semplice
sentito dire...
Son venuto fin qui, dicevo, pensando di fermarmi solo
per qualche tempo, portandomi un pacchetto di libri e qualche
speranza giovanile, il tutto, se non perfettamente inutile,
certamente meno utile della provola incartata, dei calzini di
ricambio, della caffettiera e di qualche ricordo che avevo messo non
in una valigia, ma in una grossa borsa, giusto perché un giorno
nessuno avrebbe potuto dirmi - qualora avessi fatto fortuna - che ero
il solito fortunello venuto su con la più che abusata valigia di
cartone...
Ma torniamo al guardablocco...
Discendo da una famiglia di ferrovieri, ma ferrovieri
della gleba, cioè assuntori (tranquilli: non ne esistono più),
guardiani, operai d'armamento... Parole strane, vero? Forse, ma
quando sul "Titolo di viaggio gratuito Bk6" valido per
seimila chilometri leggevo "figlio" e, subito sotto il nome
di mio padre, la qualifica "operaio d'armamento", provavo
puntualmente stupore per quella parola 'armamento', al cui suono non
riuscivo ad immaginare nulla, solo mio padre sulla soglia di casa,
recante nella mano destra una giacchetta lisa, di un nero e di un
grigio indefiniti, con delle mostrine dove una effe ed una esse
aggrovigliate non mi lasciavano distinguere quale delle due lettere,
per come io le vedevo, rappresentasse la serpe femmina e quale il
maschio... e nell'altra mano la pietanziera vuota, con il bordo
sempre unto dell'olio del baccalà e peperoni fritti, immancabili,
icona perpetua del nostro essere calabresi...
Così mio padre tornava e mia madre già rimpiccioliva,
sperando di non dover udire, almeno per un giorno, le urla di
insoddisfazione del marito... Ma quel giorno era sempre un altro
giorno, e così me ne andai. Punto.
Da queste parti, al Nord voglio dire, c'ero già stato
con Totonno mio cugino, durante l'ultimo anno di liceo, e così avevo
potuto vedere il Museo dell'automobile di Torino, di cui non mi
importava assolutamente nulla, ed avevo visto Novara, di cui ricordo
soltanto una panetteria con una coda lunghissima dove le signore
sceglievano i tipi più impensati – almeno per me - di pane,
fors'anche perché ppe mija il pane era di soli due tipi: “pan 'e
casa “ e “pan 'e gghjazza”', cioè pane fatto al forno di casa
(obbligo di durata: almeno quindici giorni, dicasi quindici) oppure
pane del fornaio, di piazza, da signori.
Cos'altro vidi? Ah, sì, un casello delle ferrovie dove
Totonno dormiva e mangiava insieme ad altri tre o quattro ferrovieri
- o rifugiati, se vogliamo - che lavoravano dosando i turni in modo
tale che ci fossero sempre letti disponibili per quelli che
smontavano dal turno di notte.
Anch'io avevo sempre abitato in un casello delle
ferrovie, ma nel mio casello sentivo le risa lucenti delle amiche
delle mie sorelle che venivano a ricamare e cantare e vedevo gli
sguardi malandrini di mio fratello e dei suoi amici, che a modo loro
e a loro volta si riunivano a ricamare con la fantasia.
Invece quel casello ai margini di una risaia, tra
Garbagna e Vespolate, o comunque dalle parti di Mortara (sic!) era
sinceramente troppo, anche troppo isolato, e poiché a quel tempo, di
notte mi capitava ancora di aver paura, mi incollai a Totonno ed
andai con lui a ‘fare la notte’, come si dice in gergo
ferroviario, per indicare il turno di notte.
Totonno, a quel tempo, faceva il guardablocco.
Passato l'ultimo treno della giornata prese un telo
appena più grande della porta di ingresso dell'Ufficio Movimento,
come si chiama il locale dove si trovano gli apparati che deve
manovrare il capostazione o, come in questo caso, il guardablocco, e
lo applicò con la massima cura al telaio della porta, a mo' di
zanzariera.
Il perché lo capii molto bene al risveglio: il telo era
assolutamente nero, ricoperto di zanzare, moscerini e quant'altro:
cominciavo ad avere dei dubbi sulla mia provenienza da una zona un
tempo infestata dalla malaria...
Dei due giorni che scontai in quella piccola prigione
volontaria in mezzo alla risaia, ricordo il figlio del capostazione,
un piccolo detenuto che aspettava che il papà finisse di scontare la
pena: aveva all'incirca dieci anni e una vera maestria sia nel
cacciare le rane intorno alla stazione sia nel concedere, tra un
secchio di rane e l'altro, il consenso per il passaggio del treno, e
poi via, un'altra escursione nei fossi, altre rane ed altro treno:
coda regolare, treno merci, tre colpi, viaggiatori due colpi... e
via, altre rane, altro treno: ma tuo padre che fà? si fida? non ha
paura? e se poi i treni sbattono?
E lui: ma no, mio padre torna presto, è qui in paese
(paese? dove?...) E ancora... vuoi provare? Guarda, si fà così:
adesso chel lì (il guardablocco dell'altra stazione) mi
chiede il consenso per il locale delle 11, il coso (si chiamerebbe
istrumento di blocco: è quel coso buffo, rosso, con due maniglie e
tre occhi che si vede ancora in qualche stazione) farà due volte
dlon dlon, vuol dire che è il treno viaggiatori che vuole
passare, io capisco, picchio qui prima due volte, alzo questa
maniglia e poi pigio ancora una volta su questo pulsante, quello lì
di Vespolate capisce che tutto va come deve andare e fa partire il
treno… sennò sa lui dove cercare mio padre!
....Vuoi provare?
...Ma per carità, non ci penso neanche, me ne torno a
leggere Paesi tuoi, visto che non siamo molto distante.
Ah, piccolo Ottavio, ferroviere in miniatura, forse
avevi intravisto anche tu il mio destino... Del resto lo sapevi che
anch'io ero figlio della rotaia, e tanto non avrei potuto correre
all’infinito, sperando al massimo di sfruttare qualche sosta, ma
mai di fermarmi e incontrare me stesso.
Forse mi sono illuso quando dentro di me ti risposi "io
provare, ma quando mai... "
Ed invece eccomi qua, a fare esattamente quello che tu
facevi da bambino e che io faccio da adulto, tu per l'orgoglio di tuo
padre, io per la rabbia di mio padre.
Cercavo di non accorgermi del passare degli anni, e gli
anni passavano puntuali, proprio come tutti gli anni dalle mie parti
passano le quaglie, ed oggi mi sembra che ogni anno, scomparendo,
abbiano voluto dirmi qualcosa come un ... ah... non ti accorgi...
fai finta di nulla.
Ed io mai mi risolsi a celebrare gli anni, neanche nel
loro giorno estremo.
Non immaginavo che un giorno mi sarei ridotto a contare
e ricontare questi anni, tutti, ad uno ad uno, quasi chiamandoli
follemente per nome, ma con nomi d'invenzione, nomi di triste
fantasia, scanditi da qualche raro cambiamento, ma mai cambiamenti
sostanziali, inversioni di marcia o salti di corsia, solo cose che
seguivano il corso delle cose: una pena inconsistente di sapere di
essere e non sapere essere.
Mi relegai o mi regalai alla mia stazione, al mio posto
di blocco, dove l'unico blocco, col tempo divenni io, che piano piano
cominciavo a sapere tutto di quella specie di Forte Bastiani (e a chi
passa ancora per la testa di leggere di quel deserto dell'anima?)...
cominciai a dare un nome alle traversine, ad accudirle, a ripulirle
degli escrementi dei viaggiatori dei treni in transito, cominciai a
parlare ai segnali, tutto volendo imparare del loro ciclo, del ciclo
che essi compiono per 'disporsi a via libera' e 'ridisporsi a via
impedita', cominciai a dare un nome ai treni che, si sa, prediligono
i numeri per farsi individuare dal grande pubblico, cominciai a
parlare alle leve degli apparati, alle sbarre del passaggio a
livello, e continuai a parlare sempre poco con le rare persone che
ancora frequentavano la stazione, che ormai era quasi del tutto
chiusa al traffico dei viaggiatori, mentre nei primi anni del mio
servizio i ferrovieri più anziani mi parlavano ancora delle manovre
con lo 01, dello 04 sempre in ritardo, tanto spesso abbandonato dal
personale su un binario dello scalo, degli studenti che arrivavano
all'ultimo momento e che volevano non solo prendere il treno, ma
fare anche in tempo a rinnovare l'abbonamento scaduto il giorno
prima...
Ah, che tempi, sembravano dire quei ferrovieri giunti
dalle Puglie o dalle Calabrie, tutti in fila, con la valigia gonfia
di una sola speranza: tornare giù, quel mille volte udito 'tornare
giù' che li perseguitava come la nuvola di Fantozzi.
E giù ci sono tornati quasi tutti, in un modo o
nell'altro, di riffa o di raffa, magari imbrogliando, fingendosi
matti o dandosi anima e corpo a qualche deputatello di provincia,
goloso di voti, di olii, formaggi, paste fatte in casa e quant'altro.
Mentre io no, io qui ci sono rimasto, facendo sempre
tutto ed esattamente il contrario di tutto ciò che era meglio fare,
dimenticando quello che avevo detto al ritorno da quella breve
esperienza tra Torino e Novara, e cioè che mai e poi mai sarei
tornato in quei posti, che comunque c'ero stato ed ero libero di non
rimetterci piede, mai più, e poi via a dissertare coi miei compagni
di liceo sulla superiorità del nord, sulle lotte contadine al sud,
sulla storia della Magna Grecia, o forse dovrei dire sulle storielle
della Magna Grecia, quando a ben guardare si parlava appunto di
greci, e greci più grandi, ma questa dei 'greci più grandi' è già
una citazione... naturalmente non parlai della risaia, della paura
del buio, del sugo mostruoso preparato da Totonno nel casello degli
spettri, dei calzini crocefissi ad asciugare sulla palizzata.
Optai semplicemente per raccontare della facilità con
cui, 'da Roma in su', si conoscono le ragazze, ed io le avevo
conosciute, una, due, tre... Omisi di fare i loro nomi: Antonio,
foggiano, operaio del servizio lavori, Nicola, della provincia di
Salerno, impianti elettrici... Altro che ragazze: tre giorni nel
paradiso d'Italia, dove tutto è raggiungibile, dove tutto è
possibile, ed io che faccio? A diciotto anni, mi ritrovo seduto ad un
tavolo di fòrmica gialla, recuperato da chissà quale discarica, a
mangiare pasta e salsa con Totonno mio cugino, un tale Antonio, un
tale Nicola...
Che fortuna, quel viaggio... mi sentivo invidiato e non
so se aggiungere che mi sentivo bugiardo o capace di tali voli
pindarici: avevo mangiato in un ristorante con mio cugino e con
Antonella e Nicoletta, due ragazze da sogno che abbiamo conosciuto in
un parco a Torino... Almeno non pretesi che qualcuno mi prendesse sul
serio... Però a Torino c'ero stato, giuro.
Ma non ci sono più tornato, mi sono fermato poco oltre
Piacenza, in questo posto da cui non mi sono più staccato, forse
proprio per averlo sentito così alieno da me, così diverso e
minimo, immerso in quelle nebbie a me ignote e nuove da cui lasciarmi
avvolgere o stordire, per vedere appena e per essere visto appena...
In questa nebbia mi allontanavo, mi lasciavo andare, mollavo la
presa, rinunciavo alle lotte eventuali che avrebbero potuto
reclamarmi...
Pensavo io non posso e non voglio incazzarmi, io voglio
osservare e capire, e perciò non devo partecipare: sono state
convinzioni fatali; impossibile, per me, per quel tempo, per quello
che ero, sbagliarmi più rotondamente.
Il dottore dice che in effetti non devo e non posso
incazzarmi, che devo cercare di rimanere tranquillo, che qualunque
cosa accada devo cercare di rimanere sereno: è l'unica! Ma non mi
dice mai a cosa è riferita quella parola 'unica'...
Ma poi ogni volta mi riammettono in servizio; del resto
ormai è tutto quello che so fare, o che mi riesce bene... sono
puntuale, preciso, presente, e non mi porto più neanche il mio
mucchietto di libri da leggere, o meglio da rileggere, tra un treno e
l’altro, no, semplicemente ripeto mentalmente frasi e versi di
quegli stessi libri, ed evito così le occhiatacce di quell'asino di
capotreno che detesto più di tutti... Certo non può immaginare che
mentre lui parla, magari in quel momento la mia testa recita 'a
volte vedo solo bare a vela/salpare con pallidi defunti/con
panettieri bianchi come angeli...', anche se più spesso mi
accade di pensare queste parole durante il transito dei treni: tutti
quei rettangoli di luci, preceduti da un fischio e dalla luce dei
fanali della locomotiva... se fossi capace di invidiare o di
desiderare, credo che un po' mi piacerebbe, come il macchinista,
tirar su il pantografo, spegnere le luci della cabina di guida e
prendere d'infilata tutte le stazioni, salutarle appena, ma non con
il fischio, solo con le luci, per non disturbare...
Invece io sono immobile in questo posto di blocco che è
un po' il mio letto d'ospedale: qui tutto è in ordine, tutto è
pulito, da quando questa stazione è stata chiusa e mi è stato
concesso di farne la manutenzione posso ancora accedere ai registri,
scorrere tutte le pagine dove sono segnati gli orari dei transiti, di
arrivo e di partenza di treni che mai più circoleranno e che neanche
sono in disarmo: le loro locomotive sono state abbattute ed i loro
vagoni sono stati esposti alla sottile vendetta del tempo che già ne
ha avuto ragione, già ha svuotato le loro carcasse e li ha
disinfestati dai sogni che un giorno avevano trasportato da un punto
ad un altro, vicini o lontani che fossero, del mondo.
I treni passavano ed io pensavo, col mio stipendio
meritato di guardablocco di origini calabresi. Tutto qui: pensavo, a
volte anche in italiano, giusto per darmi un tono di fronte a me
stesso, o per rivolgermi a qualche mio mito letterario.
Qualche volta anch'io devo aver pensato che mi sarebbe
piaciuto che quella scatola dove prestavo servizio si trovasse di
fronte allo Ionio, a qualche metro da quel mare che mai ho smesso,
questo sì, di sentire mio... sì, avrei voluto chiedere e concedere
il consenso per il transito d'un qualche treno da Sibari per
Catanzaro Lido, e gustarmi questo treno che transitava vicinissimo
alla linea dell'orizzonte, contando le agavi... chissà, forse avrei
scoperto altri valori in quello che facevo.
Piano piano gli apparati che manovravo mi hanno
abbandonato, o meglio sono stati portati via dagli uomini della
manutenzione, sono stati giudicati e condannati dal tribunale della
tecnologia, sono stati estratti dalla loro sede ed il posto che
occupavano è stato otturato, come se fossero stati la causa di tutte
le lentezze e le inefficienze: nei miei apparati si annidava la carie
più nera e profonda!
Il giorno che portarono via le sbarre del passaggio a
livello che si trovava quasi di fronte alla stazione fu un giorno
tristissimo: non mi sembrava vero che al suo posto bastassero due
blocchi di cemento per lato e la scritta 'strada chiusa': e fino ad
allora, tutta quella attenzione messa nel chiudere, aprire, chiudere,
aprire?
Niente, non serviva a niente e nessuno, era tutto uno
scherzo... tu fingi di chiudere il passagio a livello, le auto fanno
finta di fermarsi, il treno finge di passare, tu fingi di aver visto
il treno, fai rialzare le sbarre, le auto, i pedoni, le bici fingono
di passare e così via durante il giorno, poi di notte un po' di
meno, perché non abbiamo abbastanza persone disposte a giocare anche
di notte...
Ed io mica lo sapevo che consisteva in questo
l'esercizio dei passaggi a livello: sulle istruzioni, per quanto
'apposite', non era contemplato, non credo.
Ad ogni modo il passaggio a livello non c'era più, e mi
resi conto che da qualche ora continuavo a mormorare tra di me
'autunno, già lo sentimmo arrivare... '
Era comunque una apprensione in meno, anzi una bella
preoccupazione in meno...
Gli altri colleghi, le cassandre e le clitennestre, che
già fiutavano l'aria, non persero tempo con le previsioni:
scappiamo, scappiamo, io di qua, tu di là, se tolgono il passaggio a
livello tolgono anche noi, che serviremo sempre meno e poi ci sarà
una nuova tecnologia, qui sarà tutto automatico.... Tu che fai?
Io?!
Io niente, niente di niente, di automatico vedo solo le
sciocchezze, resto, e voglio vedere come va a finire.
Perché che sarebbe andata a finire, almeno questo, non
posso negare di averlo sempre saputo.
E calma, soprattutto.
Quando entro in queste stanze odo solo i miei passi, e
qualche voce in lontananza, forse dal bar non distante, o da qualche
casa isolata. Mi piace udire i miei passi, mi fa credere che sono
libero di ascoltare i miei pensieri, solo che in questa solitudine è
come se rimbombassero dentro di me: sempre più spesso avverto mal di
testa e non riesco a pensare come e quanto vorrei... ci sono
affezionato ai miei pensieri, anche se non hanno nulla di
eccezionale, e devo dire che mi hanno sempre tenuto compagnia, anche
quando mi dicono che è una cattiva compagnia, che ci sono pensieri
sbagliati, che devo distinguere tra i miei pensieri... ma io non ne
sono capace, non riesco a tenere chiusa la porta ai pensieri, non
riesco ad anticiparli, è colpa loro, ecco!
Queste stanze... in quanti eravamo a lavorarci
contemporaneamente? Tre, quattro, cinque... e nessuno che fosse
silenzioso, ce ne fosse stato uno, tutti sempre con qualcosa da dire,
le scazzate comari di Windsor... Però quello che c'era da fare
veniva fatto, soprattutto da chi faceva anche il lavoro degli altri.
Quante volte mi fermavo ad osservare questa briciola di società,
cercando di non darlo a vedere... Che teste... la fine del mese
innanzitutto, il venticinque, il giorno di stipendio sopra tutto, che
tristezza... Ora non ci sono più quelle persone, che non ho mai
chiamato e considerato colleghi o amici, ed in fondo mi mancano...
Mi avvicinano i silenzi a queste stanze, inabitate, rese
vuote.
La capacità di udire si è moltiplicata, ascolto il
pulsare del mio sangue, le tempie battono liberamente, mi ritrovo a
ordinare pensieri che il tempo ha sfilacciato inesorabilmente, qui,
in questo angolo di pianura, dove puntualmente come un Orfeo confuso
mi volto, ma volutamente, certamente, inevitabilmente, a guardare il
giorno, il mio giorno, senza fare nulla per evitare che esso
sprofondi fino a sera.
Sarò qui per l'ultimo treno, quello definitivo, quello
che chiuderà il conto...
Salirò sul treno per Krimisa, Hipponion, Locri
Epizefiri, un treno sospinto da piccoli opliti, un treno per Reggio,
dove pensavo, da bambino, che finisse la ferrovia, che non ci fosse
nulla oltre, che alla fine dei binari i treni fossero inghiottiti
dalla fata Morgana, e invece rinascevano appena dopo mezzanotte, col
primo diretto per Bari, quello che mi svegliava ogni notte e il mio
sudore cercava il sudore ferito di mia madre.
Ma per l'ultimo treno, per quello c'è sempre tempo, e
posto al finestrino.
Dicembre
2003.
Sono completamente dentro questa storia, mi fai venire voglia di essere quardiablocco e anche nebbiosa pianura. Forse è questa la magia del raccontare, la possibilità concessa di andare avanti. Fascinazione assoluta.
RispondiEliminaR&V
Mio caro amico... dette da te, queste parole assumono per me una importanza particolare, perché so bene che leggendo non ti sarai fermato alla superficie delle righe, e potresti anche farmi pentire di non aver mai cominciato a scrivere seriamente, secondo i canoni correnti. Ma mi sarebbe sembrato di chiedere troppo, e a me basta dare. Grazie.
RispondiEliminaDimeticavo, mio caro R&V, che nel tuo commento hai usato il termine 'guardiablocco', e devo dirti che questa dizione è quella esatta e contemplata dai regolamenti. La parola 'guardablocco'da me usata ha motivazioni che credo non necessitino di spiegazioni...
RispondiEliminaAnch'io non ho voluto scrivere per trent'anni. Poi, armandomi di leggerezza, mi sono detto: perché no, lo farò giocando. In realtà, il gioco non esiste, ma ormai... Quel che davvero non so è se sarò capace di rifarlo. Come dici tu : boh!
RispondiEliminaR&V
Sembra più un viaggio "onirico" che un tuffo nel passato. Comunque sensazioni forti che solo le ferrovie di un tempo sapevano dare, e bravo l'autore che riesce a trasmettere un così intenso sentire.
RispondiEliminaParola del guardablocco che fui.
L'anonimo 'guardiablocco che fu' dice bene, quasi certamente... io non lo so più, è passato troppo tempo. E troppi treni. Grazie.
RispondiElimina