sabato 25 maggio 2013

Il guardablocco.

  la foto riproduce un 'istrumento di blocco tipo fs' (immagine presa dal web).
Credo che la stragrande maggioranza delle persone ignori, giustamente, il significato e l'esistenza di una persona e di un personaggio denominato "guardablocco".
Potrei cominciare questa presentazione - o quel che sarà - di-cendo 'Salve, sono la figura professionale del guardablocco …'
Tagliando corto, potrei anche dire che sono un impiegato delle ferrovie, un impiegato delle ferrovie con le lettere tutte minuscole, destinato in una quasi stazione - in verità un posto di blocco - del Nord Italia, di una linea che corre, o almeno dovrebbe, da Piacenza a Voghera, che per me, con tutto il rispetto, è già quanto dire...
Sono venuto quassù da un paesino della Calabria, anzi "delle Calabrie", come qualcuno si ostina a dire, certamente non per reminiscenze storiche, ma solo per semplice sentito dire...
Son venuto fin qui, dicevo, pensando di fermarmi solo per qualche tempo, portandomi un pacchetto di libri e qualche speranza giovanile, il tutto, se non perfettamente inutile, certamente meno utile della provola incartata, dei calzini di ricambio, della caffettiera e di qualche ricordo che avevo messo non in una valigia, ma in una grossa borsa, giusto perché un giorno nessuno avrebbe potuto dirmi - qualora avessi fatto fortuna - che ero il solito fortunello venuto su con la più che abusata valigia di cartone...
Ma torniamo al guardablocco...
Discendo da una famiglia di ferrovieri, ma ferrovieri della gleba, cioè assuntori (tranquilli: non ne esistono più), guardiani, operai d'armamento... Parole strane, vero? Forse, ma quando sul "Titolo di viaggio gratuito Bk6" valido per seimila chilometri leggevo "figlio" e, subito sotto il nome di mio padre, la qualifica "operaio d'armamento", provavo puntualmente stupore per quella parola 'armamento', al cui suono non riuscivo ad immaginare nulla, solo mio padre sulla soglia di casa, recante nella mano destra una giacchetta lisa, di un nero e di un grigio indefiniti, con delle mostrine dove una effe ed una esse aggrovigliate non mi lasciavano distinguere quale delle due lettere, per come io le vedevo, rappresentasse la serpe femmina e quale il maschio... e nell'altra mano la pietanziera vuota, con il bordo sempre unto dell'olio del baccalà e peperoni fritti, immancabili, icona perpetua del nostro essere calabresi...
Così mio padre tornava e mia madre già rimpiccioliva, sperando di non dover udire, almeno per un giorno, le urla di insoddisfazione del marito... Ma quel giorno era sempre un altro giorno, e così me ne andai. Punto.
Da queste parti, al Nord voglio dire, c'ero già stato con Totonno mio cugino, durante l'ultimo anno di liceo, e così avevo potuto vedere il Museo dell'automobile di Torino, di cui non mi importava assolutamente nulla, ed avevo visto Novara, di cui ricordo soltanto una panetteria con una coda lunghissima dove le signore sceglievano i tipi più impensati – almeno per me - di pane, fors'anche perché ppe mija il pane era di soli due tipi: “pan 'e casa “ e “pan 'e gghjazza”', cioè pane fatto al forno di casa (obbligo di durata: almeno quindici giorni, dicasi quindici) oppure pane del fornaio, di piazza, da signori.
Cos'altro vidi? Ah, sì, un casello delle ferrovie dove Totonno dormiva e mangiava insieme ad altri tre o quattro ferrovieri - o rifugiati, se vogliamo - che lavoravano dosando i turni in modo tale che ci fossero sempre letti disponibili per quelli che smontavano dal turno di notte.
Anch'io avevo sempre abitato in un casello delle ferrovie, ma nel mio casello sentivo le risa lucenti delle amiche delle mie sorelle che venivano a ricamare e cantare e vedevo gli sguardi malandrini di mio fratello e dei suoi amici, che a modo loro e a loro volta si riunivano a ricamare con la fantasia.
Invece quel casello ai margini di una risaia, tra Garbagna e Vespolate, o comunque dalle parti di Mortara (sic!) era sinceramente troppo, anche troppo isolato, e poiché a quel tempo, di notte mi capitava ancora di aver paura, mi incollai a Totonno ed andai con lui a ‘fare la notte’, come si dice in gergo ferroviario, per indicare il turno di notte.
Totonno, a quel tempo, faceva il guardablocco.
Passato l'ultimo treno della giornata prese un telo appena più grande della porta di ingresso dell'Ufficio Movimento, come si chiama il locale dove si trovano gli apparati che deve manovrare il capostazione o, come in questo caso, il guardablocco, e lo applicò con la massima cura al telaio della porta, a mo' di zanzariera.
Il perché lo capii molto bene al risveglio: il telo era assolutamente nero, ricoperto di zanzare, moscerini e quant'altro: cominciavo ad avere dei dubbi sulla mia provenienza da una zona un tempo infestata dalla malaria...
Dei due giorni che scontai in quella piccola prigione volontaria in mezzo alla risaia, ricordo il figlio del capostazione, un piccolo detenuto che aspettava che il papà finisse di scontare la pena: aveva all'incirca dieci anni e una vera maestria sia nel cacciare le rane intorno alla stazione sia nel concedere, tra un secchio di rane e l'altro, il consenso per il passaggio del treno, e poi via, un'altra escursione nei fossi, altre rane ed altro treno: coda regolare, treno merci, tre colpi, viaggiatori due colpi... e via, altre rane, altro treno: ma tuo padre che fà? si fida? non ha paura? e se poi i treni sbattono?
E lui: ma no, mio padre torna presto, è qui in paese (paese? dove?...) E ancora... vuoi provare? Guarda, si fà così: adesso chel lì (il guardablocco dell'altra stazione) mi chiede il consenso per il locale delle 11, il coso (si chiamerebbe istrumento di blocco: è quel coso buffo, rosso, con due maniglie e tre occhi che si vede ancora in qualche stazione) farà due volte dlon dlon, vuol dire che è il treno viaggiatori che vuole passare, io capisco, picchio qui prima due volte, alzo questa maniglia e poi pigio ancora una volta su questo pulsante, quello lì di Vespolate capisce che tutto va come deve andare e fa partire il treno… sennò sa lui dove cercare mio padre!
....Vuoi provare?
...Ma per carità, non ci penso neanche, me ne torno a leggere Paesi tuoi, visto che non siamo molto distante.
Ah, piccolo Ottavio, ferroviere in miniatura, forse avevi intravisto anche tu il mio destino... Del resto lo sapevi che anch'io ero figlio della rotaia, e tanto non avrei potuto correre all’infinito, sperando al massimo di sfruttare qualche sosta, ma mai di fermarmi e incontrare me stesso.
Forse mi sono illuso quando dentro di me ti risposi "io provare, ma quando mai... "
Ed invece eccomi qua, a fare esattamente quello che tu facevi da bambino e che io faccio da adulto, tu per l'orgoglio di tuo padre, io per la rabbia di mio padre.
Cercavo di non accorgermi del passare degli anni, e gli anni passavano puntuali, proprio come tutti gli anni dalle mie parti passano le quaglie, ed oggi mi sembra che ogni anno, scomparendo, abbiano voluto dirmi qualcosa come un ... ah... non ti accorgi... fai finta di nulla.
Ed io mai mi risolsi a celebrare gli anni, neanche nel loro giorno estremo.
Non immaginavo che un giorno mi sarei ridotto a contare e ricontare questi anni, tutti, ad uno ad uno, quasi chiamandoli follemente per nome, ma con nomi d'invenzione, nomi di triste fantasia, scanditi da qualche raro cambiamento, ma mai cambiamenti sostanziali, inversioni di marcia o salti di corsia, solo cose che seguivano il corso delle cose: una pena inconsistente di sapere di essere e non sapere essere.
Mi relegai o mi regalai alla mia stazione, al mio posto di blocco, dove l'unico blocco, col tempo divenni io, che piano piano cominciavo a sapere tutto di quella specie di Forte Bastiani (e a chi passa ancora per la testa di leggere di quel deserto dell'anima?)... cominciai a dare un nome alle traversine, ad accudirle, a ripulirle degli escrementi dei viaggiatori dei treni in transito, cominciai a parlare ai segnali, tutto volendo imparare del loro ciclo, del ciclo che essi compiono per 'disporsi a via libera' e 'ridisporsi a via impedita', cominciai a dare un nome ai treni che, si sa, prediligono i numeri per farsi individuare dal grande pubblico, cominciai a parlare alle leve degli apparati, alle sbarre del passaggio a livello, e continuai a parlare sempre poco con le rare persone che ancora frequentavano la stazione, che ormai era quasi del tutto chiusa al traffico dei viaggiatori, mentre nei primi anni del mio servizio i ferrovieri più anziani mi parlavano ancora delle manovre con lo 01, dello 04 sempre in ritardo, tanto spesso abbandonato dal personale su un binario dello scalo, degli studenti che arrivavano all'ultimo momento e che volevano non solo prendere il treno, ma fare anche in tempo a rinnovare l'abbonamento scaduto il giorno prima...
Ah, che tempi, sembravano dire quei ferrovieri giunti dalle Puglie o dalle Calabrie, tutti in fila, con la valigia gonfia di una sola speranza: tornare giù, quel mille volte udito 'tornare giù' che li perseguitava come la nuvola di Fantozzi.
E giù ci sono tornati quasi tutti, in un modo o nell'altro, di riffa o di raffa, magari imbrogliando, fingendosi matti o dandosi anima e corpo a qualche deputatello di provincia, goloso di voti, di olii, formaggi, paste fatte in casa e quant'altro.
Mentre io no, io qui ci sono rimasto, facendo sempre tutto ed esattamente il contrario di tutto ciò che era meglio fare, dimenticando quello che avevo detto al ritorno da quella breve esperienza tra Torino e Novara, e cioè che mai e poi mai sarei tornato in quei posti, che comunque c'ero stato ed ero libero di non rimetterci piede, mai più, e poi via a dissertare coi miei compagni di liceo sulla superiorità del nord, sulle lotte contadine al sud, sulla storia della Magna Grecia, o forse dovrei dire sulle storielle della Magna Grecia, quando a ben guardare si parlava appunto di greci, e greci più grandi, ma questa dei 'greci più grandi' è già una citazione... naturalmente non parlai della risaia, della paura del buio, del sugo mostruoso preparato da Totonno nel casello degli spettri, dei calzini crocefissi ad asciugare sulla palizzata.
Optai semplicemente per raccontare della facilità con cui, 'da Roma in su', si conoscono le ragazze, ed io le avevo conosciute, una, due, tre... Omisi di fare i loro nomi: Antonio, foggiano, operaio del servizio lavori, Nicola, della provincia di Salerno, impianti elettrici... Altro che ragazze: tre giorni nel paradiso d'Italia, dove tutto è raggiungibile, dove tutto è possibile, ed io che faccio? A diciotto anni, mi ritrovo seduto ad un tavolo di fòrmica gialla, recuperato da chissà quale discarica, a mangiare pasta e salsa con Totonno mio cugino, un tale Antonio, un tale Nicola...
Che fortuna, quel viaggio... mi sentivo invidiato e non so se aggiungere che mi sentivo bugiardo o capace di tali voli pindarici: avevo mangiato in un ristorante con mio cugino e con Antonella e Nicoletta, due ragazze da sogno che abbiamo conosciuto in un parco a Torino... Almeno non pretesi che qualcuno mi prendesse sul serio... Però a Torino c'ero stato, giuro.
Ma non ci sono più tornato, mi sono fermato poco oltre Piacenza, in questo posto da cui non mi sono più staccato, forse proprio per averlo sentito così alieno da me, così diverso e minimo, immerso in quelle nebbie a me ignote e nuove da cui lasciarmi avvolgere o stordire, per vedere appena e per essere visto appena... In questa nebbia mi allontanavo, mi lasciavo andare, mollavo la presa, rinunciavo alle lotte eventuali che avrebbero potuto reclamarmi...
Pensavo io non posso e non voglio incazzarmi, io voglio osservare e capire, e perciò non devo partecipare: sono state convinzioni fatali; impossibile, per me, per quel tempo, per quello che ero, sbagliarmi più rotondamente.
Il dottore dice che in effetti non devo e non posso incazzarmi, che devo cercare di rimanere tranquillo, che qualunque cosa accada devo cercare di rimanere sereno: è l'unica! Ma non mi dice mai a cosa è riferita quella parola 'unica'...
Ma poi ogni volta mi riammettono in servizio; del resto ormai è tutto quello che so fare, o che mi riesce bene... sono puntuale, preciso, presente, e non mi porto più neanche il mio mucchietto di libri da leggere, o meglio da rileggere, tra un treno e l’altro, no, semplicemente ripeto mentalmente frasi e versi di quegli stessi libri, ed evito così le occhiatacce di quell'asino di capotreno che detesto più di tutti... Certo non può immaginare che mentre lui parla, magari in quel momento la mia testa recita 'a volte vedo solo bare a vela/salpare con pallidi defunti/con panettieri bianchi come angeli...', anche se più spesso mi accade di pensare queste parole durante il transito dei treni: tutti quei rettangoli di luci, preceduti da un fischio e dalla luce dei fanali della locomotiva... se fossi capace di invidiare o di desiderare, credo che un po' mi piacerebbe, come il macchinista, tirar su il pantografo, spegnere le luci della cabina di guida e prendere d'infilata tutte le stazioni, salutarle appena, ma non con il fischio, solo con le luci, per non disturbare...
Invece io sono immobile in questo posto di blocco che è un po' il mio letto d'ospedale: qui tutto è in ordine, tutto è pulito, da quando questa stazione è stata chiusa e mi è stato concesso di farne la manutenzione posso ancora accedere ai registri, scorrere tutte le pagine dove sono segnati gli orari dei transiti, di arrivo e di partenza di treni che mai più circoleranno e che neanche sono in disarmo: le loro locomotive sono state abbattute ed i loro vagoni sono stati esposti alla sottile vendetta del tempo che già ne ha avuto ragione, già ha svuotato le loro carcasse e li ha disinfestati dai sogni che un giorno avevano trasportato da un punto ad un altro, vicini o lontani che fossero, del mondo.
I treni passavano ed io pensavo, col mio stipendio meritato di guardablocco di origini calabresi. Tutto qui: pensavo, a volte anche in italiano, giusto per darmi un tono di fronte a me stesso, o per rivolgermi a qualche mio mito letterario.
Qualche volta anch'io devo aver pensato che mi sarebbe piaciuto che quella scatola dove prestavo servizio si trovasse di fronte allo Ionio, a qualche metro da quel mare che mai ho smesso, questo sì, di sentire mio... sì, avrei voluto chiedere e concedere il consenso per il transito d'un qualche treno da Sibari per Catanzaro Lido, e gustarmi questo treno che transitava vicinissimo alla linea dell'orizzonte, contando le agavi... chissà, forse avrei scoperto altri valori in quello che facevo.
Piano piano gli apparati che manovravo mi hanno abbandonato, o meglio sono stati portati via dagli uomini della manutenzione, sono stati giudicati e condannati dal tribunale della tecnologia, sono stati estratti dalla loro sede ed il posto che occupavano è stato otturato, come se fossero stati la causa di tutte le lentezze e le inefficienze: nei miei apparati si annidava la carie più nera e profonda!
Il giorno che portarono via le sbarre del passaggio a livello che si trovava quasi di fronte alla stazione fu un giorno tristissimo: non mi sembrava vero che al suo posto bastassero due blocchi di cemento per lato e la scritta 'strada chiusa': e fino ad allora, tutta quella attenzione messa nel chiudere, aprire, chiudere, aprire?
Niente, non serviva a niente e nessuno, era tutto uno scherzo... tu fingi di chiudere il passagio a livello, le auto fanno finta di fermarsi, il treno finge di passare, tu fingi di aver visto il treno, fai rialzare le sbarre, le auto, i pedoni, le bici fingono di passare e così via durante il giorno, poi di notte un po' di meno, perché non abbiamo abbastanza persone disposte a giocare anche di notte...
Ed io mica lo sapevo che consisteva in questo l'esercizio dei passaggi a livello: sulle istruzioni, per quanto 'apposite', non era contemplato, non credo.
Ad ogni modo il passaggio a livello non c'era più, e mi resi conto che da qualche ora continuavo a mormorare tra di me 'autunno, già lo sentimmo arrivare... '
Era comunque una apprensione in meno, anzi una bella preoccupazione in meno...
Gli altri colleghi, le cassandre e le clitennestre, che già fiutavano l'aria, non persero tempo con le previsioni: scappiamo, scappiamo, io di qua, tu di là, se tolgono il passaggio a livello tolgono anche noi, che serviremo sempre meno e poi ci sarà una nuova tecnologia, qui sarà tutto automatico.... Tu che fai?
Io?!
Io niente, niente di niente, di automatico vedo solo le sciocchezze, resto, e voglio vedere come va a finire.
Perché che sarebbe andata a finire, almeno questo, non posso negare di averlo sempre saputo.
E calma, soprattutto.
Quando entro in queste stanze odo solo i miei passi, e qualche voce in lontananza, forse dal bar non distante, o da qualche casa isolata. Mi piace udire i miei passi, mi fa credere che sono libero di ascoltare i miei pensieri, solo che in questa solitudine è come se rimbombassero dentro di me: sempre più spesso avverto mal di testa e non riesco a pensare come e quanto vorrei... ci sono affezionato ai miei pensieri, anche se non hanno nulla di eccezionale, e devo dire che mi hanno sempre tenuto compagnia, anche quando mi dicono che è una cattiva compagnia, che ci sono pensieri sbagliati, che devo distinguere tra i miei pensieri... ma io non ne sono capace, non riesco a tenere chiusa la porta ai pensieri, non riesco ad anticiparli, è colpa loro, ecco!
Queste stanze... in quanti eravamo a lavorarci contemporaneamente? Tre, quattro, cinque... e nessuno che fosse silenzioso, ce ne fosse stato uno, tutti sempre con qualcosa da dire, le scazzate comari di Windsor... Però quello che c'era da fare veniva fatto, soprattutto da chi faceva anche il lavoro degli altri. Quante volte mi fermavo ad osservare questa briciola di società, cercando di non darlo a vedere... Che teste... la fine del mese innanzitutto, il venticinque, il giorno di stipendio sopra tutto, che tristezza... Ora non ci sono più quelle persone, che non ho mai chiamato e considerato colleghi o amici, ed in fondo mi mancano...
Mi avvicinano i silenzi a queste stanze, inabitate, rese vuote.
La capacità di udire si è moltiplicata, ascolto il pulsare del mio sangue, le tempie battono liberamente, mi ritrovo a ordinare pensieri che il tempo ha sfilacciato inesorabilmente, qui, in questo angolo di pianura, dove puntualmente come un Orfeo confuso mi volto, ma volutamente, certamente, inevitabilmente, a guardare il giorno, il mio giorno, senza fare nulla per evitare che esso sprofondi fino a sera.
Sarò qui per l'ultimo treno, quello definitivo, quello che chiuderà il conto...
Salirò sul treno per Krimisa, Hipponion, Locri Epizefiri, un treno sospinto da piccoli opliti, un treno per Reggio, dove pensavo, da bambino, che finisse la ferrovia, che non ci fosse nulla oltre, che alla fine dei binari i treni fossero inghiottiti dalla fata Morgana, e invece rinascevano appena dopo mezzanotte, col primo diretto per Bari, quello che mi svegliava ogni notte e il mio sudore cercava il sudore ferito di mia madre.
Ma per l'ultimo treno, per quello c'è sempre tempo, e posto al finestrino.

Dicembre 2003.

6 commenti:

  1. Sono completamente dentro questa storia, mi fai venire voglia di essere quardiablocco e anche nebbiosa pianura. Forse è questa la magia del raccontare, la possibilità concessa di andare avanti. Fascinazione assoluta.

    R&V

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  2. Mio caro amico... dette da te, queste parole assumono per me una importanza particolare, perché so bene che leggendo non ti sarai fermato alla superficie delle righe, e potresti anche farmi pentire di non aver mai cominciato a scrivere seriamente, secondo i canoni correnti. Ma mi sarebbe sembrato di chiedere troppo, e a me basta dare. Grazie.

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  3. Dimeticavo, mio caro R&V, che nel tuo commento hai usato il termine 'guardiablocco', e devo dirti che questa dizione è quella esatta e contemplata dai regolamenti. La parola 'guardablocco'da me usata ha motivazioni che credo non necessitino di spiegazioni...

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  4. Anch'io non ho voluto scrivere per trent'anni. Poi, armandomi di leggerezza, mi sono detto: perché no, lo farò giocando. In realtà, il gioco non esiste, ma ormai... Quel che davvero non so è se sarò capace di rifarlo. Come dici tu : boh!

    R&V

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  5. Sembra più un viaggio "onirico" che un tuffo nel passato. Comunque sensazioni forti che solo le ferrovie di un tempo sapevano dare, e bravo l'autore che riesce a trasmettere un così intenso sentire.
    Parola del guardablocco che fui.

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  6. L'anonimo 'guardiablocco che fu' dice bene, quasi certamente... io non lo so più, è passato troppo tempo. E troppi treni. Grazie.

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